Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-03-2012, n. 3472 Servitù coattive di passaggio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

G.C., premesso di avere stipulato con scrittura privata autenticata del 9 dicembre 1984 con le sorelle G.R. e M.A. un negozio di divisione di alcuni terreni, nel quale era prevista la costituzione a carico del terreno a lui attribuito di una servitù di passaggio perpetua e gratuita in favore del fondo assegnato alla sorella M.A., la convenne dinanzi al Tribunale di Foggia, chiedendo che l’atto costitutivo di detta servitù fosse dichiarato nullo in quanto, integrando una donazione, non risultava stipulato nella forma richiesta dalla legge.

La convenuta si costituì in giudizio opponendosi alla domanda, che fu rigettata dal giudice di primo grado.

Interposto gravame, con sentenza n. 1164 del 25 novembre 2009 la Corte di appello di Bari confermò integralmente la pronuncia impugnata, affermando che, nel caso di specie, l’atto di costituzione della servitù non era qualificabile come atto di donazione, come tale soggetto alla forma per atto pubblico, in quanto esso appariva inserito nel più ampio negozio di divisione intervenuto tra le parti, di cui concorreva alla definizione degli rispettivi interessi, sicchè difettava tanto l’elemento dell’animus donandi quanto quello del depauperamento, che non poteva desumersi dalla mera previsione di gratuità dell’atto di costituzione, volendo essa significare, più semplicemente, l’assenza di corrispettivo.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 30 marzo 2010, ricorre G.C., affidandosi a sette motivi.

Resiste con controricorso G.M.A..

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso, nel denunziare erronea applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c. in relazione agli artt. 2697, 769, 782 e 1362 c.c. e segg., contraddittorietà di motivazione, violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, degli artt. 769, 782 e 1362 c.c. segg. e artt. 112 e 113 c.p.c., lamenta che la Corte di appello, adottando sul punto una motivazione erronea ed illogica, abbia escluso lo spirito di liberalità della clausola costitutiva del diritto di servitù ritenendo la stessa inserita in funzione compensativa nell’ambito del negozio di divisione, in aperto contrasto con il suo carattere gratuito, come espressamente convenuto dalle parti. La sentenza non ha considerato il principio di diritto del tutto pacifico secondo cui se un diritto viene attribuito senza corrispettivo e spontaneamente, vale a dire non per un dovere morale o etico, l’animus donandi di presume e l’atto deve rivestire, a pena di nullità, la forma richiesta dalla leghe per il negozio di donazione. La Corte barese ha pertanto errato nell’interpretazione della clausola negoziale attributiva del diritto di servitù di passaggio alla convenuta, disattendendo il principale criterio ermenueutico rappresentato dal dato testuale della gratuità della attribuzione, disconoscendo che, nel caso di specie, erano chiaramente presenti entrambi gli elementi essenziali del contratto di donazione, vale a dire l’elemento soggettivo, rappresentato dallo spirito di liberalità, e quello oggettivo, costituito dall’incremento del patrimonio altrui e del conseguente depauperamento di quello del dichiarante. Ed invero la costituzione della servitù è avvenuta gratuitamente, senza corrispettivo, ed essa è stata concessa dall’odierno ricorrente senza che vi fosse in alcun modo obbligato o necessitato. Nè d’altra parte, tenuto conto di tali elementi testuali e di fatto, può condividersi l’affermazione del giudice di appello secondo cui tale clausola andrebbe valutata nell’ambito del più generale assetto degli interessi determinato dal negozio di divisione immobiliare intervenuto tra le parti, atteso che tale coesistenza non può portare a disconoscere la reale natura di liberalità della previsione contrattuale di cui si discute. Ha errato quindi il giudice nel considerare unico l’atto contrattuale sottoscritto dalle parti e nel non ravvisare in esso, invece, due negozi distinti, l’uno di divisione e l’altro di donazione. Il secondo motivo di ricorso denunzia motivazione illogica e violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 116 c.p.c., in relazione agli artt. 769 e 782 c.c., art. 1325 c.c., n. 2, e artt. 1362, 1363, 2727, 2728 e 2729 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto, senza però spiegare le ragioni di tale conclusione, che la clausola costitutiva del diritto di servitù dovesse venire interpretata nell’ambito del negozio di divisione, rappresentando una sorta di compensazione rispetto al valore dei beni attribuiti ai singoli contraenti.

