Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-03-2012, n. 3297 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 16/5/06 – 21/12/07 la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’impugnazione proposta dalla COPMA soc. coop. a r.l. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Ferrara che l’aveva condannata a reintegrare P.M. nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni sulla base dell’accertata illegittimità del contratto a termine stipulato il 16/6/97 e del licenziamento intimato solo tre giorni dopo per il dedotto e mai provato mancato superamento del periodo di prova; nel contempo, la Corte territoriale ha accolto l’appello incidentale svolto dal lavoratore, attraverso il quale era stata contestata la decisione di limitazione del risarcimento del danno al periodo corrente tra il licenziamento ed il reperimento di una nuova occupazione, condannando, di conseguenza, la società al risarcimento nella misura minima di cinque mensilità, così come previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4. La Corte bolognese è pervenuta a tale decisione sulla base delle seguenti considerazioni: dalla lettura del contratto a termine intercorso tra le parti non emergeva la sussistenza del dedotto patto di prova; i riferimenti contenuti in detto contratto erano insufficienti ai fini dell’assolvimento degli obblighi di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1; l’appellante non aveva censurato la parte della decisione incentrata sulla rilevata nullità dell’apposizione del termine, essendosi limitata a sostenere che le mansioni di sfalcio dell’erba, pur non essendo comprese tra i lavori stagionali di cui al D.P.R. n. 1525 del 1963, dovevano considerarsi assimilate all’attività agricola, non prevista tra le tipologie dei contratti a termine di cui alla L. n. 230 del 1962; il provvedimento espulsivo, rappresentato dalla prima lettera del 18/6/97, era illegittimo in quanto del tutto carente della specificazione del motivo; la successiva lettera del 3/7/97 di spiegazioni del licenziamento era da considerare ininfluente, non potendo valere come conferma di un fatto mai addotto; le allegazioni svolte dall’appellante in ordine ai presunti danni provocati dal lavoratore erano infondate, in quanto attraverso le stesse era dedotto un licenziamento disciplinare rispetto al quale non era stata, in realtà, osservata la procedura di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7; era, invece, fondato l’appello incidentale, posto che la misura del risarcimento non poteva essere diversa da quella minima prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il P., il quale affida l’impugnazione a cinque motivi di censura.

Resiste con controricorso la COPMA soc. coop. a r.l..

Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Come primo motivo di censura viene denunziata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’asserita mancata impugnazione della sentenza di primo grado nel punto relativo al sancito carattere indeterminato del rapporto di lavoro, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il suddetto aspetto. In concreto, la ricorrente contesta la sentenza nella parte in cui, immediatamente dopo la rilevata insussistenza del dedotto patto di prova e l’accertata insufficienza dei riferimenti agli obblighi posti dalla L. n. 230 del 1962, art. 1 per l’accesso ai contratti a termine, si statuisce che l’appellante non si era fatta carico di censurare e confutare l’affermazione del primo giudice, essendosi limitata ad asserire apoditticamente che le mansioni di sfalcio dell’erba, pur non essendo comprese fra i lavori stagionali di cui al D.P.R. n. 1525 del 1963, avrebbero dovuto essere considerate come assimilate all’attività agricola, non contemplata dalla L. n. 230 del 1962.

A conclusione del motivo si chiede, quindi, di accertare se l’acquiescenza ad un punto della sentenza possa ritenersi sussistere solo quando l’interessato abbia posto in essere atti assolutamente incompatibili con la volontà di impugnare la pronuncia, atteso che nella fattispecie non risulterebbe chiaro dal tenore della decisione di secondo grado quale sarebbe stata la statuizione di prime cure non impugnata; qualora, dovesse, invece, ritenersi che la statuizione non impugnata è quella sulla affermata nullità del termine apposto al contratto, secondo la ricorrente emergerebbe, al contrario, dal tenore del ricorso d’appello, la sua volontà di proporre il gravame anche avverso tale capo della pronunzia di primo grado. Il motivo è infondato.

Anzitutto, dalla lettura della parte della sentenza oggetto della presente censura si deduce che il giudice d’appello intendeva evidenziare sia l’insussistenza del dedotto patto di prova che la insufficienza dei riferimenti contrattuali utili alla configurazione della ricorrenza di una delle ipotesi di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1 sui contratti a termine. Orbene, la constatazione della mancanza di censure alle affermazioni del primo giudice è da intendere riferita alla mancanza di censure specifiche sulla statuizione relativa all’accertata illegittimità del termine, posto che la medesima Corte territoriale mette in risalto il fatto che l’appellante si era limitata ad affermare apoditticamente che le mansioni di sfalcio dell’erba, pur non essendo comprese tra i lavori stagionali di cui al D.P.R. n. 1525 del 1963, avrebbero dovuto essere considerate assimilabili all’attività agricola, esclusa, invece, dalla previsione della L. n. 230 del 1962. Pertanto, sussiste un doppio riferimento che conduce logicamente a ritenere che la statuizione non censurata specificatamente con l’appello era proprio quella sulla rilevata illegittimità dell’apposizione del termine:

infatti, nella sentenza oggi impugnata è, da un lato, richiamata la categoria dei lavori stagionali che rientrano nelle ipotesi di ricorso alla tipologia dei contratti a termine di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1 al fine di escludere che potessero farne parte quelli oggetto del contratto in esame, e, dall’altro, è fatta menzione all’attività agricola che non è direttamente contemplata dalla normativa dei contratti a termine, al fine di evidenziare il tentativo infruttuosamente svolto dalla società di assimilare a quest’ultima attività quella oggetto di contratto.

