Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-03-2012, n. 3656 Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma, respinta con sentenza non definitiva n. 100055 del 16.07.1992 l’eccezione di prescrizione sollevata dalle parti convenute, e poi riuniti i due giudizi introdotti nel 1988 e nel 1991 dalla s.r.l. Iniziativa Granai di Nerva nei confronti del Comune di Roma e della cooperativa edilizia "La Benemerita 1974", con successiva sentenza n. 12613 del 26.02-11.04.2003, condannava in solido dette parti convenute, al pagamento in favore della società attrice, della somma di Euro 46.136,00, oltre interessi legali dal novembre 1983, per l’avvenuta occupazione espropriativa, di un terreno di proprietà di quest’ultima ed avente natura edificatoria, già oggetto di occupazione temporanea disposta con Delib. Giunta 7 novembre 1978. Dichiarava inoltre il comune tenuto a garantire la cooperativa nonchè a rimborsarle quanto quest’ultima avrebbe dovuto corrispondere al proprietario in forza della sentenza e respingeva, invece, la domanda di rivalsa svolta dall’ente locale nei confronti della cooperativa.

In parziale accoglimento dell’appello della società, la Corte di appello di Roma con sentenza del 14.01-3.03.2008, ha elevato l’importo dell’indennizzo dovutole ad Euro 81.251,04 corrispondente al valore venale del fondo aumentato della rivalutazione monetaria nonchè all’indennità di occupazione temporanea, e modificato il criterio di computo degli interessi legali, ha mantenuto ferma la condanna in solido del comune e della Cooperativa in quanto titolari tanto dell’obbligazione risarcitoria, che di quella indennitaria; ha condannato il comune a rivalere la Cooperativa delle somme pagate all’espropriata; ed ha infine respinto sia la richiesta di manie va avanzata dal comune che quella della società rivolta ad ottenere una valutazione del fondo più elevata di quella di oltre L. 50.000 accertata dal c.t.u. con il metodo sintetico-comparativo.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la s.p.a. Beni Stabili, incorporante la s.p.a. Sviluppi Immobiliari, a sua volta incorporante la Iniziativa Granai, affidandolo a tre motivi, illustrati da memoria; cui ha resistito con controricorso il comune di Roma che ha formulato ricorso incidentale per due motivi. La Cooperativa intimata non ha svolto attività difensiva I ricorsi sono stati riuniti.

Motivi della decisione

Il Collegio deve, anzitutto, dichiarare inammissibile il primo motivo del ricorso incidentale del Comune di Roma, inerente al rigetto dell’eccezione di prescrizione quinquennale del diritto azionato da Beni Stabili ed alla mancanza di atti interruttivi del relativo decorso, giacchè il relativo quesito di diritto si rivela generico e non aderente al decisum, laddove il dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale in argomento viene in tale quesito apoditticamente anticipato al 1982 in luogo del dicembre 1983, ineccepibilmente individuato dai giudici di merito, in correlazione con la scadenza del periodo di occupazione legittima, intervenuta dopo la irreversibile trasformazione dell’area.

Infondato, invece, è il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui il Comune denunzia violazione degli artt. 2043 e 2055 c.c., nella parte in cui la sentenza ebbe a gravare il Comune a titolo di rivalsa a beneficio della Cooperativa La Benemerita 74 tanto delle somme versate per risarcimento da occupazione acquisitiva quanto di quelle erogate per indennità di occupazione legittima. Costituiscono punti fermi della controversia accertati nei due gradi del giudizio di merito e non contestati da alcuna delle parti: a) che il Comune nel 1978 ha proceduto all’occupazione temporanea e d’urgenza del fondo della società, autorizzata sino al 28 dicembre 1983; momento in cui, non essendo stato emesso il decreto di espropriazione ma essendo stata realizzata l’opera edilizia, se ne è verificata l’acquisizione a titolo originario all’amministrazione comunale (dichiarata dal Tribunale); b) che quest’ultima ha concesso alla cooperativa il diritto di superficie sul terreno per la costruzione di un programma di edilizia economico-popolare, secondo lo schema della L. n. 865 del 1971, art. 35, senza tuttavia delegarle il compimento di alcun atto della procedura ablativa, nè tanto meno il potere di acquisire direttamente l’area sia pure in nome e per conto dell’ente pubblico ( L. n. 865, art. 60); c) che l’opera edilizia è stata interamente realizzata – e quindi la delega assolta – nel periodo dell’occupazione temporanea.

