Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-03-2012, n. 3661 Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma, respinte con sentenza non definitiva n. 9915 del 1992, le eccezioni di difetto di giurisdizione, di competenza per materia, di difetto di legittimazione passiva della convenuta Italposte ed accertata la rinuncia del convenuto Comune di Roma alla sollevata eccezione di prescrizione, nonchè successivamente riuniti i due giudizi introdotti nel 1988 e nel 1991 dalla s.r.l. Iniziativa Granai di Nerva nei confronti del Comune di Roma e della società Italposte edilizia di interesse pubblico S.p.A. (oggi Poste Italiane S.p.A.), con successiva sentenza definitiva n. 12183 del 2003, condannava in solido le due parti convenute al pagamento in favore della società attrice, della complessiva somma di Euro 141.591,00, oltre interessi legali dal febbraio 1988, per l’avvenuta occupazione espropriativa nell’anno 1988, di un terreno di proprietà di quest’ultima ed avente natura edificatoria, già oggetto di occupazione temporanea disposta con Delib. Giunta 9 gennaio 1979, n. 23. Dichiarava inoltre il comune tenuto a garantire la Poste Italiane S.p.A. e a rimborsarle quanto quest’ultima avrebbe dovuto corrispondere alla proprietaria in forza della sentenza. In parziale accoglimento dell’appello della società, la Corte di appello di Roma con sentenza del 15.07-13.10.2008, ha elevato l’importo dell’indennizzo dovutole ad Euro 211.611, 55, corrispondente al valore venale del fondo aumentato della rivalutazione monetaria nonchè all’indennità di occupazione temporanea, ha stabilito un diverso criterio di calcolo degli interessi compensativi al saggio legale, ha mantenuto ferma la condanna in solido del comune e della società Poste Italiane in quanto titolari tanto dell’obbligazione risarcitoria, che di quella indennitaria; ha confermato la condanna del comune a rivalere detta società delle somme pagate all’attrice;

ha respinto sia la richiesta di manleva avanzata dal comune che quella della società rivolta ad ottenere una valutazione del fondo più elevata di quella di L. 70906 al mq, accertata dal c.t.u. con il metodo sintetico-comparativo.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la s.p.a. Beni Stabili, incorporante la s.p.a. Sviluppi Immobiliari, a sua volta incorporante la Iniziativa Granai, affidandolo a tre motivi; cui resistono con controricorso sia Poste Italiane S.p.A. che il comune di Roma, il quale ha formulato a sua volta ricorso incidentale per due motivi. La società ricorrente e la società Poste Italiane hanno depositato memorie. I ricorsi sono stati riuniti.

Motivi della decisione

Il Collegio deve, anzitutto, dichiarare inammissibile il primo motivo del ricorso incidentale del Comune di Roma, inerente alla prescrizione quinquennale del diritto azionato da Beni Stabili, giacchè il formulato quesito di diritto si rivela generico e non aderente al decisum, laddove non solo il dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale in argomento viene in esso apoditticamente anticipato al 1982, ma soprattutto non si censura la conclusione della Corte territoriale circa l’improponibilità del motivo d’appello che concerneva l’eccezione in argomento, fondato sul rilievo che l’ente non si era doluto in sede di gravame anche della sopravvenuta sua rinuncia alla relativa proposizione, accertata dal primo giudice (pag 11 sentenza). Inammissibile per genericità si rivela anche il quesito relativo al secondo motivo del ricorso incidentale, con cui il Comune denunzia violazione degli artt. 2043 e 2055 c.c. nella parte in cui la sentenza ebbe a gravare l’ente locale a titolo di rivalsa a beneficio dell’Italposte tanto delle somme versate per risarcimento da occupazione acquisitiva quanto di quelle erogate per indennità di occupazione legittima. Costituiscono punti fermi della controversia accertati nei due gradi del giudizio di merito e non contestati da alcuna delle parti: a) che il Comune nel 1979 ha proceduto all’occupazione temporanea e d’urgenza del fondo della società, protrattasi sino al 31 gennaio 1984 e che, non essendo stato emesso il decreto di espropriazione ma essendo stata realizzata l’opera edilizia, se ne è verificata l’acquisizione a titolo originario all’amministrazione comunale (dichiarata dal Tribunale); b) che quest’ultima ha concesso alla Italposte il diritto di superficie sul terreno per la costruzione di un programma di edilizia economico-popolare, secondo lo schema della L. n. 865 del 1971, art. 35 senza tuttavia delegarle il compimento di alcun atto della procedura ablativa, nè tanto meno il potere di acquisire direttamente l’area sia pure in nome e per conto dell’ente pubblico ( L. n. 865, art. 60).

