Cass. civ., sez. I 28-02-2006, n. 4404 POSSESSO – INTERVERSIONE DEL POSSESSO – MUTAMENTO DELLA DETENZIONE IN POSSESSO – GIUDIZIO CIVILE E PENALE – Mutamento da detenzione in possesso – Detenzione di azienda commerciale in virtù di un mandato stipulato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione del gennaio 1990, St.Ca. espose che: i nonni Fa.Ca. e Is.Sa. erano contitolari della ditta "Me.-Ca." di Fa.Ca., esercente attività di spedizioniere; deceduto il Ca. in data 20 luglio 1964, la proprietà della ditta si era trasferita in capo al coniuge superstite e ai figli Gi. e Ca., rispettivamente padre e zia di esso istante, – le varie licenze e autorizzazioni erano state intestate al solo Gi., che aveva mutato sia la ragione sociale (in ditta Me.-Ca. di Gi.Ca.), sia l’oggetto dell’attività (divenuta di trasporto); con atto notarile del 17 dicembre 1978, il padre aveva costituito un’azienda familiare con la moglie Gi.Vi.; dopo la morte del padre, avvenuta il 30 maggio 1989, l’attività era stata proseguita esclusivamente da esso attore; inopinatamente, la zia Ca., dopo venticinque anni, aveva avanzato delle pretese sull’azienda. Tanto premesso, convenne in giudizio Ca.Ca. dinanzi al Tribunale di Roma per sentirsi dichiarare proprietario dell’azienda in questione, eventualmente a seguito di usucapione, insieme alla madre e alla sorella Ma.St.

La convenuta si oppose alla domanda e, in via riconvenzionale, chiese che la procura rilasciata al fratello Gi. nel 1964 fosse dichiarata estinta al momento della di lui morte.

Furono chiamate in causa Gi.Vi. e Ma.St.Ca., le quali, costituendosi, aderirono integralmente alla domanda avanzata dall’attore.

Il tribunale adito, premesso che l’attore aveva riconosciuto che l’azienda costituiva un cespite relitto dal comune dante causa Fa.Ca. (non chiarendo neppure perché era venuto meno il diritto proprietà della convenuta); rilevato che la procura rilasciata da Ca.Ca. al fratello era incompatibile con una situazione di possesso utile a usucapire; esclusa, per mancata interversione del possesso, l’usucapione dell’azienda gestita prima da Gi. e poi da St.Ca., rigettò la domanda attorea, dichiarando inammissibile la riconvenzionale.

La Corte d’appello di Roma respinse il gravame proposto da St. e Ma.St.Ca. e da Gi.Vi., osservando che: non sussisteva il giudicato penale sulla proprietà dell’azienda connesso alla sentenza di assoluzione dell’appellante St.Ca. dal reato di appropriazione indebita della parte di azienda di competenza della zia Ca. Il tribunale si era infatti limitato a esaminare la questione ai fini dell’accertamento del reato ascritto al Ca., del quale aveva escluso la responsabilità sotto il profilo meramente soggettivo, in difetto di prova della conoscenza sia della procura rilasciata dalla zia al padre 25 anni prima, sia delle vicende successive dell’azienda, gestita fin dall’inizio in via esclusiva dalla di lui famiglia. Di contro, il giudice penale non aveva affrontato le questioni successorie sotto il profilo civilistico, concernente soprattutto la validità della procura rilasciata per la gestione dell’azienda e le successive vicende della ditta Me.-Ca. Non poteva neanche parlarsi di usucapione, in quanto non vi era stato mai alcun atto di interversione del possesso da parte dell’attore e del suo dante causa. La procura conferita, dopo la morte del genitore (Fa.Ca.), da Ca.Ca. al fratello Gi. per gestire anche per suo conto l’azienda era infatti incompatibile con il possesso utile all’usucapione e non era stata revocata sino al decesso del mandatario, avvenuto nel 1989, ovvero soltanto un anno prima dell’introduzione del giudizio (talché l’interversione del possesso avrebbe potuto al massimo essere dedotta dagli attori solo da tale momento). Era da disattendere anche il motivo incentrato sulla modifica della ragione sociale e dell’oggetto dell’azienda ereditata, essendo indubbio che l’impresa, pur con alcune modifiche apportatevi nel tempo, era rimasta sostanzialmente la stessa, mentre, in ogni caso, non era stato neanche dedotto in causa che era stata liquidata la quota di pertinenza dell’appellata ovvero che questa vi aveva rinunciato una volta informata delle novità di gestione.