Così ragionando, la Corte, prosegue il ricorrente, oltre a far cattivo uso dell’istituto delle presunzioni, è anche andata ultra petita, giacchè mai in nessun atto difensivo la convenuta aveva mai sostenuto che i beni a lei attribuiti in sede divisionale fossero di minor valore, sì da fa intendere che la costituzione della servitù in suo favore avesse la funzione anche pratica di compensare tale differenza.

Il terzo motivo di ricorso denunzia motivazione insufficiente e violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., assumendo l’inconsistenza o mera apparenza della motivazione con cui il giudice di secondo grado ha respinto il motivo di appello che lamentava come il Tribunale avesse completamente ignorato la presenza, nella clausola contrattuale in oggetto, degli elementi essenziali e tipici del contratto di donazione.

Il quarto motivo di ricorso denunzia contraddittorietà di motivazione in relazione agli artt. 112 e 113 c.p.c. e 1362 c.c., lamentando che la Corte distrettuale non abbia debitamente valutato il motivo di appello che denunziava la contraddittorietà della pronuncia di primo grado laddove essa aveva comunque riconosciuto la coesistenza, nello stesso documento contrattuale, di due distinti negozi, circostanza che avrebbe dovuto invece indurre il giudicante a riconsiderare l’interpretazione dell’atto da essa seguita. Il quinto motivo di ricorso, che denunzia contraddittorietà ed insufficienza di motivazione in relazione all’art. 112 c.p.c. e artt. 1362 e 769 c.c., lamenta che la sentenza impugnata abbia ripudiato la qualificazione dell’atto come donazione pur in presenza all’animus donandi, elemento questo chiaramente ravvisabile nella gratuità dell’attribuzione, finendo in tal modo per obliterare la causa del negozio stesso.

Il sesto motivo di ricorso, che denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 769 e 782 c.c., art. 1350 c.c., n. 4 e dell’art. 47 Legge Notarile in relazione agli artt. 112 e 113 c.p.c., censura la decisione impugnata per avere ritenuto di poter trarre la conclusione circa la funzione compensativa della clausola de qua nell’ambito del negozio divisionale dalla precisazione finale fatta dai condividendi nel contratto stesso di essere "soddisfatti della quota a ciascuno dei tre attribuita e di valore equivalente". Questa interpretazione, ad avviso del ricorso, si pone in aperto contrasto con il testo letterale del documento contrattuale, che prevedeva due distinti contratti; quello di divisione dei terreni e quello di donazione, che attribuiva alla convenuta il diritto di servitù oggetto di controversia. La Corte non ha poi considerato che la liberalità di tale attribuzione discendeva anche dal fatto, pure accertato dal giudice, che il fondo assegnato alla convenuta aveva un altro accesso alla pubblica via e non era pertanto intercluso, circostanza che confermava la non necessità o doverosità dell’atto di costituzione della servitù. La Corte, in sostanza, avrebbe dovuto rilevare che tale attribuzione costituiva una vera e propria donazione e che essa era nulla in quanto priva del requisito di forma richiesto dalla legge. Il settimo motivo di ricorso, nel denunziare il vizio di insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione in relazione agli artt. 112 e 113 c.p.c. e arttt. 769 e 782 c.c., ribadisce la critica alla sentenza impugnata di non avere ravvisato nella clausola costitutiva della servitù una donazione, pur in presenza degli elementi essenziali di tale contratto e pur avendo la stessa convenuta riconosciuto che tale attribuzione era avvenuta a titolo gratuito. I motivi, che vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione obiettiva, sono infondati.

La Corte di appello ha motivato la statuizione di rigetto della domanda dell’attore affermando che la clausola con cui veniva costituita la servitù di passaggio a carico del suo fondo, essendo inserita in un contratto di divisione di terreni caduti in comunione, non costituiva un atto di donazione, ma rappresentava una regolamentazione accessoria dell’assetto divisionale intervenuto tra i contraenti, adottata al fine di rendere equivalenti il valore dei beni ad essi rispettivamente assegnati, come confermato dall’inciso finale del testo contrattuale in cui i condividendi, dopo avere assegnato i beni in proprietà esclusiva e stabilito il diritto di servitù, si davano reciprocamente atto dell’equivalenza del valore delle porzioni loro spettanti.

