Cass. civ. Sez. V, Sent., 02-03-2012, n. 3267 Accertamento Imposta reddito persone fisiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La società Assoli Dei Fratelli Asselti s.r.l. propone ricorso (successivamente illustrato da memoria) nei confronti dell1 Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) per la cassazione della sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Irpef e Ilor relativo all’anno di imposta 1991, la C.T.R. Puglia, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva accolto il ricorso della contribuente), confermava l’operato dell’Amministrazione Finanziaria. In particolare i giudici d’appello, premesso che l’accertamento opposto scaturisce da una verifica fiscale a carico della s.r.l. C.P.A. – principale fornitore della contribuente nel 1991 – nel corso della quale si erano evidenziate circostanze di fatto gravi, precise e concordanti che avevano indotto i militari della G.d.F. a ritenere che le operazioni di vendita di olio dalla predetta società alla Assoli fossero inesistenti, precisavano che dalla suddetta verifica era emerso: che la C.P.A. al momento della presunta vendita non aveva disponibilità del prodotto nei propri magazzini essendo risultato che solo fittiziamente si era rifornita di olio da altre ditte calabresi; che la contabilità della C.P.A, era tenuta dallo stesso soggetto che risultava difensore della Assoli; che la C.P.A. aveva preso in locazione un locale di 20 mq nel cui retroscala risultavano due posture in pietra della capacità di appena 90 e 130 quintali rispettivamente; che la C.P.A. possedeva un solo autocarro, in precarie condizioni, sul quale risultava installata una cisterna per oli minerali – pertanto impossibilitato al trasporto di olio di oliva – autocarro che era stato alienato due giorni dopo l’ultima vendita di olio; che nel 1991 la C.P.A. non aveva alcun dipendente; che la C.P.A. nell’arco di sei mesi aveva ricevuto fatture per fittizi acquisti di 21.868, 95 quintali di olio di oliva da nove imprese di cui 8 calabresi e una di Andria per un imponibile di L. 10.533.399.210; che la G.d.F. aveva accertato che le cinque ditte di Reggio Calabria che avrebbero venduto olio alla C.P.A. non avevano disponibilità di olio, avevano presentato denuncia di furto della documentazione contabile ed i rispettivi titolari erano legati tra loro da vincoli di parentela; che le tre ditte di Cosenza che avrebbero venduto olio alla C.P.A. avevano denunciato lo smarrimento della documentazione contabile ed i relativi titolari risultavano anch’essi legati tra loro da vincoli di parentela; che la documentazione della C.P.A. si limitava al periodo di sei mesi coincidente con gli acquisti e le vendite della Assoli, essendo stata messa in liquidazione nel 1992, così come in liquidazione era stata messa la Assoli dopo l’accertamento de quo;

che l’esistenza di assegni bancari non è significativa dell’effettiva esistenza delle operazioni commerciali, trattandosi di titoli dai quali non emerge il rapporto sottostante e ben potendo corrispondere all’assegno uno storno di pari importo. Quanto alla denunciata mancata rettifica dei ricavi a fronte della rettifica dei costi, i giudici d’appello affermavano che il potere di rettìfica è conferito al fisco per recuperare a tassazione i ricavi non evidenziati e non per procedere a correzioni della dichiarazione nell’interesse del contribuente, aggiungendo che nella specie non poteva trovare applicazione la simmetria costi-ricavi, trattandosi di costi inesistenti cui non corrispondono nel conto economico ricavi di pari importo e che, adducendo costi inesistenti, la contribuente aveva perseguito l’unico scopo di contenere il reddito imponibile dell’anno in considerazione.

2. Col primo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., nonchè art. 112 c.p.c., art. 113 c.p.c., comma 1, artt. 115 e 116 c.p.c., la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano ritenuto che l’Ufficio accertatore avesse adempiuto all’onere probatorio su di lui gravante facendo ricorso a presunzioni semplici benchè il fatto noto sul quale dovrebbe essere fondata la presunzione di utilizzazione di fatture inesistenti risulti soltanto supposto in un verbale della G.d.F. e nonostante tale fatto sia stato ritenuto inesistente da un giudice penale. 11 ricorrente si duole altresì del fatto che i giudici d’appello non abbiano esaminato tutte le eccezioni e contestazioni del contribuente e si siano avvalsi di presunzioni semplici prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza, omettendo Tesarne di precise prove documentali idonee a confutare il fondamento di quelle presunzioni.