Secondo la Corte distrettuale, l’Italposte non avrebbe dovuto rispondere nei confronti del Comune tanto per il verificarsi della illegittima espropriazione, quanto per l’obbligazione indennitaria conseguente all’occupazione temporanea del fondo – che grava esclusivamente sull’ente territoriale a cui favore ed a beneficio del quale risulta adottato il provvedimento ablatorio (Cass. 11768/2010;

12153/2007; 539/2004) -sia in quanto delegata alle sole operazioni materiali di realizzazione e sia perchè la convenzione intercorsa tra tali parti tanto non legittimava.

A tal riguardo il Comune nel quesito formula un interrogativo d’indole sostanzialmente esplorativa, del tutto avulso dalle peculiarità del caso, ivi compresa la data d’intervenuta irreversibile trasformazione dell’area occupata, come tale inidoneo a contrastare l’accertamento dei giudici di merito circa l’incolpevolezza dell’Italposte nei suoi confronti e perciò titolare di diritto al regresso integrale.

Con il primo motivo del ricorso principale, la società espropriata, deducendo violazione degli art. 37 t.u. espr.; della L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 89 nonchè dei principi contenuti nella sentenza 349/2007 della Corte Costituzionale, si duole, anche per il profilo motivazionale, che la Corte di appello dopo quest’ultima pronuncia e la nuova normativa della legge finanziaria del 2007 abbia mantenuto ferme le valutazioni della consulenza tecnica che si discostavano dal valore reale dell’area mentre invece occorreva rinnovarla, anche per rispondere alle contestazioni contenute nei motivi di impugnazione, onde ricercarne il valore effettivo, idoneo a ristorare il danno subito, come richiesto dalla Consulta.

Con il secondo, deducendo violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. censura la sentenza impugnata per non avere fornito alcuna risposta alle contestazioni rivolte alle risultanze della c.t.u., limitandosi a recepirla acriticamente nonchè a rinviare alla motivazione di altra decisione della stessa Corte (peraltro sottoposta a ricorso per cassazione). Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 2697 cod. civ. degli artt. 115, 116 e 196 cod. proc. civ., nonchè vizi di motivazione, censura la sentenza impugnata: a) per avere proceduto al calcolo del valore venale dell’area, pacificamente ritenuta edificabile, con il metodo-sintetico comparativo, invece che con quello analitico ricostruttivo, assai più affidabile, e nel caso più rispondente alla qualità di imprenditore di essa società;

senza peraltro applicare la giurisprudenza di legittimità che aveva più volte escluso quello sintetico perchè fondato sulla fluttuazione della moneta nel tempo piuttosto che sui diversi elementi che concorrono a determinare lo sviluppo edilizio di una zona ed a fornire il prezzo di mercato degli immobili in essa compresi; b) per avere il c.t. omesso del tutto di determinare il danno ad essa provocato che doveva comprendere tanto quello emergente, quanto il lucro cessante; e perciò di personalizzare il criterio di calcolo in funzione delle proprie qualità imprenditoriali, necessariamente diverse dalla fattispecie in cui il bene appartiene ad una persona fisica; c) per non avere considerato i numerosi errori e le altrettanto gravi omissioni in cui era incorso il c.t.u. nel determinare i valori anche di aree limitrofe concesse ad altre cooperative, e nel non valutare altri atti di comparazione specificamente indicati o prodotti come accertamenti di valori, stime dell’UTE, consulenze che avevano determinato indennità di espropriazioni, atti dello stesso comune, tutti pervenuti a valori assai più elevati, non inferiori a L. 150.000-160.000 mq. ed inconciliabili con quello di L. 90.000 mq. su cui aveva insistito il c.t..

Le suesposte censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate. Con la prima di queste, infatti, la società mostra di non aver compreso ratio e contenuto della sentenza 349/2007 della Corte Costituzionale che (unitamente alla coeva decisione 348/2007), lungi dall’aver voluto interferire sui meccanismi estimativi per la ricerca del prezzo in comune commercio dei suoli, ha inciso sui criteri per la determinazione dell’indennizzo dovuto secondo il precetto contenuto nell’art. 42 Cost. all’espropriato in entrambe le ipotesi di ablazione – legittima ed illegittima – degli immobili per la realizzazione di opere di p.u.: dichiarando (per quanto qui interessa) incostituzionale per contrasto con il menzionato precetto e con quello dell’art. 117 Cost. il parametro riduttivo introdotto dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65 per le aree edificatorie la cui irreversibile trasformazione si era consumata prima del 30 settembre 1996, che ne aveva stabilito la stima in misura sostanzialmente non superiore al 55% del loro valore venale effettivo. E perciò ripristinando la regola (ora recepita dalla L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 89, sub 2 che ha in tal modo modificato l’art. 55 del T.U.) che nelle espropriazioni illegittime detto indennizzo quale che sia la natura e la destinazione del bene espropriato deve essere liquidato in misura corrispondente al suo valore venale: salvi perciò restando i criteri di estimo più opportuni per accertarlo in concreto (la cui utilizzazione resta devoluta al prudente apprezzamento del giudice del merito).