Tanto premesso, va ancora precisato che, com’è noto, l’interpretazione dell’atto negoziale integra un accertamento di fatto demandato, come tale, in via esclusiva al giudice di merito, censurabile in sede di giudizio di legittimità soltanto sotto il profilo della violazione delle regole ermeneutiche e dell’obbligo di motivazione. In particolare, la denunzia della violazione delle regole in materia di ermeneutica contrattuale richiede la specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso cui si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione esige la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito, con la precisazione che, per sottrarsi a censura, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 10131 del 2006; Cass. n. 11193 del 2003).

Sulla base di tali considerazioni, che delimitano il percorso entro il quale può essere esercitato il sindacato di legittimità, deve ritenersi che tutte le censure svolte dal ricorso siano infondate.

In particolare, la sentenza impugnata si sottrae alla critica di violazione e falsa applicazione dei criteri legali di interpretazione del contratto e nella specie di avere disatteso la regola della interpretazione testuale, in quanto è proprio detto criterio ad imporre che il contratto, quale manifestazione di volontà, debba essere valutato nella sua interezza, prendendo vale a dire in considerazione la complessiva regolamentazione degli interessi che è in esso contenuta, e non già isolando e distaccando le singole clausole dal contesto in cui sono inserite ( art. 1363 c.c.) (Cass. n. 9755 del 2011; Cass. n. 3685 del 2010; Cass. n. 16022 del 2002; Cass. n. 1877 del 1995). Correttamente, pertanto, il giudice di merito ha valutato la clausola costitutiva della servitù nell’ambito del contratto di divisione, cioè all’interno del documento negoziale in cui essa era inserita, ed ha valorizzato la dichiarazione di volontà delle parti di costituire quote di eguale valore quale collegamento funzionale tra tale previsione ed il risultato dell’assetto divisionale, motivando in tal modo la conclusione che essa doveva intendersi compresa nella valutazione del valore dei beni assegnati ai singoli condividendi. La tesi contraria avanzata nel ricorso, secondo cui nello stesso atto o documento contrattuale vi sarebbero due distinti ed autonomi negozi, è del resto sostenuta da argomentazioni generiche, che non danno conto del dato testuale e del legame sopra evidenziati, nonchè delle ragioni per cui le parti avrebbero inteso inserire nello stesso negozio di divisione un distinto atto di donazione, tanto più che la divisione, come risulta pacificamente in causa, era intervenuta tra tre soggetti, di cui uno (la sorella R.) formalmente e sostanzialmente estraneo all’asserito atto donazione. La sottoscrizione dell’atto anche da parte di tale soggetto integra invero un dato che smentisce ulteriormente la ricostruzione della vicenda proposta dal ricorrente, dal momento che conferma che la clausola con cui veniva costituita la servitù era voluta dalle parti quale elemento integrante la regolamentazione del negozio di divisione.

Priva di pregio è anche l’argomentazione del ricorso che fa discendere la sussistenza della donazione dalla previsione circa la gratuità della servitù costituita dalle parti. In primo luogo perchè la gratuità, nell’ambito del ragionamento accolto dalla Corte territoriale, significa nel caso di specie soltanto mancanza di uno specifico corrispettivo, con la precisazione, tuttavia, che la previsione della servitù andava comunque a compensare, bilanciandole, il valore delle rispettive quote. In secondo luogo, perchè, più in generale, come correttamente osserva il giudice di merito, deve escludersi che la gratuità coincida o sia sinonimo di liberalità, indicando, più semplicemente, che i contraenti hanno espressamente escluso per quella prestazione l’obbligo di un specifico corrispettivo. L’assenza di corrispettivo, infatti, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all’incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità), consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obbiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l’obbligazione (Cass. n. 21781 del 2008; Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 2001 del 1996). Infondate appaiono infine le censure di vizio di motivazione e di ultrapetizione. La prima, in quanto le ragioni sopra esplicitate, con cui il giudice di merito ha ritenuto di escludere che la clausola contrattuale in discorso integrasse un atto di donazione, appaiono senz’altro sufficienti ed adeguate nel loro percorso logico ed in relazione agli elementi di fatto evidenziati.

La seconda, perchè le ragioni su cui il giudicante ha fondato la propria conclusione attengono alla qualificazione giuridica dell’atto, cioè ad un giudizio che trova i suoi parametri nella stessa legge e nei confronti del quale il giudice è pertanto svincolato dalla deduzioni delle parti. Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, sono poste, per il principio di soccombenza, a carico del ricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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