Cass. civ. Sez. V, Sent., 02-03-2012, n. 3290 Plusvalenze

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L’Agenzia delle Entrate ricorre nei confronti della sig.ra E. K. per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, confermando la sentenza di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento per IRPEF 1998, con il quale l’Ufficio aveva recuperato a tassazione la plusvalenza derivante dalla vendita di una quota di partecipazione della contribuente nella società Roberto Cervolini & C. srl.

Secondo la Commissione Tributaria Regionale la plusvalenza andava determinata non con riferimento al valore di mercato della quota sociale venduta, bensì con riferimento al corrispettivo effettivamente percepito dalla venditrice e l’Ufficio non aveva assolto al proprio onere di dimostrare che la contribuente avesse ottenuto dalla vendita di detta quota un prezzo maggiore di quello dichiarato nell’atto. Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate si fonda su due motivi, rispettivamente rubricati come "Violazione del D.L. n. 27 del 1991, artt. 1 e 2 (convertito con la L. n. 102 del 1991), D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, art. 2697 c.c. e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 82 (nel testo all’epoca vigente), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 " e come "Violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3".

La sig.ra K. resiste con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale su un motivo, con il quale lamenta: "Violazione del principio secondo il quale l’oggetto dei giudizio tributario è delimitato dalla motivazione dell’atto di accertamento, nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3". La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 9.2.12, in cui il P.G. ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

Preliminarmente si deve procedere alla riunione del ricorso incidentale a quello principale, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Col primo motivo del ricorso principale l’Agenzia – premesso di non contestare che, ai fini della determinazione della plusvalenza soggetta all’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi di cui al D.L. n. 27 del 1991, si debba avere riguardo al corrispettivo percepito dal venditore e non al valore c.d. "normale" della quota D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 9, comma 4, lett. b), (ossia il valore determinato in proporzione al valore del patrimonio netto della società) – afferma che in sede di merito l’Ufficio aveva offerto la prova induttiva del corrispettivo percepito dalla contribuente mediante la dimostrazione del valore c.d. "normale" e la presunzione (che sarebbe stato onere della contribuente superare) che il prezzo effettivo di vendita corrispondesse a detto valore normale (e non alla minor somma dichiarata in contratto); cosicchè la Commissione Tributaria Regionale, negando l’efficacia di detta presunzione, sarebbe incorsa nella violazione delle norme indicate in rubrica e, in particolare, nella violazione del principio di diritto secondo cui il valore c.d. "normale" D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 costituirebbe parametro idoneo (fino a prova contraria, a carico del contribuente) all’accertamento presuntivo del corrispettivo di compravendita di una partecipazione societaria. Al riguardo va preliminarmente osservato che, in relazione alla data dell’atto che ha generato la plusvalenza per cui è causa (17.2.98, come risulta dalla sentenza gravata), la relativa disciplina tributaria va rinvenuta nel D.L. 28 gennaio 1991, n. 27 convertito, con modificazioni, con la L. 25 marzo 1991, n. 102. E’ quindi fuori discussione, e di ciò da espressamente atto la stessa ricorrente, che il diminuendo sul quale calcolare la suddetta plusvalenza è, per la chiara lettera della legge, il "corrispettivo percepito" e non il valore c.d. "normale" della quota D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9, comma 4, lett. b).

Tanto premesso, la difesa erariale sostiene che, ai fini dell’accertamento del suddetto corrispettivo opererebbe una presunzione di conformità del medesimo al valore "normale" D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 della quota compravenduta;

presunzione che spetterebbe al contribuente superare, offrendo la prova di avere percepito dalla vendita della quota un prezzo inferiore, corrispondente a quello dichiarato nell’atto di compravendita. A sostengo di tale tesi la ricorrente richiama la pronuncia di questa Corte n. 10802/02, nella quale – sulla premessa che, in tema di imposte sui redditi, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, del quale il contribuente non fornisca spiegazioni, è legittimo l’accertamento del reddito ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) – si afferma l’esistenza di un principio generale, desumibile dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, in base al quale l’Amministrazione è tenuta a valutare ai fini fiscali le varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito secondo il normale valore di mercato. Sotto altro profilo, la difesa erariale invoca il pacifico orientamento di legittimità secondo cui, ai fini dell’accertamento della plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di azienda, l’Amministrazione finanziaria può legittimamente utilizzare come dato presuntivo il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato. Il ragionamento della ricorrente non è persuasivo.