Al lume di queste circostanze fattuali, dovevano trovare applicazione i principi ripetutamente enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sent. 10922/1995; 24397/2007; nonchè da ultimo:

7198/2011) secondo cui: 1) qualora l’amministrazione espropriante avvalendosi dello schema di cui alla L. n. 865 del 1971, artt. 35 e 60, affidi ad altro soggetto, anche mediante una concessione, la realizzazione di un’opera pubblica, e gli deleghi nello stesso tempo gli oneri concernenti la procedura ablatoria, l’illecito in cui consiste l’occupazione appropriativa, per cui, a causa della trasformazione irreversibile del suolo in mancanza del decreto di esproprio, si verifica comunque la perdita della proprietà a danno del privato ( L. n. 458 del 1988, art. 3), è ascrivibile anzitutto al soggetto che ne sia stato autore materiale ( artt. 40 e 41 cod. pen.), senza possedere un titolo autorizzativo: in tal caso, il fatto che l’opera sia stata ultimata in periodo di occupazione legittima non esonera definitivamente il delegato da responsabilità, ricadendo su di lui l’onere di armonizzare l’attività amministrativa con l’attività materiale, facendo sì che il decreto di espropriazione intervenga tempestivamente e che quindi la fattispecie si mantenga entro la sua fisiologica cornice di legittimità; 2) ove invece agli enti ed istituti indicati dal menzionato art. 35 sia stato delegato soltanto il compimento dell’opera, ne può essere affermata la responsabilità nella illegittima vicenda ablativa soltanto se l’irreversibile trasformazione dell’immobile si sia verificata in pendenza di occupazione illegittima (o perchè tale originariamente o perchè tale divenuta per decorso del termine); 3) nell’ipotesi, invece, in cui quest’ultima unitamente alla realizzazione dell’opera siano compiute durante il periodo in cui ne è consentita l’occupazione, non appare possibile configurare, a carico del delegato neppure una situazione di corresponsabilità posto che la delega si esaurisce, per il cessare del suo oggetto, con l’ultimazione dell’opera, senza altri doveri per costui; e che d’altra parte la fattispecie di danno viene in essere, invece, con lo spirare del periodo di occupazione legittima senza che sia stato emesso il decreto di espropriazione, di cui non spetta al delegato occuparsi. Per cui risulta assorbente, cioè "da solo sufficiente a determinare l’evento" (secondo la formula dell’art. 41 c.p.), il comportamento omissivo dell’ente delegante, che ha trascurato di azionare e/o sollecitare la procedura espropriativa in violazione del dovere "di coordinare i tempi dell’attività materiale e della attività amministrativa".

Dunque, la Cooperativa, delegata alle sole operazioni materiali di realizzazione (ipotesi che nella specie si è affermato essere dimostrata) non avrebbe dovuto rispondere nei confronti di Beni Stabili tanto per il verificarsi della illegittima espropriazione, quanto ed a maggior ragione, per l’obbligazione indennitaria conseguente all’occupazione temporanea del fondo, che grava esclusivamente sull’ente territoriale a cui favore ed a beneficio del quale risulta adottato il provvedimento ablatorio (Cass. 11768/2010;

12153/2007; 539/2004). Pertanto, pur essendo ormai definitiva la condanna della medesima cooperativa in solido con il Comune al pagamento in favore di beni stabili, comunque nel rapporto interno con il Comune, risulta legittimamente a lei attribuito il diritto, ancora controverso, di sua rivalsa nei confronti dell’ente.

Con il primo motivo del ricorso principale, la società espropriata,deducendo violazione dell’art. 37 t.u. espr.; L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 89, nonchè dei principi contenuti nella sentenza 349/2007 della Corte Costituzionale, si duole, anche per il profilo motivazionale, che la Corte di appello dopo quest’ultima pronuncia e la nuova normativa della legge finanziaria del 2007 abbia mantenuto ferme le valutazioni della consulenza tecnica che si discostavano dal valore reale dell’area mentre invece occorreva rinnovarla, anche per rispondere alle contestazioni contenute nei motivi di impugnazione, onde ricercarne il valore effettivo, idoneo a ristorare il danno subito, come richiesto dalla Consulta.