Resta, in ogni caso, fermo che dalla lettura dei motivi d’appello illustrati nel presente ricorso, nel rispetto del principio dell’autosufficienza che governa il giudizio di legittimità, non emerge che fu proposto un motivo specifico di impugnativa avverso il capo della sentenza di primo grado che accertava la nullità dell’apposizione del termine al contratto in esame.

2. Col secondo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. e della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 6 del D.L. n. 7 del 1970, art. 1 come convertito dalla L. n. 83 del 1970, nonchè degli artt. 1 e 21 del ccnl degli operai agricoli e florovivaisti del 19/7/1995, oltre che degli artt. 1 e 19 CIPL per gli operai agricoli della Provincia di Ferrara dell’8/9/1993, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; si deduce, altresì, l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e con riferimento al carattere determinato del rapporto di lavoro intercorso tra P.M. e COPMA Scalr.

Si addebita alla Corte di aver errato nel ritenere che costituisse eccezione nuova nella sede di appello quella diretta a sostenere l’assimilabilità dell’attività di sfalcio dell’erba all’attività agricola, come tale sottratta alla disciplina normativa dei contratti a termine. Si sostiene, in pratica, che la deduzione svolta in prime cure circa la natura stagionale dell’attività oggetto di contratto implicasse anche quella del suo carattere agricolo, essendo la stagionalità un presupposto del lavoro agricolo. Ciò sarebbe confermato, secondo la ricorrente, anche dal fatto che nel contratto di lavoro era richiamata l’applicazione del contratto collettivo dei Florovivaisti.

Il motivo si conclude col quesito diretto ad accertare quanto segue:

a) se si ha domanda nuova quando sia modificato nei suoi elementi materiali il fatto costitutivo della pretesa, con prospettazione di circostanze non dedotte in precedenza, e non anche allorquando sia modificato solo il profilo giuridico o la norma dedotta a sostegno del fatto costitutivo; b) se con riferimento alle norme di cui alla L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 6 D.L. n. 7 del 1970, art. 1 come convertito dalla L. n. 83 del 1970, artt. 1 e 21 del CCNL del 19/7/95 per gli operai agricoli e florovivaisti ed artt. 1 e 19 CIPL per gli operai agricoli della Provincia di Ferrara dell’8/9/93 il rapporto di lavoro dell’operaio comune florovivaista sia un rapporto di lavoro agricolo a tempo determinato, con conseguente legittimità del termine apposto allo stesso, anche se con riguardo allo svolgimento delle mansioni non previste nell’elenco del D.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, ma contemplate nel contratto integrativo provinciale del lavoro.

Il fatto controverso dedotto con lo stesso motivo è l’omessa motivazione sul principio di diritto di cui alla precedente lettera b) laddove si afferma come semplicemente "acclarata" la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.

Il motivo è infondato.

E’, invero, corretta la decisione della Corte di merito nella parte in cui rileva la novità dell’eccezione incentrata sulla supposta natura agricola dell’attività oggetto di contratto, anzichè su quella stagionale, così com’era stata dedotta in prime cure dalla odierna ricorrente. Infatti, non può non rilevarsi che si è in presenza di un mutamento di una situazione di fatto, a sua volta foriero di diverse conseguenze giuridiche, in quanto in primo grado il "thema probandum" sulla legittimità dell’apposizione del termine si era sviluppato sulla ricorrenza o meno della allegata ipotesi della stagionalità dell’attività oggetto di contratto, a sua volta prevista espressamente dalla L. n. 230 del 1962, art. 1 come possibile causa di ricorso alla tipologia dei contratti a termine, e non certo sull’attività agricola. Nè può condividersi il ragionamento sulla incondizionata equiparazione tra attività agricola e stagionale, per cui la prima rappresenterebbe la regola del rapporto a termine, posto che si tratta di una mera petizione di principio, oltretutto contraddetta proprio dal citato riferimento all’art. 21 del ccnl degli operai florovivaisti, indicato dalla medesima ricorrente come esempio di contratto disciplinante una tipica attività agricola, nel quale si prevede, invece, la duplice possibilità che il contratto possa essere sia a tempo indeterminato che a termine. Nè può sottacersi l’improcedibilità del motivo nella parte in cui i rilievi critici alla sentenza, sia in punto di denunziata violazione di norme collettive che di vizio motivazionale, sono sviluppati sulla base del richiamo a singole norme della citata contrattazione collettiva della quale è, però, prodotta solo un estratto. Come, infatti, hanno avuto modo di statuire le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U., n. 20075 del 23/09/2010), l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 420 bis c.p.c., comma 2, la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale. Ove, poi, la Corte ritenga di porre a fondamento della sua decisione una disposizione dell’accordo o contratto collettivo nazionale depositato dal ricorrente diversa da quelle indicate dalla parte, procedendo d’ufficio ad una interpretazione complessiva ex art. 1363 cod. civ. non riconducibile a quanto già dibattuto, trova applicazione, a garanzia dell’effettività del contraddittorio, l’art. 384 c.p.c., comma 3, (nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 12), per cui la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al P.M. e alle parti un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a sessanta dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione". 3. Oggetto del terzo motivo di doglianza è sia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto si sostiene l’erroneità della decisione nella parte in cui ha sancito l’illegittimità del licenziamento per la mancata comunicazione contestuale dei relativi motivi, sia il difetto di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per la mancata ammissione della prova testimoniale ai fini della dimostrazione della legittimità del licenziamento.

