Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-03-2012, n. 3307 Amministrazione Pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 21.12.2009, la Corte di Appello di Salerno, affermata la legittimazione passiva del Ministero della Salute, rigettava il gravame proposto da V.A., inteso a ad ottenere la riforma della decisione di primo grado che aveva respinto il ricorso dalla predetta proposto al fine di ottenere l’accertamento del diritto a fruire dell’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 1 in quanto affetta da epatite virale di tipo C, conseguenza, a suo dire, dell’emotrasfusione subita il (OMISSIS). Lo specialista infettivologo, nominato in sede di gravame aveva concluso per l’esclusione del nesso causale e la Corte territoriale osservava che le valutazioni compiute in sede amministrativa non comportavano affatto che in sede di giudizio ordinario non potesse essere devoluta l’intera questione medico-legale, in base a c.t.u. disposta nel corso del procedimento giudiziale. Rilevava che la condizione morbosa era di rilevanza ancora limitata sia sul piano clinico che su quello medico legale e che il Ctu aveva espresso molti dubbi sulla rispondenza del processo morboso al criterio cronologico ed a quello dell’esclusione di altre possibili cause, potendo essere numerosi gli elementi riferiti a possibili contagi e potendo avere avuto efficienza causale ai fini della contrazione del virus il ricovero in casa di cura privata del (OMISSIS) per miomatosi uterina, nel corso del quale la V. era stata sottoposta ad isterectomia. Anche in ordine al criterio cronologico lo specialista aveva evidenziato che gli esami eseguiti nel (OMISSIS) erano rivelatori di un evento ben difficilmente collocabile trentatre anni prima, essendo, piuttosto, da ritenere che i dati emersi fossero con più certezza riferibili ad un infezione probabilmente non molto antica, anzi relativamente recente, come si evinceva anche dalla ecografia della milza e dalla stessa biopsia epatica, li C.t.u. officiato aveva pure rilevato che la condizione della periziata poteva avere una risposta favorevole alla terapia, con stabilizzazione clinica e senza evoluzione verso la cirrosi e le altre forme di patologia epatica avanzata, con difficile ascrivibilità tabellare della situazione patologica riscontrata.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre la V., con quattro motivi, illustrati in memoria.

Resistono Ministero della Salute e Regione Campania, con distinti controricorsi.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la V. denunzia l’insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, concernente la mancata contestazione in giudizio della sussistenza del nesso causale tra infezione HCV ed emotrasfusione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando che essa istante aveva censurato la sentenza di primo grado evidenziando che il nesso causale doveva ritenersi dato pacifico ed acquisito, non oggetto di contestazione delle parti resistenti. Invoca il principio di non contestazione e rileva che la Corte territoriale avrebbe dovuto fornire una motivazione non carente in conformità a tale principio.

Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la nullità della sentenza e del procedimento, per violazione degli artt. 112, 115 e 416 c.p.c. e dell’art. 11 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, invocando il principio dell’onere di contestazione tempestiva a carico delle parti, con effetti vincolanti e preclusivi in virtù dei doveri di lealtà e probità e del principio di economia processuale costituzionalizzato ed evidenziando che le espletate consulenze tecniche disposte d’ufficio hanno soltanto espresso dubbi sulla sussistenza del nesso causale, ma non hanno negato l’esistenza dello stesso.

Con il terzo motivo, la V. lamenta l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio riguardante la sussistenza de nesso causale e l’ascrivibilità tabellare della patologia HCV, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, sostenendo che non risulta nella decisione impugnata illustrato il percorso logico giuridico che ha indotto il giudicante a ritenere l’insussistenza del nesso causale, sebbene su otto criteri, ben sei (efficienza lesiva qualitativa e quantitativa, criterio clinico, modale, topografico) erano rispettati, ad eccezione del criterio cronologico e di quello di esclusione di altre cause.

Assume che anche il criterio epidemiologico era tale da indurre all’opzione interpretativa dell’infezione post trasfusionale, in quanto non esistevano nel 1973 tecniche idonee a ridurre il rischio di contagio e che non era stato considerato che, in base ai principi disciplinanti la materia, non era richiesta la certezza scientifica del nesso e non era stata correttamente applicata la regola della preponderanza dell’evidenza o del "più probabile che non". Su altro versante censura la affermazione relativa alla difficile ascrivibilità tabellare della patologia contratta ed evidenzia la possibilità che ad un quadro clinico silente prolungato possa essere sottesa una progressione della patologia, con compromissione anatomofunzionale dell’organo epatico, ascrivibile, almeno, alla 4^ categoria tabellare, con 40% di danno biologico indennizzabile secondo le previsioni della Tabella A allegata al D.P.R. n. 915 del 1978, sostituita dalla tabella A allegata al D.P.R. n. 384 del 1981 ed afferma l’equiparabilità di quella sofferta, caratterizzata da elevata viremia ed elevata ipergamma, a patologie dell’8^ categoria.