B) Egualmente erronea è la lettura dell’art. 42 Cost., comma 3 prospettata dalla società che nell’ipotesi di espropriazioni illegittime ha rivendicato una sorta di sdoppiamento dell’indennizzo costituito da due distinte poste, l’una comprendente il valore di mercato dell’immobile, e l’altra ogni ulteriore pregiudizio arrecato all’espropriato, comprensivo ex art. 2043 cod. civ. sia del danno emergente che del lucro cessante, e variabile in funzione delle sue qualità; che perciò nel caso avrebbe dovuto tener conto dell’attività imprenditoriale esercitata.

Al contrario la giurisprudenza tanto della Corte Costituzionale quanto di legittimità ha costantemente tratto dal ricordato precetto costituzionale i seguenti principi: a) l’indennità per l’esproprio, essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, è unica e non può superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione (il valore cioè che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul mercato L. n. 2359 del 1865, ex art. 39), e nelle singole fattispecie, neppure quello derivante dal criterio di valutazione posto dalla legge applicabile per determinarlo;

2) il termine di riferimento dell’unica indennità è quindi rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato, quale gli deriva dalle sue caratteristiche naturali, economiche e giuridiche, e soprattutto dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle: essa non può peraltro essere rapportata (all’infuori delle ipotesi previste dalla L. n. 865 del 1971, art. 15) al pregiudizio che il proprietario risente come effetto del non potere ulteriormente svolgere mediante l’uso dello stesso immobile la precedente o altre attività (industriali o commerciali);

3) a questo regime non si sottrae la c.d. occupazione espropriativa, pur essa appartenente alla materia delle espropriazioni per p.u. considerate dal precetto dell’art. 42 Cost. (cfr. art. 5 bis, comma 6) che d’altra parte riserva al legislatore il potere discrezionale di modulare contenuto, ampiezza e denominazione dell’indennizzo nelle varie fattispecie disciplinate; sicchè proprio in forza di questa norma lo stesso assume nell’espropriazione illegittima la fisionomia di un risarcimento del danno integrale, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato ( L. n. 2359 del 1865, art. 39), sì da raggiungere, secondo la Corte Costituzionale, "la sua massima estensione consentita"in luogo del "massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesserà pubblica amministrazione può garantire all’espropriato" nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge (Corte Costit. 188/1995;

179/1999; 349/2007; Cass. 10560/2008). Proprio al dettato di queste pronunce si è attenuta la sentenza impugnata che, ha riformato quella del Tribunale laddove aveva applicato il meccanismo riduttivo della L. n. 662, art. 3, comma 65 dichiarato incostituzionale; ha determinato l’indennizzo dovuto alla società Poste Italiane nella misura di L. 205.131.058, corrispondente al valore venale del fondo stimato al febbraio 1988 ed infine sul presupposto della natura risarcitoria dell’indennizzo nella fattispecie appropriativa, ne ha rivalutato l’importo alla data della decisione, tenendo conto della svalutazione nel frattempo intervenuta, come è peculiare dei debiti di valore. Egualmente inconsistenti sono le censure rivolte dalla società al criterio di valutazione del terreno utilizzato dalla Corte territoriale.

L’accertamento del relativo valore, infatti, può avvenire indifferentemente sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad individuare quello di trasferimento del fondo; sia con metodi sintetico-comparativi, volti invece a desumere dall’analisi del mercato il valore commerciale del fondo: oggi più non potendosi stabilire dopo il sopravvenire del principio dell’edificabilità legale di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis tra i due criteri un rapporto di regola/eccezione, come era in passato allorchè si attribuiva valore preminente a questi ultimi perchè era sufficiente l’edificabilità di fatto per liquidare l’indennità. Da qui la regola, del tutto pacifica nella giurisprudenza, che rientra tra i compiti del giudice di merito, la scelta del criterio di stima improntato per quanto possibile a criteri di effettività – anche secondo le indicazioni della Corte costituzionale (Cass. 13182/2006;

3034/2005; Corte Costit. 305/2003): e quindi la facoltà di stabilire in base alle peculiarità del caso concreto (anche avvalendosi delle indicazioni del consulente tecnico d’ufficio), e senza necessità di motivazione, se sussistono gli elementi occorrenti per la ricerca del presumibile valore comparativo dell’area; se privilegiare quest’ultimo metodo, ovvero i criteri di stima c.d. analitici- ricostruttivi, o ancora metodi diversi da questi; ed infine se utilizzarli entrambi (Cass. 7200/2011; 9639/2010; 12771/2007;

1161/2007; 4885/2006). Pertanto tutte le doglianze rivolte a contestare le sentenze di merito per aver privilegiato il criterio sintetico-comparativo risultano inammissibili anche perchè la società non ha dimostrato che quello analitico invocato, ove correttamente applicato alla situazione di mercato del 1983 nella specifica zona del PEEP, avrebbe condotto ad una valutazione più elevata del fondo.