Ricorre St.Ca., deducendo due motivi di cassazione.

Replica Ca.Ca. con controricorso.

Non resistono le altre intimate.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunziando violazione degli artt. 651, 652 e 654 c.p.p. e omessa motivazione, il ricorrente critica la sentenza per non avere la corte del merito considerato che il giudice penale, oltre a escludere l’elemento soggettivo del contestato reato di appropriazione indebita, aveva esaminato e risolto anche le questioni connesse alle vicende successorie interessanti le parti in causa.

Il motivo prospetta una censura inammissibile.

ÿ, invero, incensurabile in Cassazione, ove sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logici o giuridici, l’accertamento del giudice di merito civile, secondo cui la formula assolutoria della sentenza penale non riflette l’elemento materiale dei reato ma, invece, l’elemento soggettivo della colpa o del dolo, derivando tale accertamento dalla interpretazione di un giudicato esterno formatosi in altro processo e risolvendosi in un apprezzamento di mero fatto (cfr. Cass. nn. 1540/1995, 4455/1993, 7213/1990, 6950/1983, 3333/1982, 805/1981, 2607/1980, 3953/1978, 3032/1978, 1631/1977, 2999/1973, 1528/1972, 153/1968, 1113/1962). Peraltro, non è inutile qui ricordare come la giurisprudenza più recente, muovendo dalla lettera dell’art. 652 del vigente codice di procedura penale e considerando che i mutamenti della disciplina del processo penale giustificano sempre meno là compressione del diritto alla prova e del principio del libero convincimento del giudice indotta dall’efficacia extrapenale del giudicato, ha affermato che il giudicato di assoluzione produce gli effetti preclusivi previsti da tale norma solo quando contiene un effettivo accertamento dell’insussistenza del fatto o dell’impossibilità di attribuirlo all’imputato e non quando l’assoluzione sia motivata con la mancanza di sufficienti elementi di prova in ordine al fatto o all’attribuibilità di esso all’imputato ovvero con l’esclusione dell’elemento psicologico, consideratone il diverso atteggiarsi in campo civilistico (cfr. Cass. nn. 3330/1998, 11162/1996).

Nella fattispecie, la corte di merito, con motivazione logica e esauriente, e perciò insindacabile in questa sede, ha rilevato che la pronuncia del giudice penale, adeguatamente interpretata con riferimento sia alla formula assolutoria di cui al dispositivo sia alla motivazione adottata, aveva escluso la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita ascritto al Ca., in difetto di prova della conoscenza, da parte dell’imputato, tanto della procura rilasciata dalla zia al padre 25 anni prima quanto delle successive vicende dell’azienda, pacificamente gestita fin dall’inizio in via esclusiva dalia di lui famiglia.

Ha soggiunto la corte territoriale che il giudice penale non aveva per nulla affrontato sotto il profilo squisitamente civilistico le questioni dibattute tra le parti in causa e incentrate soprattutto sulle vicende successorie della ditta Me.-Ca. e sulla valenza della procura rilasciata per la gestione dell’azienda.

Del resto, parte ricorrente non spiega in maniera puntuale perché debba considerarsi inficiata da errore la interpretazione che del giudicato penale assolutorio ha operato la corte capitolina, limitandosi a proporre una personale e autonoma valutazione delle circostanze accertate con la sentenza divenuta regiudicata.