Il quesito di diritto proposto al riguardo è teso ad accertare se sussiste un obbligo di comunicazione dei motivi contestualmente alla comunicazione del licenziamento ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 2.

Si osserva che il quesito è inconferente, data la sua genericità, rispetto alla motivata condivisione, da parte della Corte d’appello, della decisione del giudice di prime cure di non ammettere la prova per testi in ordine alla verifica della motivazione del recesso:

infatti, una risposta al quesito nei termini auspicati dalla difesa della ricorrente lascerebbe, comunque, impregiudicata la validità della autonoma "ratio decidendi" posta a base dell’impugnata statuizione di diniego della prova orale, vale a dire la rilevata insussistenza della specificazione dei motivi del recesso nella lettera del 18 giugno 1997 e la ritenuta ininfluenza della lettera del 3 luglio 1997 che, in base alla logica riflessione della Corte di merito, non poteva valere da conferma di un fatto mai addotto.

4. Si addebita alla Corte d’appello la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 113 c.p.c., oltre che degli artt. 434 e 437 c.p.c., in quanto la medesima non avrebbe rispettato il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, posto che il dipendente si era lamentato della mancanza di una giusta causa o di un giustificato motivo del recesso e non della inosservanza della procedura di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7; inoltre, si aggiunge che la Corte sarebbe incorsa in errore nel ritenere la natura disciplinare del licenziamento e la sussistenza, in ogni caso, di una causa di illegittimità dello stesso per inosservanza delle norme del procedimento disciplinare.

Si chiede, pertanto, di accertare se la qualificazione, da parte del giudice d’appello, della natura disciplinare del licenziamento, non dedotto come tale nel ricorso di primo grado, rappresenti violazione dei principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

Il motivo è infondato, non essendo ravvisabile nella fattispecie la denunziata violazione del divieto di pronunzia "ultra petita partium".

Infatti, la Corte d’appello ha dovuto esaminare la dedotta gravità dell’episodio che, secondo la stessa prospettazione difensiva della parte datoriale, giustificava il recesso intimato, vale a dire lo sfalcio dell’erba eseguito con asserita notevole negligenza dal dipendente, come tale fonte del lamentato danno. Orbene, la medesima Corte è pervenuta alla conclusione che, da un lato, dovevano essere ribadite le ragioni illustrate a sostegno dell’accertata mancanza di motivi atti a giustificare il recesso e, dall’altro, che se si fosse voluto esaminare il merito delle doglianze addotte nel corso del procedimento dalla società appellante a giustificazione dell’intimato recesso sarebbe stato necessario verificare, in considerazione della natura disciplinare della inadempienza ascritta al P. nello svolgimento della sua prestazione lavorativa, il rispetto delle procedure di garanzia di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 la cui inosservanza rendeva, sotto tale aspetto, illegittimo il licenziamento stesso. In definitiva, la Corte territoriale non ha valutato un fatto diverso da quello indicato dall’appellante a giustificazione dell’impugnato recesso, ma ha, per completezza di indagine, qualificato quest’ultimo attribuendo una finalità disciplinare allo stesso fatto che lo avrebbe determinato, esercitando, in tal modo, un’attività valutativa che appartiene in via esclusiva al giudice.

5. Ci si duole della violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2 e della L. n. 300 del 1970, art. 18 in relazione all’art. 30 c.p.c., comma 1, n. 3 c.p.c., sostenendosi che tali disposizioni normative, previste per la disciplina del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non potevano applicarsi ad una fattispecie, quale quella di cui ci si occupa, caratterizzata dalla conclusione di un contratto di lavoro agricolo a tempo determinato, per cui si chiede di accertare se ad un tale genere di contratto sia applicabile la disciplina dei licenziamenti dettata dalla L. n. 604 del 1966 e dalla L. n. 300 del 1970.

Il motivo è infondato per la semplice ragione che una volta accertata l’illegittimità dell’apposizione del termine al contratto, con conseguente trasformazione del rapporto lavorativo in rapporto a tempo indeterminato, ed una volta verificata l’illegittimità del licenziamento intimato nel corso dello stesso, oltre che la sussistenza dei presupposti della tutela reale, ricorrevano le condizioni per l’applicazione delle summenzionate disposizioni normative in materia di licenziamento.

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorario e di Euro 50,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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