D’altra parte è errato anche l’altro presupposto da cui la soc. Beni Stabili muove per contestare la validità del criterio suddetto, che si fondi sulle inaffidabili fluttuazioni della moneta nel tempo, e/o sugli indici calcolati dall’ISTAT per l’aumento del costo della vita:

essendo invece incentrato sulla ricognizione di prezzi storici e certi che, in ragione della loro rappresentatività, si porgono come idonei parametri di determinazione del valore da attribuire al bene oggetto della stima. E siffatta rappresentatività si configura solo allorquando i prezzi di confronto riguardino terreni "omogenei" con riferimento non solo agli elementi materiali – quali la natura, la posizione, la consistenza morfologica e simili – e temporali, ma anche alla condizione giuridica urbanistica cui sono soggetti.

Consegue che la Corte di appello correttamente non ha preso in alcuna considerazione gli elementi comparativi offerti dalla società quanto meno per la disomogeneità del dato temporale cui essi si riferiscono, riguardando la maggior parte di essi terreni e fabbricati, stimati nel triennio 1995-1998 (taluno nel periodo immediatamente antecedente); laddove la valutazione del terreno espropriato è stata riferita all’anno 1988 ed in cui, come ha finito per riconoscere la stessa società, il mercato immobiliare inerente al piano edilizio ancora da realizzare per la gran parte non era sotto alcun profilo comparabile con quello del periodo successivo durante il quale erano stati realizzati servizi ed opere di urbanizzazione di ogni genere; e la zona era stata interamente edificata. Senza considerare che di nessuno degli immobili indicati sono state prospettate la disciplina urbanistica nonchè le altre caratteristiche che dovevano renderle analoghe a quelle proprie dell’immobile da valutare, mentre alcuni di detti atti, come l’avviso di accertamento del dicembre 1997, contiene soltanto una proposta di valutazione di cui la società non ha riferito neppure se sia divenuta o meno definitiva, pur essendo di essa destinataria la dante causa Granai di Nerva. Per converso, la sentenza impugnata non si è limitata a recepire gli accertamenti e le risultanze della c.t., ma:

a) ha individuato gli atti di riscontro utilizzati per la valutazione del fondo acquisito nel 1984, correttamente rilevando che per il loro ingente numero – ben 14 – nonchè per le loro caratteristiche analoghe a quelle del fondo espropriato, soprattutto con riguardo alla comune disciplina urbanistica, tanto che ben 10 di essi si riferivano proprio ad un Piano di zona, gli stessi dovevano considerarsi pienamente rappresentativi dei prezzi del mercato immobiliare del tempo: senza alcuna contestazione al riguardo della società; b)ha spiegato anche le ragioni per cui era stato necessario ridurre il valore di alcuni di essi inclusi in zona E ed aventi possibilità di sfruttamento edilizio solo a distanza di un rilevante intervallo temporale; c)ha indicato quale ultimo e decisivo riscontro della congruità della stima compiuta dal consulente, sicuramente favorevole alla società, un atto di compravendita di una vasta area ubicata nella zona da parte della Iniziativa Granai che vi aveva attribuito nel mese di dicembre 1983 il valore medio assai più modesto di circa L. 8136 mq. Con ciò esprimendo le ragioni del proprio convincimento in termini tali da consentire il controllo del processo logico adottato per pervenire ad esso, ed esaurendo l’obbligo della motivazione non tenuta ad esaminare particolarmente tutte le deduzioni della società (di cui si è detto avanti) incompatibili con le argomentazioni accolte: perchè implicitamente disattese.

Venendo da ultimo al regime delle spese si osserva che Beni Stabili e Comune devono corrispondere in solido tra loro, alla S.p.A. Poste Italiane, interamente vittoriosa, le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, mentre nel rapporto tra Beni Stabili e Comune la prevalente soccombenza della prima ne impone la condanna a beneficio del secondo alla relativa refusione, secondo gli importi determinati in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, riuniti i ricorsi, rigetta il principale, dichiara inammissibile l’incidentale del Comune. Condanna in solido Beni Stabili e Comune alla refusione delle spese di legittimità in favore della S.p.A. Poste Italiane, liquidate in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge. Condanna Beni Stabili alla refusione delle spese di legittimità in favore del Comune, liquidate in complessivi Euro 6.700,00, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *