Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-03-2012, n. 3660 Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma, riuniti i due giudizi introdotti nel 1988 e nel 1991 dalla s.r.l. Iniziativa Granai di Nerva nei confronti del Comune di Roma, con sentenza n. 16001/2003, condannava l’ente locale al pagamento in favore della società attrice, della complessiva somma di Euro 239.451,00, oltre interessi legali dal marzo 1982, per l’avvenuta occupazione espropriativa, di un terreno di proprietà di quest’ultima ed avente natura edificatoria, già oggetto di occupazione temporanea disposta con Delib. consiliare del 7 maggio 1981.

In parziale accoglimento dell’appello della società, la Corte di appello di Roma con sentenza del 16.09-13.10.2008, ha elevato l’importo del dovuto ristoro ad Euro 455.825, 79, corrispondente al valore venale del fondo aumentato della rivalutazione monetaria nonchè all’indennità di occupazione temporanea, ha modificato il criterio di computo degli interessi, ha infine respinto la richiesta della società rivolta ad ottenere una valutazione del fondo più elevata di quella di L. 67.588 al mq accertata per il marzo 1987, dal c.t.u. con il metodo sintetico-comparativo.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la s.p.a. Beni Stabili, incorporante la s.p.a. Sviluppi Immobiliari, a sua volta incorporante la Iniziativa Granai, affidandolo a tre motivi, illustrati da memoria; cui ha resistito con controricorso il comune di Roma che ha formulato ricorso incidentale per un motivo. I ricorsi sono stati riuniti.

Motivi della decisione

Il Collegio deve, anzitutto, dichiarare inammissibile il motivo del ricorso incidentale del Comune di Roma, con cui l’ente ha riproposto l’eccezione di prescrizione quinquennale del diritto azionato da Beni Stabili, sottolineando pure la mancanza di atti interruttivi del relativo decorso, giacchè il relativo quesito di diritto si rivela generico e non aderente al decisum, laddove non solo il dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale in argomento viene in tale quesito apoditticamente anticipato al 1982, ma soprattutto non si censura il rilievo dei giudici di appello secondo cui l’ente non si era doluto in sede di gravame del rigetto dell’eccezione in argomento da parte del primo giudice (pag 8 sentenza). Con il primo motivo del ricorso principale, la società espropriata, deducendo violazione degli art. 37 t.u. espr.; L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 89 nonchè dei principi contenuti nella sentenza 349/2007 della Corte Costituzionale, si duole che la Corte di appello dopo quest’ultima pronuncia e la nuova normativa della legge finanziaria del 2007 abbiano mantenuto ferme le valutazioni della consulenza tecnica che si discostavano dal valore reale dell’area mentre invece occorreva rinnovarla, anche per rispondere alle contestazioni contenute nei motivi di impugnazione, onde ricercarne il valore effettivo, idoneo a ristorare il danno subito, come richiesto dalla Consulta.

Con il secondo, deducendo violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. censura la sentenza impugnata per non avere fornito alcuna risposta alle contestazioni rivolte alle risultanze della c.t.u., limitandosi a recepirla acriticamente nonchè a rinviare alla motivazione di altra decisione della stessa Corte (peraltro sottoposta a ricorso per cassazione). Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 2697 cod. civ., degli artt. 115, 116 e 196 cod. proc. civ., nonchè vizi di motivazione, censura la sentenza impugnata: a) per avere proceduto al calcolo del valore venale dell’area, pacificamente ritenuta edificabile, con il metodo-sintetico comparativo, invece che con quello analitico ricostruttivo, assai più affidabile, e nel caso più rispondente alla qualità di imprenditore di essa società;senza peraltro applicare la giurisprudenza di legittimità che aveva più volte escluso sintetico perchè fondato sulla fluttuazione della moneta nel tempo piuttosto che sui diversi elementi che concorrono a determinare lo sviluppo edilizio di una zona ed a fornire il prezzo di mercato degli immobili in essa compresi; b)per avere il c.t. omesso del tutto di determinare il danno ad essa provocato che doveva comprendere tanto quello emergente, quanto il lucro cessante; e perciò di personalizzare il criterio di calcolo in funzione delle proprie qualità imprenditoriali, necessariamente diverse dalla fattispecie in cui il bene appartiene ad una persona fisica; c)per non avere considerato i numerosi errori e le altrettanto gravi omissioni in cui era incorso il c.t.u. nel determinare i valori anche di aree limitrofe concesse ad altre cooperative, e nel non valutare altri atti di comparazione specificamente indicati o prodotti come accertamenti di valori, stime dell’UTE, consulenze che avevano determinato indennità di espropriazioni, atti dello stesso comune, tutti pervenuti a valori assai più elevati, non inferiori a L. 150.000-160.000 mq. ed inconciliabili con quello di L. 0.000 mq. su cui aveva insistito il c.t..

Le suesposte censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

Con la prima di queste, infatti, la società mostra di non aver compreso ratio e contenuto della sentenza 349/2007 della Corte Costituzionale che (unitamente alla coeva decisione 348/2007), lungi dall’aver voluto interferire sui meccanismi estimativi per la ricerca del prezzo in comune commercio dei suoli, ha inciso sui criteri per la determinazione dell’indennizzo dovuto secondo il precetto contenuto nell’art. 42 Cost. all’espropriato in entrambe le ipotesi di ablazione legittima ed illegittima – degli immobili per la realizzazione di opere di p.u. dichiarando (per quanto qui interessa) incostituzionale per contrasto con il menzionato precetto e con quello dell’art. 117 Cost. il parametro riduttivo introdotto dalla L. n. 662 del 1996, dall’art. 3, comma 65 per le aree edificatorie la cui irreversibile trasformazione si era consumata prima del 30 settembre 1996, che ne aveva stabilito la stima in misura sostanzialmente non superiore al 55% del loro valore venale effettivo. E perciò ripristinando la regola (ora recepita dalla L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 89, sub 2 che ha in tal modo modificato l’art. 55 del T.U.) che nelle espropriazioni illegittime detto indennizzo quale che sia la natura e la destinazione del bene espropriato deve essere liquidato in misura corrispondente al suo valore venale: salvi perciò restando i criteri di estimo più opportuni per accertarlo in concreto (la cui utilizzazione resta devoluta al prudente apprezzamento del giudice del merito).

Egualmente erronea è la lettura dell’art. 42 Cost., comma 3, prospettata dalla società che nell’ipotesi di espropriazioni illegittime ha rivendicato una sorta di sdoppiamento dell’indennizzo costituito da due distinte poste, l’una comprendente il valore di mercato dell’immobile, e l’altra ogni ulteriore pregiudizio arrecato al l’espropriato, comprensivo ex art. 2043 cod. civ. sia del danno emergente che del lucro cessante, e variabile in funzione delle sue qualità; che perciò nel caso avrebbe dovuto tener conto dell’attività imprenditoriale esercitata.

Al contrario la giurisprudenza tanto della Corte Costituzionale quanto di legittimità ha costantemente tratto dal ricordato precetto costituzionale i seguenti principi: a) l’indennità per l’esproprio, essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, è unica e non può superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione (il valore cioè che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul mercato L. n. 2359 del 1865, ex art. 39), e nelle singole fattispecie, neppure quello derivante dal criterio di valutazione posto dalla legge applicabile per determinarlo.

2) il termine di riferimento dell’unica indennità è quindi rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato, quale gli deriva dalle sue caratteristiche naturali, economiche e giuridiche, e soprattutto dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle: essa non può peraltro essere rapportata (all’infuori delle ipotesi previste dalla L. n. 865 del 1971, art. 15) al pregiudizio che il proprietario risente come effetto del non potere ulteriormente svolgere mediante l’uso dello stesso immobile la precedente o altre attività (industriali o commerciali);

3) a questo regime non si sottrae la c.d. occupazione espropriativa, pur essa appartenente alla materia delle espropriazioni per p.u. considerate dal precetto dell’art. 42 Cost. (cfr. art. 5 bis, comma 6) che d’altra parte riserva al legislatore il potere discrezionale di modulare contenuto, ampiezza e denominazione dell’indennizzo nelle varie fattispecie disciplinate; sicchè proprio in forza di questa norma lo stesso assume nell’espropriazione illegittima la fisionomia di un risarcimento del danno integrale, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato ( L. n. 2359 del 1865, art. 39), sì da raggiungere, secondo a Corte Costituzionale, "la sua massima estensione consentita" in luogo del "massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesserà pubblica amministrazione può garantire all’espropriato" nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge (Corte Costit. 188/1995;

179/1999; 349/2007; Cass. 10560/2008).

Proprio al dettato di queste pronunce si è attenuta la sentenza impugnata che, ha riformato quella del Tribunale laddove aveva applicato il meccanismo riduttivo della L. n. 662, art. 3, comma 65 dichiarato incostituzionale; ha determinato l’indennizzo dovuto alla società nella misura di L. 370.449.828, corrispondente al valore venale del fondo stimato al marzo 1987, data della sua acquisizione al patrimonio del comune; ed infine sul presupposto della natura risarcitoria dell’indennizzo nella fattispecie appropriativa, ne ha rivalutato l’importo alla data della decisione, tenendo conto della svalutazione intervenuta nel frattempo, come è peculiare dei debiti di valore.

Egualmente inconsistenti sono le censure rivolte dalla società al criterio di valutazione del terreno utilizzato dalla Corte territoriale.