Il richiamo ai principi espressi nella sentenza di questa Corte n. 10802/02 non è pertinente, perchè quei principi – enunciati nell’ambito di una controversia concernente la deducibilità, ai fini della determinazione del reddito di impresa, di costi esposti per importi sensibilmente maggiori rispetto ai prezzi praticati comunemente sul mercato – concernono appunto i criteri per la valutazione fiscale delle componenti, positive o negative, del reddito di impresa. Nella presente fattispecie, per contro, non si tratta di valutare una componente di un reddito di impresa, ma di accertare un fatto (il corrispettivo della cessione di una quota di partecipazione societaria) rilevante ai fini del calcolo di plusvalenze "diverse da quelle conseguite nell’esercizio di imprese commerciali" (così il D.L. n. 27 del 1991, art. 1), ossia di redditi classificati come redditi "diversi" D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 81, lett. c) e c) bis, applicabile alla data del 17.2.98. La differenza tra tali situazioni è stata illustrata da questa Corte con la sentenza 21044/07, nella quale – dopo aver precisato che, ai sensi del D.L. n. 27 del 1991, art. 2 il minuendo da considerare nell’operazione di differenza è dato dal "corrispettivo" percepito per la "cessione a titolo oneroso" delle azioni o degli altri titoli indicati nella norma e non dal valore della quota proporzionato a quello del patrimonio netto della società (ossia il valore c.d.

"normale", che il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, comma 4, lett. b, impone di attribuire alle quote di società non azionarie ai fini del loro computo tra i redditi o le perdite) – sì chiarisce che "L’esposta diversità di regolamentazione normativa trova la sua intuibile ragione giustificatrice nella logica diversità delle fattispecie considerate da ciascuna, laddove si consideri che la norma del TUIR detta il criterio per la determinazione del valore da attribuire alle azioni ed ai titoli in essa indicati ai fini del concorso (in positivo o in negativo) degli stessi alla composizione (e, quindi, alla "determinazione ") del reddito complessivo del loro possessore mentre la disposizione speciale del 1991 ha inteso sottoporre a tassazione, quale reddito a sè stante, la diversa ricchezza manifestatasi con il trasferimento della titolarità (e di conseguenza anche del possesso) di quelle azioni o titoli". Deve quindi ritenersi, come pure espressamente ribadito nella sentenza n. 21044/07, che i principi affermati da questa Corte in tema di imposte sui redditi d’impresa siano congruenti con la regolamentazione legislativa di tale imposta, ma non con quella, diversa, dell’imposta sostitutiva sulle plusvalenze di cui al decreto L. n. 27 del 1991, oggetto della controversia. Da tanto discende che – per l’accertamento del corrispettivo di vendita di partecipazioni non azionarie, ai fini della determinazione della plusvalenza tassabile ai sensi del D.L. n. 27 del 1991, art. 2 – non può ritenersi sussistente alcuna presunzione legale di conformità tra il "corrispettivo percepito" ed il "valore normale" D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9.

Nè a diversa conclusione potrebbe condurre il richiamo della ricorrente all’orientamento di questa Corte secondo cui, ai fini dell’accertamento della plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione dell’azienda, il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro può essere legittimamente utilizzato dall’Amministrazione finanziaria come dato presuntivo, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato (Cass. 19548/05, 4057/07, 5070/11). Al riguardo va in primo luogo evidenziato che detto orientamento presuppone che il valore di mercato da utilizzare come dato presuntivo ai fini dell’accertamento della plusvalenza abbia formato oggetto di una determinazione definitiva nell’ambito di altro procedimento impositivo (relativo all’imposta di registro), laddove nella presente fattispecie il valore "normale" D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 della quota di partecipazione sociale che ha generato la plusvalenza di cui si discute non risulta essere stato definitivamente accertato in altri procedimenti impositivi. In secondo luogo, si osserva che l’indirizzo giurisprudenziale in questione non fa riferimento a presunzioni legali, ma valorizza la portata di presunzione semplice che può attribuirsi, per la determinazione della plusvalenza generata dalla cessione di un bene, al valore di mercato che per il medesimo bene è stato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro. Detto indirizzo non è dunque idoneo a supportare l’argomentazione svolta nel motivo di ricorso in esame, perchè con tale motivo la sentenza gravata viene censurata non sotto il profilo del vizio di motivazione ma sotto il profilo della violazione di legge.