Infine, con l’ultimo motivo, censura la decisione per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, dolendosi della acritica ed inspiegata condivisione delle conclusioni della relaizone di c.t.u., nonostante le argomentazioni e rilievi critici svolti dall’appellante nelle note prodotte, il tutto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. In particolare, sostiene che al ricovero del 1989 non poteva essere attribuito valore interruttivo del nesso di causalità e che, secondo il criterio della ragionevole probabilità scientifica, il fatto successivo non poteva reputarsi idoneo ad interrompere il nesso causale. Infine, evidenzia che i valori elevati di carica virale escludevano lo stato di quiescenza della patologia e consigliavano un trattamento antivirale invasivo con interferone o ribavirina, donde l’impossibilità per il giudice di condividere acriticamente le risultanze della c.t.u. senza esame dei rilievi critici avanzati.

Il primi due motivi, che possono trattarsi congiuntamente, per la connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto, sono infondati.

Deve rilevarsi che anche nelle ipotesi di malattia professionale denunziata dal lavoratore, con riferimento ai casi di patologie non tabellate, per i quali non scatta la presunzione del nesso causale, si ha una scissione tra oneri di allegazione ed oneri probatori, e la prova offerta dal lavoratore deve essere integrata dall’ufficio tramite c.t.u. con l’individuazione, nelle lavorazioni cui afferiscono le mansioni, delle sostanze usate e quindi dell’agente morbigeno tabellare. Pertanto, in tutti i casi nei quali non scatta la presunzione del nesso causale, nei termini precisati, questo deve essere provato trattandosi di fatto "sui generis", senza la disponibilità dei relativi mezzi istruttori, rimessi alla scienza medica, in persona del c.t.u., essendovi una scissione tra oneri di allegazione del ricorrente ed oneri probatori (Cass. 15 maggio 2007 n. 11087). A maggior ragione, nel caso considerato, in cui la situazione del danneggiato è estranea alla sua posizione lavorativa, deve ritenersi che il principio di non contestazione non sia utilmente invocabiie in relazione a fatto per il quale il soggetto non ha la disponibilità dei relativi mezzi istruttori e che, quindi, anche dal punto di vista del correlativo onere di contestazione a carico del resistente non trova ragion d’essere la censura avanzata, non potendo tale parte contestare o richiedere prova nei termini preclusivi stabiliti dal codice di rito in relazione a fatti e circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano nella disponibilità delle parti quanto ai relativi oneri probatori.

Deve, dunque, rilevarsi che correttamente il giudice del gravame ha demandato a consulente tecnico d’ufficio l’accertamento del nesso causale tra patologia ed emotrasfusione praticata nel settembre 1973 alla V..

Anche con riguardo alla evidenziata carenza motivazionale circa la accertata insussistenza de nesso causale, in base alla rilevata insussistenza di due tra gli otto criteri di individuazione del nesso eziologico, la censura di cui al terzo motivo di ricorso è destituita di giuridico fondamento.

In tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione "ex ante" – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio (principio affermato da Cass. s. u. con sentenza 11.1.2008 n. 576, in materia di patologie conseguenti ad infezione con i virus HBV (epatite B), HIV (AIDS) e HCV (epatite C) contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni).

L’indennizzo dovuto ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati previsto dalla L. n. 210 del 1992 ha natura non già risarcitoria ma assistenziale in senso lato, riconducibile alle prestazioni poste a carico dello Stato sociale in ragione del dovere di solidarietà sociale ed alternativo rispetto alla pretesa risarcitoria volta ad ottenere l’integrale risarcimento dei danni subiti in conseguenza del contagio, ma anche per il riconoscimento del relativo diritto il rapporto di causalità tra trasfusione e patologia contratta, in applicazione del criterio ampiamente seguito dalla giurisprudenza, può essere dimostrato su base probabilistica in base ai canoni propri della scienza medica. Ai fini del sorgere del diritto all’indennizzo previsto in favore di coloro che presentino danni irreversibili, la prova a carico dell’interessato ha, dunque, ad oggetto, a seconda dei casi, l’effettuazione dell’emotrasfusione, il verificarsi dei danni anzidetti, e il nesso causale tra questi e la prima, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica, considerando che il nesso causale non è interrotto dal verificarsi di un fatto successivo, anch’esso probabilisticamente idoneo a determinare la patologia, qualora non risulti in concreto provato che la prima causa, benchè astrattamente idonea a provocare l’evento pregiudizievole, non lo avesse in effetti determinato (cfr. Cass. 17.1.2005 n. 753).