Con il secondo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1161, 1164, 2729, 1722, 1723 c.c. e 116 c.p.c. nonché omessa motivazione, il Ca. ascrive alla corte del merito di non aver considerato che: il padre aveva usucapito l’azienda, a seguito di possesso continuato e indisturbato per circa 25 anni a far tempo dal rilascio della procura; il comportamento della sorella Ca., totalmente disinteressatasi dell’andamento e degli utili dell’azienda, doveva essere considerato quale manifestazione di volontà di revoca del mandato; era comunque intervenuta Interversione del possesso il 17 dicembre 1978, data in cui il proprio dante causa aveva costituito con la moglie un’impresa familiare avente a oggetto l’esercizio dell’azienda; il mandato si era estinto anche per il compimento dell’affare per il quale era stato conferito, in quanto l’attività commerciale di spedizioniere era cessata per trasformarsi in quella, affatto diversa, di trasporto.

Anche tale motivo esprime censure inammissibili.

Alla stregua degli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito è risultato che con la procura a gestire la quota dell’azienda di sua pertinenza, la Ca. conferì al fratello Gi. il potere di fatto su detta porzione di impresa, trasmettendogliene a sua volta la detenzione necessaria per l’esecuzione del mandato. Orbene, il mandatario, intrattenendo la relazione con il bene in funzione dell’adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di mandato, ha una detenzione nell’interesse altrui (nomine alieno) e non è perciò titolare di un potere autonomo sul bene, che invece deve essere riconosciuto al possessore o al detentore qualificato. Pertanto, conferendo al fratello, con il mandato, l’incarico di gestire la propria quota dell’azienda, la Ca. ne ha conservato il possesso attraverso la detenzione esercitata dal mandatario nel di lei interesse, sì da essere in grado di ripristinare in ogni momento il potere di fatto sul bene. Infatti, il possesso o la detenzione qualificata possono essere conservati solo animo, purché il possessore abbia la possibilità di ripristinare il contatto materiale con la cosa non appena lo voglia; soltanto qualora questa possibilità sia di fatto preclusa da altri o da una obiettiva mutata situazione dei luoghi, l’elemento intenzionale non è da solo sufficiente per la conservazione del possesso (o della detenzione qualificata) (cfr. Cass. nn. 13138/2003, 5444/1999, 8612/1998, 4360/1995, 7674/1994, 10642/1993). Ne consegue che il dante causa del ricorrente, rivestendo la qualità di detentore non qualificato e non avendo in tale veste un potere autonomo sull’azienda per l’esistenza del poziore potere legittimamente esercitato dalia mandante, avrebbe dovuto compiere un atto materiale di impossessamento del bene in modo da impedire alla sorella di esercitare il potere sulla quota di appartenenza e attuando in tal modo l’intenzione di cessare la detenzione nomine alieno e iniziare a detenere nel proprio interesse.

A quest’ultimo riguardo è noto che la interversione del possesso non può avvenire mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in un uno o più atti esterni, sebbene non riconducibili a tipi determinati, dai quali sia consentito desumere la modificata relazione di fatto con la cosa detenuta in opposizione al possessore. In altre parole, la interversione idonea a trasformare la detenzione in possesso, pur potendo realizzarsi mediante il compimento di attività materiali in grado di manifestare inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso esclusivamente nomine proprio, richiede sempre, ove il mutamento del titolo in base al quale il soggetto detiene non derivi da causa proveniente da un terzo, che l’opposizione risulti inequivocabilmente rivolta contro il possessore e cioè contro colui per conto del quale la cosa era detenuta in guisa da rendere esteriormente riconoscibile all’avente diritto che il detentore ha cessato di possedere nomine alieno e che intende sostituire alla preesistente intenzione di subordinare il proprio potere a quello altrui, l’animus di vantare per sé il diritto esercitato, convertendo così in possesso la detenzione, anche soltanto precaria, precedentemente esercitata (vedi Cass. nn. 18360/2004, 12007/2004, 1802/1995). D’altra parte, qualora un soggetto detenga un bene in virtù di un contratto di manti dato stipulato con il proprietario, neanche l’estinzione di tale contratto per morte del mandante vale a trasformare il mandatario in possessore del bene, ove 1l’interversione non si manifesti in uno o più atti esterni dai quali sia possibile desumere la modificata relazione del mandatario con la cosa detenuta, attraverso la negazione dell’altrui possesso e l’affermazione del proprio (così Cass. nn. 1484/1977, 880/1972).

Ciò posto, è principio da lungo tempo affermato da questa Corte quello secondo cui l’accertamento relativo al possesso ad usucapionem, alla rilevanza delle prove e alla determinazione del decorso del tempo utile al verificarsi dell’usucapione è devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logici e giuridici (cfr. Cass. nn. 9106/2000, 3630/1981, 285/1977, 3399/1974, 3859/1976, 1520/1973, 2136/1971, 1490/1970).

ÿ del pari principio pacifico che l’accertamento, in concreto, degli estremi dell’interversione del possesso integra un’indagine di fatto, rimessa al giudice di merito. Pertanto, nel giudizio di legittimità, non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame la condotta della parte, per trarne elementi di convincimento, ma si può solo censurare, per omissione o difetto di motivazione, la decisione di merito che abbia del tutto trascurato o insufficientemente esaminato la questione di fatto della interversione (cfr. Cass. nn. 762/1976, 1768/1974, 3539/1968).

Svolte queste premesse, la corte ha escluso che vi fosse stato un atto di interversione del possesso dell’azienda da parte del dante causa del ricorrente o di quest’ultimo e che l’unico evento con riferimento al quale si sarebbe potuto parlare (in tesi) di una tale vicenda possessoria era l’estinzione del mandato conseguita alla morte del mandatario avvenuta però soltanto un anno prima dell’inizio del giudizio. in particolare, il giudice a quo ha negato rilevanza ai fini in discorso alla modifica della intitolazione e dell’oggetto della ditta, poiché l’azienda ereditata dal comune dante causa, pur con alcuni cambiamenti subiti nel tempo, era rimasta sostanzialmente la stessa, laddove non era stato neanche dedotto in causa che l’appellata aveva chiesto o comunque conseguito la liquidazione della quota di pertinenza o che vi aveva rinunciato, una volta informata delle novità di gestione.

Si tratta, ovviamente, di un giudizio di fatto che, in quanto conseguente a una ragionevole ed esauriente valutazione degli elementi materiali emersi nel corso del giudizio, non è suscettibile di sindacato in questa sede, cui invece tende inammissibilmente la censura proponendo ancora una volta una diversa lettura delle risultanze processuali (e, in particolare, della condotta della controparte) così come accertate e apprezzate dal giudice di merito.

Il ricorrente lamenta, poi, che ai fini dell’eventuale configurazione di un atto di interversione del possesso, la corte non ha tenuto conto della costituzione, tra i propri genitori, di un’impresa familiare avente per oggetto l’esercizio dell’azienda in questione. Tuttavia, la circostanza addotta non è di per sé tale da configurare il denunziato vizio di motivazione. Anzitutto, perché il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi le circostanze e i rilievi che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata. In secondo luogo, per il fatto che l’elemento asseritamente obliterato non ha in concreto il carattere della decisività, sia perché l’impresa familiare può avere implicitamente riguardato la quota di azienda di spettanza del Ca. (padre del ricorrente), sia in quanto ab intrinseco inidoneo a manifestare inequivocamente l’intenzione di privare il possessore del potere di fatto sul bene e di modificare la detenzione in possesso esclusivo.

Il ricorso va, in definitiva, respinto con la condanna del suo proponente alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese liquidate, in E. 1.600,00, di cui E. 1.500,00 per onorari d’avvocato, oltre spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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