Il primo motivo del ricorso principale, conclusivamente, va giudicato infondato, perchè la sentenza gravata non è incorsa in alcuna violazione di legge, in quanto le norme di cui la difesa erariale lamenta la violazione non prevedono alcuna presunzione legale di conformità tra il valore normale D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 9 di una partecipazione societaria e il corrispettivo percepito per la vendita della stessa. Ciò naturalmente – è opportuno chiarire – non esclude che l’accertamento del suddetto "valore normale" possa essere concretamente valorizzato dal giudice di merito per sorreggere la presunzione (semplice) che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato e, invece, conforme al "valore normale"; ma si tratta di valutazioni che rientrano nei poteri di accertamento del fatto del giudice di merito, al quale solo compete l’apprezzamento (non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione) circa il ricorso alla prova presuntiva, la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravita e concordanza richiesti dalla legge, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto (Cass. 11906/03, 15737/03, 10847/07, 8023/09). Può peraltro ancora aggiungersi che nel motivo in esame la ricorrente non solo, come già rilevato, non formula alcuna censura per vizio di motivazione della sentenza gravata, ma nemmeno deduce elementi astrattamente idonei a supportare una simile censura, giacchè proprio il rilievo, enfatizzato in ricorso, che la società che ha comprato la quota societaria ceduta dalla contribuente era controllata da quest’ ultima (e dal di lei marito) rende plausibile che la causa economico-giuridica di detta cessione non fosse di scambio, bensì di riallocazione di cespiti tra soggetti giuridicamente distinti ma economicamente riconducibili ad un unico centro di imputazione degli interessi; con la conseguenza che l’asserito scostamento tra il valore economico della quota ceduta il corrispettivo convenuto per la cessione può essere astrattamente spiegato con l’inserimento dell’operazione economica nella logica di una partita di giro infragruppo e, quindi, non autorizza l’inferenza che il corrispettivo dichiarato in contratto sia simulato e dissimuli un corrispettivo maggiore.

Col secondo motivo del ricorso principale l’Agenzia censura il passo della senza gravata con in cui si afferma che era onere dell’Ufficio motivare e provare la fondatezza della censure avanzate nei confronti della sentenza di primo grado.

Il motivo è inammissibile, perchè, come accenna la stessa ricorrente, l’affermazione della sentenza gravata che forma oggetto della censura è priva di autonoma rilevanza decisoria, in quanto la Commissione Tributaria Regionale non ha dichiarato inammissibile l’appello, ma lo ha respinto nel merito (affermando che l’Agenzia non aveva provato che la contribuente avesse percepito dalla vendita della partecipazione azionaria di cui si tratta un corrispettivo maggiore di quello dichiarato nell’atto di compravendita), cosicchè le considerazioni del giudice di appello sull’onere dell’appellante di contestare specificamente le motivazioni della sentenza del primo grado risultano estranee alla ratio decidendi e, in definitiva, meramente esornative. Il ricorso incidentale – con il cui unico motivo la contribuente censura la senza gravata per non aver dichiarato inammissibile l’appello dell’Agenzia contro la sentenza di primo grado, affermando che detto appello si fonderebbe su una prospettazione giuridica diversa da quella sviluppata nell’impugnato avviso di accertamento – resta assorbito dalla pronuncia di rigetto del ricorso principale. In definitiva si deve respingere il ricorso principale e dichiarare assorbito quello incidentale. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi principale e incidentale, rigetta il ricorso principale e dichiarare assorbito quello incidentale;

condanna la parte ricorrente a rifondere a quella contro ricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 6.000,00, oltre Euro 100,00 per esborsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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