Orbene, come è dato leggere nella sentenza impugnata, il CTU designato ha osservato che, per un verso, dal punto di vista cronologico, nel caso esaminato la forma patologica si era concretizzata con evidenze cliniche a distanza ultratrentennale dalla emotrasfusione praticata, non compatibile, in base a dati univoci della letteratura scientifica, con la tesi della contrazione del virus per effetto della stessa e, per altro verso, che, anche sotto il profilo dell’incidenza di altre cause di contagio, non poteva escludersi la correlazione con un successivo ricovero cui era stata sottoposta la ricorrente. A parere del CTU officiato, era, dunque, da escludersi il collegamento causale e cronologico con la emotrasfusione del (OMISSIS) e tanto è stato reputato sufficiente dalla Corte territoriale per ritenere che il criterio probabilistico non fosse rispettato anche per la impossibilità di considerare come concausa concorrente il successivo ricovero nel corso del quale era stato praticato intervento di isterectomia.

A fronte di tali evidenze scientifiche, la ricorrente nulla ha dedotto sul piano di diversa e più corretta teoria scientifica idonea a confutare l’impostazione seguita dall’ausiliare e recepita in sentenza, limitandosi ad osservare che nelle indagini medico legali era mancata ogni considerazione degli ulteriori enunciati criteri di valutazione, evidentemente non ritenuti rilevanti dall’ausiliare e per i quali è mancata ogni dimostrazione, a livello scientifico, della relativa incidenza e rilevanza ai fini del giudizio di accertamento de nesso causale.

Quanto alla decisività del vizio di motivazione prospettato, la critica non risulta conforme, pertanto, a quella richiesta da consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità, pur nell’innegabilità del principio di massima salvaguardia del diritto alla salute costituzionalmente sancito.

Ed invero, è principio consolidato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte che nel giudizio in materia di accertamento medico legale, qualora il giudice del merito si sia basato sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, affinchè sia denunciabile in cassazione il vizio di omessa o insufficiente motivazione della sentenza, è necessario che eventuali errori e lacune della consulenza, che si riverberano sulla sentenza, si sostanzino in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche o scientificamente errate, non già in semplici difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e il valore diverso allo stesso attribuito dalla parte (Cass 8.12.2010 n. 22707; Cass 12.1.2011 n. 569). Più specificamente è stato ribadito che nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. di tipo medico-legale recepita dal giudice, affinchè i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i relativi vizi logico-formali si concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere considerazioni sulle prospettazioni operate dalla controparte, che si traducono in una inammissibile critica del convincimento del giudice di merito che si sia fondato, per l’appunto, sulla consulenza tecnica (v. tra le tante, Cass. 25.8.2005 n. 17324).

Ogni altro rilevo attinente al verificarsi di un danno di tipo irreversibile a causa dell’emotrasfusione risulta assorbito dalle considerazioni che precedono, senza considerare che, in base a principio affermato da questa stessa Corte, la normativa di tutela dettata dal combinato disposto dell’art. 4, comma 4, art. 2, comma 1, della L. n. 210 del 1992, art. 2, comma 1, riferita ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, che prevede l’indennizzo in favore dei suddetti soggetti, non trova applicazione nei casi di lesioni pur permanenti dell’integrità psicofisica che non hanno però – come nel caso esaminato, in ragione dello stato "quiescente" della infermità, incidenza alcuna sulla capacità di produzione del reddito, con la conseguenza che non può essere riconosciuto il diritto a percepire il suddetto indennizzo da parte del soggetto affetto da contagio HCV che, per non presentare sintomi e pregiudizi funzionali attuali, stante l’assenza di citolisi epatica in atto, è portatore di una infermità non rientrante in alcuna delle categorie richiamate dalla tabella A annessa al D.P.R. n. 834 del 1981 (cfr., in tali termini, Cass 24 giugno 2008 n. 17158).

Infine, anche le critiche avanzate nel quarto motivo di ricorso rifluiscono nelle stesse osservazioni svolte in merito a quanto sostenuto nel precedente motivo, onde, alla luce delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere respinto.

Le spese di lite del presente giudizio, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico della ricorrente e liquidate nella misura stabilita in dispositivo in favore di ciascuna delle parti controricorrenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate, in favore di ciascuna delle parti controricorrenti, in Euro 40,00 per esborsi, Euro 1.800,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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