L’accertamento del relativo valore, infatti, può avvenire indifferentemente sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad individuare quello di trasferimento del fondo; sia con metodi sintetico-comparativi, volti invece a desumere dall’analisi del mercato il valore commerciale del fondo: oggi più non potendosi stabilire dopo il sopravvenire del principio dell’edificabilità legale di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis tra i due criteri un rapporto di regola/eccezione, come era in passato allorchè si attribuiva valore preminente a questi ultimi perchè era sufficiente l’edificabilità di fatto per liquidare l’indennità. Da qui la regola, del tutto pacifica nella giurisprudenza, che rientra tra i compiti del giudice di merito, la scelta del criterio di stima improntato per quanto possibile a criteri di effettività – anche secondo le indicazioni della Corte costituzionale (Cass.l3182/2006;3034/2005; Corte Costit.305/2003): e quindi la facoltà di stabilire in base alle peculiarità del caso concreto (anche avvalendosi delle indicazioni del consulente tecnico d’ufficio), e senza necessità di motivazione, se sussistono gli elementi occorrenti per la ricerca del presumibile valore comparativo dell’area; se privilegiare quest’ultimo metodo, ovvero i criteri di stima c.d. analitici-ricostruttivi, o ancora metodi diversi da questi; ed infine se utilizzarli entrambi (Cass. 7200/2011;

9639/2010; 12771/2007; 1161/2007; 4885/2006).

Pertanto tutte le doglianze rivolte a contestare le sentenze di merito per aver privilegiato il criterio sintetico-comparativo risultano inammissibili anche perchè la società non ha dimostrato che quello analitico invocato, ove correttamente applicato alla situazione di mercato del 1983 nella specifica zona dei PEEP, avrebbe condotto ad una valutazione più elevata del fondo.

D’altra parte è errato anche l’altro presupposto da cui la soc. Beni Stabili muove per contestare la validità del criterio suddetto, che si fondi sulle inaffidabili fluttuazioni della moneta nel tempo, e/o sugli indici calcolati dall’ISTAT per l’aumento del costo della vita:

essendo invece incentrato sulla ricognizione di prezzi storici e certi che, in ragione della loro rappresentatività, si porgono come idonei parametri di determinazione del valore da attribuire al bene oggetto della stima. E siffatta rappresentatività si configura solo allorquando i prezzi di confronto riguardino terreni "omogenei" con riferimento non solo agli elementi materiali – quali la natura, la posizione, la consistenza morfologica e simili – e temporali, ma anche alla condizione giuridica urbanistica cui sono soggetti.

Consegue che la Corte di appello correttamente non ha preso in alcuna considerazione gli elementi comparativi offerti dalla società quanto meno per la disomogeneità del dato temporale cui essi si riferiscono, riguardando la maggior parte di essi terreni e fabbricati, stimati nel triennio 1995-1998 (taluno nel periodo immediatamente antecedente); laddove la valutazione del terreno espropriato è stata correttamente compiuta nell’anno 1987, in cui se ne è verificata l’acquisizione da parte del comune ed in cui, come ha finito per riconoscere la stessa società, il mercato immobiliare inerente al piano edilizio ancora da realizzare per la gran parte non era sotto alcun profilo comparabile con quello degli anni successivi durante i quali erano stati realizzati servizi ed opere di urbanizzazione di ogni genere e la zona era stata interamente edificata. Senza considerare che di nessuno degli immobili indicati sono state prospettate la disciplina urbanistica nonchè le altre caratteristiche che dovevano renderle analoghe a quelle proprie dell’immobile da valutare, mentre alcuni di detti atti, come l’avviso di accertamento del dicembre 1997, contiene soltanto una proposta di valutazione di cui la società non ha riferito neppure se sia divenuta o meno definitiva, pur essendo di essa destinataria la dante causa Granai di Nerva.

Per converso, la sentenza impugnata non si è limitata a recepire gli accertamenti e le risultanze della c.t., ma: a) ha individuato gli atti di riscontro utilizzati per la valutazione del fondo, correttamente rilevando che per il loro ingente numero – ben 14 – nonchè per le loro caratteristiche analoghe a quelle del fondo espropriato, soprattutto con riguardo alla comune disciplina urbanistica, tanto che ben 10 di essi si riferivano proprio ad un Piano di zona, gli stessi dovevano considerarsi pienamente rappresentativi dei prezzi del mercato immobiliare del tempo: senza alcuna contestazione al riguardo della società; b)ha spiegato anche le ragioni per cui era stato necessario ridurre il valore di alcuni di essi inclusi in zona E ed aventi possibilità di sfruttamento edilizio solo a distanza di un rilevante intervallo temporale; c)ha indicato quale ultimo e decisivo riscontro della congruità della stima compiuta dal consulente, sicuramente favorevole alla società, un atto di compravendita di una vasta area ubicata nella zona da parte della Iniziativa Granai che vi aveva attribuito nel mese di dicembre 1983 il valore medio assai più modesto di circa L. 8136 mq.

Con ciò esprimendo le ragioni del proprio convincimento in termini tali da consentire il controllo del processo logico adottato per pervenire ad esso, ed esaurendo l’obbligo della motivazione non tenuta ad esaminare particolarmente tutte le deduzioni della società (di cui si è detto avanti) incompatibili con le argomentazioni accolte: perchè implicitamente disattese. Venendo da ultimo al regime delle spese, l’infondatezza delle censure esposte da Beni Stabili ne impone la condanna, per prevalente soccombenza, alla refusione delle spese, determinate in dispositivo a beneficio del Comune di Roma.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, riuniti i ricorsi, rigetta il principale, dichiara inammissibile l’incidentale e condanna Beni Stabili alla refusione delle spese di legittimità in favore del Comune, che determina in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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