Col tredicesimo motivo (da esaminare congiuntamente col primo perchè contenente censure in parte connesse), deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano ritenuto risolutiva la prova prodotta dalla società (consistente nelle fatture, le bolle di accompagnamento, gli assegni in copia fronte retro – in quest’ultimo caso solo perchè ad essi poteva corrispondere uno storno, peraltro ritenendo che non fosse compito dell’Ufficio provare il suddetto storno -) e non abbiano considerato ai fini della decisione le sentenze penali che assolvevano i soci e l’amministratore della C.P.A. per i reati ipotizzati a loro carico in relazione ai fatti per cui è causa nonchè la decisione "della Commissione Tributaria investita dell’esame del ricorso proposto dalla società medesima avverso il suddetto accertamento notificatole per maggiore imposta IVA11. Le censure esposte, da esaminare congiuntamente perchè parzialmente connesse, sono in parte infondate e in parte inammissibili. Occorre innanzitutto evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, in relazione all’accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative ad operazioni asseritamene inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata mai posta in essere incombe all’Amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento (e quindi l’esistenza di un maggior imponibile), ma tale avere può essere adempiuto, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione ira una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale (v. Cass. n. 1023 del 2008 e 10157 del 2010).

Occorre inoltre precisare che nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo rimessa la valutazione delle prove al prudente apprezzamento del giudice, con la conseguenza che il convincimento del giudice sulla verità di un fatto può basarsi anche su una presunzione, eventualmente in contrasto con altre prove acquisite, se da lui ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli altri elementi di giudizio ad esso contrari, alla sola condizione che fornisca del convincimento così attinto una giustificazione adeguata e logicamente non contraddittoria (v. tra le altre Cass. n. 9245 del 2007).

Giova peraltro sottolineare che l’omessa (o asseritamente non adeguata) valutazione di eventuali prove documentali fornite dalle parti è configuratale non come vizio di violazione di legge bensì come vizio di motivazione.

Quanto alla specifica denuncia di omessa valutazione di precedenti sentenze, è da evidenziare che essa difetta di autosufficienza, non essendo stato riportato il contenuto nè delle sentenze penali nè della non meglio precisata sentenza della commissione tributaria relativa all’IVA (della quale peraltro nel motivo non si indica nè precisamente da quale autorità sia stata emessa e nei confronti di quale società nè quali avvisi riguardi e neppure se ne allega il passaggio in giudicato). Con particolare riguardo alle sentenze penali, inoltre, deve precisarsi che, per stessa ammissione della ricorrente, esse riguardano soci e amministratori di altra società (la C.P.A. s.r.l.), che in relazione ad esse non si specifica se sia o meno intervenuto il passaggio in giudicato, ed infine che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale (perchè nel primo per un verso vigono limitazioni della prova -come il divieto di quella testimoniale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 7 – e, per altro verso, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna), anche l’eventuale giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non sarebbe di per sè vincolante nel processo tributario (v. tra le altre Cass. n. 19786 del 2011).

E’ infine da aggiungere che nella memoria ex art. 378 c.p.c., è stato riportato il testo di una sentenza pronunciata nel 2006 con la quale la C.T.P. di Rari avrebbe accolto il ricorso proposto dalla C.P.A. s.r.l. avverso avviso di rettifica Iva, tuttavia è appena il caso di evidenziare che tale sentenza (della quale si afferma il passaggio in giudicato senza che peraltro ciò emerga dal testo riportato nella medesima memoria) non risulta in ogni caso pronunciata nei confronti della attuale ricorrente e pertanto non può costituire nella fattispecie giudicato esterno con efficacia preclusiva (configurabile solo tra le medesime parti), la cui esistenza è sempre rilevabile d’ufficio anche nell’ipotesi in cui si sia formato successivamente alla sentenza impugnata, non trovando il suo accertamento ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato, la cui produzione può avere luogo, nel caso di formazione successiva alla notifica del ricorso, fino all’udienza di discussione prima dell’inizio della relazione (v. tra le altre SU n. 13916 del 2006).

I successivi dieci motivi (dal secondo all’undicesimo compreso), saranno in prosieguo, dopo la sintetica esposizione di ciascuno, esaminati congiuntamente perchè presentano problematiche connesse, censurando tutti la sentenza impugnata per vizio di motivazione, ed in parte ripropongono talora i medesimi fatti ed argomentazioni.

Col secondo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano adeguatamente considerato che l’avviso opposto si basava su di un p.v.c. della G.d.F. scaturente da una verifica fiscale non a carico della società Assoli bensì a carico di altro soggetto, nonchè de fatto che i giudici suddetti abbiano immotivatamente affermato che la C.P.A. s.r.l. sottoposta a verifica non aveva commercializzato olio di oliva e che tutte le fatture da essa emesse erano riferibili ad operazioni fittizie, senza considerare che nel p.v.c. della G.d.F. di Andria si evidenziava che dagli accertamenti effettuati gli acquisti e le vendite della C.P.A. erano risultati quasi totalmente fitti/i, dovendo pertanto ritenersi che non tutti lo fossero, con la conseguenza che sarebbe immotivata l’affermazione della sentenza impugnata circa il fatto che la C.P.A. non aveva olio nei propri magazzini essendosi solo fittiziamente rifornita presso le ditte calabresi.

Col terzo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano considerato che non è mai avvenuta una contestazione delle vendite di olio effettuate dalla società Assoli nel 1991, pur essendo esse riferibili in via esclusiva agli acquisti effettuati presso la C.P.A.. che rappresenterebbero la quasi totalità di olio acquistato nell’anno dalla Assoli. La ricorrente si duole altresì del fatto che i giudici d’appello abbiano affermato che la C.P.A. aveva utilizzato per il trasporto un automezzo in precarie condizioni e sul quale era stata installata una cisterna per il trasporto specifico di oli minerali e carburante, senza considerare che la G.d.F. di Andria, nel verbale emesso nei confronti della società "Oleificio Santa Barbara s.r.l." (una delle aziende che risultava aver acquistato olio dalla C.P.A.), affermava che in data 14.03.1991 l’amministratore della C.P.A. s.r.l. aveva ottenuto dalla USL Bari (OMISSIS) di Andria l’autorizzazione ad adibire la cisterna in questione ai trasporto di sostanze alimentari e che gli acquisti della Assoli erano intervenuti solo a partire dal 9.7.1991.

Col quarto motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello, affermando che la società C.P.A. s.r.l. aveva a disposizione solo due posture in pietra della capacità rispettiva di circa 90 e 130 quintali, non abbiano considerato che dalle fatture e dalle bolle di accompagnamento prodotte dalla Assoli era risultato che la stessa aveva acquistato presso la predetta C.P.A. quantitativi di olio che non superavano mai nella stessa giornata i 22.000 KG, pari alla giacenza massima che la stessa poteva detenere nel proprio deposito. Col quinto motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano affermato che dalla verifica effettuata era emerso che presso la C.P.A. non vi era disponibilità di prodotto in quanto solo fittiziamente la stessa si forniva da altre ditte calabresi, senza considerare che dal verbale della G.d.F. di Andria era emerso che non tutti gli acquisti erano risultati inesistenti ma solo la maggior parte di essi e che a fronte di tale affermazione l’Ufficio avrebbe dovuto obbligatoriamente verificare i rapporti economici tra la C.P.A. e la Assolo.

Col sesto motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano del tutto immotivatamente ed illogicamente ritenuto che le strutture operative della C.P.A. confermassero la fittizietà delle operazioni, posto che risultava in atti che la Assoli aveva acquistato presso la C.P.A. quantitativi di olio che non superavano mai nella stessa giornata il quantitativo massimo che la C.P.A. poteva detenere nel proprio deposito.

Col settimo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano considerato tra le circostanze gravi, precise e concordanti che confermerebbero la fittizietà delle operazioni economiche poste in essere dalla C.P.A. il fatto che l’autocarro della medesima società fu alienato due giorni dopo l’ultima vendila di olio (circostanza che sarebbe stata univocamente rilevante solo se l’autocarro fosse risultato venduto prima dell’ultima vendila) e non abbiano considerato che detto autocarro non poteva essere effettivamente in precarie condizioni e non funzionante (come affermato in sentenza) se fu poi venduto e non demolito.

Con l’ottavo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano considerato tra gli indizi gravi, precisi e concordanti il fatto che l’attività della C.P.A. sia fosse limitata ad un periodo di soli 6 mesi esattamente coincidente con gli acquisti e le vendite della Assoli, senza considerare che i soci della C.P.A.. vistisi deferiti all’autorità giudiziaria, avevano ritenuto opportuno porre la società in liquidazione nel timore di essere accusati della reiterazione dei reati contestati e che anche la Assoli, essendosi vista negare un rimborso IVA assolutamente vitale per l’azienda, era stata posta in liquidazione in data 29.09.1995 – e non in data 19.03.1995, come erroneamente riportato nella sentenza impugnata che alla data della messa in liquidazione (siccome erroneamente riportata) attribuirebbe ulteriore valenza indiziaria -. Col nono motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano affermato che la C.P.A. operava unicamente come società cartiera omettendo di considerare che la G.d.F. aveva accertato che non tutte le operazioni erano fittizie, che detta società aveva una struttura idonea a trasportare e ad immagazzinare, quindi a commercializzare l’olio di oliva, e che nessun rilievo era stato effettuato dall’Ufficio circa la operatività della Assolo e le vendite da questa effettuate ai propri clienti per il 1991, dovendosi pertanto ritenere che una eventuale evasione da parte della C.P.A. non poteva riguardare i rapporti di essa con la Assolo.

Col decimo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano arbitrariamente ed illegittimamente contestato il valore probatorio degli assegni bancari emessi in pagamento delle operazioni ritenute fittizie in quanto titoli dai quali non traspare il rapporto sottostante e perchè agli stessi potrebbe corrispondere uno storno di pari importo, senza considerare che si tratta di assegni tutti emessi con la clausola non trasferibile e tutti versati e negoziati sui conti correnti intestati alla C.P.A..

Con l’undicesimo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano considerato che la Assoli aveva iniziato la propria attività nel 1991 e pertanto non poteva avere rimanenze iniziali, onde tutte le vendite effettuate nel 199 – e non contestate – derivavano dagli unici acquisti effettuati presso la C.P.A., in mancanza dei quali non vi sarebbero state le successive alienazioni coi relativi ricavi.

Secondo la ricorrente pertanto avrebbero errato t giudici d’appello nell’affermare che le fatture fittizie erano state utilizzate allo scopo di contenere il reddito imponibile, affermazione che non terrebbe conto del fatto che la Assoli nella dichiarazione dei redditi ha dichiarato un acquisto di olio pari a L. 1.379.883.500 ed una vendita di olio pari a L. 1.404.032.420.

La ricorrente sostiene inoltre l’omessa considerazione, da parte dei giudici d’appello, del fatto che l’Ufficio, in violazione dell’art. 53 Cost., aveva proceduto ad un accertamento non realistico sul piano economico allorchè aveva ritenuto non deducibile il costo dell’acquisto della merce ed invece reali e produttive di reddito tutte le vendite dichiarate.

La ricorrente aggiunge che con circolare n. 271/E del 1997 l’Amministrazione aveva disposto che, in presenza di fatture relative ad operazioni inesistenti, l’accertamento del reddito doveva essere effettuato in via induttiva al fine di accertare l’effettivo profitto tratto dagli organizzatori della presunta attività illecita.

Le censure sopra esposte (in gran parte, come già rilevato, ripetitive, sia pure sotto diversi profili, dei medesimi fatti e argomentazioni) sono inammissibili.

Richiamato quanto esposto in tema di presunzioni nell’ambito dell’esame congiunto del primo e del tredicesimo motivo, occorre premettere che la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice di merito circa la ricorrenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la relativa motivazione risulti adeguata e logica.

Nella specie i giudici d’appello hanno motivatamente ritenuto che gli avvisi opposti fossero stati emessi sulla base di una serie di elementi presuntivi aventi le caratteristiche della gravità, precisione e concordanza. La motivazione viene in questa sede censurata deducendo l’omessa (o inadeguata) considerazione di circostanze ed argomentazioni da parte dei giudici d’appello, tuttavia Se censure non sono autosufficienti in quanto le suddette circostanze sono solo allegate senza specificamente riportare il contenuto degli atti e documenti (acquisiti al processo) dai quali esse emergerebbero, e talora senza neppure indicare t suddetti atti e documenti. Peraltro, non risultano neppure allegati clementi idonei a valutare la decisività delle suddette circostanze, dovendo peraltro, in relazione al concetto di decisività, evidenziarsi che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il vizio di motivazione per omessa considerazione di un elemento decisivo non è configurabile solo per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice de merito nè il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà è configurabile solo perche su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, posto che in tal modo il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si risolverebbe nell’investire sic et sempliciter la Corte di Cassazione del controllo dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito (v. Cass. n. 22979 del 2004). E’ inoltre da sottolineare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, non è ammissibile che, con la deduzione del vizio di motivazione, si faccia valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, si prospetti una diversa lettura ovvero un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti del fatto, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e che, diversamente opinando, il motivo del ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito (v. tra le altre Cass. n. 12446 del 2006).

E’ poi appena il caso di precisare che nei motivi in esame viene contestato il valore indiziario dei singoli elementi acquisiti in giudizio senza neppure considerare che essi, quand’anche in ipotesi singolarmente sforniti di valenza indiziaria, potrebbero averla acquisita nell’ambito di una valutazione complessiva comportante un vicendevole completamento di ciascun indizio.

Infine, con particolare riguardo all’undicesimo motivo, fermo restando quanto sopra specificato per tutti gli altri motivi circa il difetto di autosufficienza e la mancata evidenziazione della decisività in ordine alle circostanze asseritamente non o mal valutate, occorre rilevare che, pur denunciando vizio di motivazione, nel motivo in esame vengono espresse anche censure per violazione di legge, peraltro ribadite nel successivo dodicesimo motivo, che pertanto verranno esaminate in relazione a suddetto motivo.

Col dodicesimo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 53 Cost., nonchè D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e art. 39, comma 2, e della Circolare del Ministero delle Finanze n. 271 del 1997, la ricorrente sostiene che i giudici d’appello avrebbero violato la circolare indicata e le norme sopra riportate ritenendo conforme a diritto un accertamento col quale l’Amministrazione, in violazione dell’art. 53 Cost., si era limitata ad escludere i costi ritenuti fittizi, giungendo così alla tassazione degli incassi e non dei redditi, senza procedere ad accertamenti bancari nè ad accertamento induttivo, come previsto dalla citata circolare. La censura è infondata.

Giova preliminarmente rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte dovute e, di fronte alle norme tributarie, detta Amministrazione ed il contribuente si trovano su di un piano di parità, per cui la c.d. interpretazione ministeriale contenuta in circolari o in risoluzioni non vincola nè i contribuenti nè i giudici e non costituisce fonte di diritto (v. cass. n. 21154 del 2008), con la conseguenza che la "violazione e falsa applicazione" di una circolare ministeriale non può essere addotta per censurare una sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Tanto premesso, è inoltre da evidenziare che quando l’Ufficio ritiene la fittizietà di tutti o alcuni dei costi dichiarati dal contribuente non ha l’obbligo di escludere in proporzione i ricavi dichiarati dal medesimo, nè in ogni caso ha l’obbligo, quando procede ad un accertamento, di ricostruire la dichiarazione del contribuente nella sua interezza, ma può ben limitarsi a verificare l’esistenza o meno dei costi dichiarati in ordine ai quali siano emersi dei dubbi, peraltro dovendo ritenersi l’effettività dei ricavi dichiarati dal medesimo contribuente – e da questo non disconosciuti – siccome comportanti una maggiore esposizione fiscale del medesimo. Ciò in quanto non esiste una relazione necessaria ed esclusiva tra costi e ricavi risultanti dalla medesima dichiarazione:

l’esclusione di alcuni (o tutti i) costi dichiarati non significa necessariamente che il contribuente non abbia potuto in ogni caso realizzare i ricavi dichiarati (ad esempio vendendo il prodotto ad un prezzo maggiore ovvero vendendo un prodotto il cui costo non risulta dichiarato nè documentato). Se. infatti, il contribuente vuole che un costo sia considerato deve dichiararlo e provarlo documentalmente:

il fatto che i costi dichiarati siano risultati inesistenti non significa perciò che siano tassativamente ed imprescindibilmente inesistenti anche i ricavi, i quali potrebbero, come sopra rilevato, riferirsi ad altri costi non dichiarati.

3. Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.500 di cui 7.400 per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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