Con il secondo, deducendo violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata per non avere fornito alcuna risposta alle contestazioni rivolte alle risultanze della c.t.u., limitandosi a recepirla acriticamente nonchè a rinviare alla motivazione di altra decisione della stessa Corte (peraltro sottoposta a ricorso per cassazione).

Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 2697 cod. civ., artt. 115, 116 e 196 cod. proc. civ., nonchè vizi di motivazione, censura la sentenza impugnata: a) per avere proceduto al calcolo del valore venale dell’area, pacificamente ritenuta edificabile, con il metodo-sintetico comparativo, invece che con quello analitico ricostruttivo, assai più affidabile, e nel caso più rispondente alla qualità di imprenditore di essa società; senza peraltro applicare la giurisprudenza di legittimità che aveva più volte escluso quello sintetico perchè fondato sulla fluttuazione della moneta nel tempo piuttosto che sui diversi elementi che concorrono a determinare lo sviluppo edilizio di una zona ed a fornire il prezzo di mercato degli immobili in essa compresi; b) per avere il c.t. omesso del tutto di determinare il danno ad essa provocato che doveva comprendere tanto quello emergente, quanto il lucro cessante; e perciò di personalizzare il criterio di calcolo in funzione delle proprie qualità imprenditoriali, necessariamente diverse dalla fattispecie in cui il bene appartiene ad una persona fisica; c) per non avere considerato i numerosi errori e le altrettanto gravi omissioni in cui era incorso il c.t.u. nel determinare i valori anche di aree limitrofe concesse ad altre cooperative, e nel non valutare altri atti di comparazione specificamente indicati o prodotti: come accertamenti di valori, stime dell’UTE, consulenze che avevano determinato indennità di espropriazioni, atti dello stesso comune, tutti pervenuti a valori assai più elevati, non inferiori a L. 150.000-160.000 mq. ed inconciliabili con quello di L. 90.000 mq. su cui aveva insistito il c.t..

Le suesposte censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

Con la prima di queste, infatti, la società mostra di non aver compreso ratio e contenuto della sentenza 349/2007 della Corte Costituzionale che (unitamente alla coeva decisione 348/2007), lungi dall’aver voluto interferire sui meccanismi estimativi per la ricerca del prezzo in comune commercio dei suoli, ha inciso sui criteri per la determinazione dell’indennizzo dovuto secondo il precetto contenuto nell’art. 42 Cost., all’espropriato in entrambe le ipotesi di ablazione -legittima ed illegittima- degli immobili per la realizzazione di opere di p.u. dichiarando (per quanto qui interessa) incostituzionale per contrasto con il menzionato precetto e con quello dell’art. 117 Cost., il parametro riduttivo introdotto dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65, per le aree edificatorie la cui irreversibile trasformazione si era consumata prima del 30 settembre 1996,che ne aveva stabilito la stima in misura sostanzialmente non superiore al 55% del loro valore venale effettivo. E perciò ripristinando la regola (ora recepita dall’art. 2, comma 89 sub 2 e della L. n. 244 del 2007 che ha in tal modo modificato l’art. 55 del T.U.) che nelle espropriazioni illegittime detto indennizzo quale che sia la natura e la destinazione del bene espropriato deve essere liquidato in misura corrispondente al suo valore venale: salvi perciò restando i criteri di estimo più opportuni per accertarlo in concreto (la cui utilizzazione resta devoluta al prudente apprezzamento del giudice del merito).

B) Egualmente erronea è la lettura dell’art. 42 Cost., comma 3, prospettata dalla società che nell’ipotesi di espropriazioni illegittime ha rivendicato una sorta di sdoppiamento dell’indennizzo costituito da due distinte poste, l’una comprendente il valore di mercato dell’immobile, e l’altra ogni ulteriore pregiudizio arrecato all’espropriato, comprensivo ex art. 2043 cod. civ., sia del danno emergente che del lucro cessante,e variabile in funzione delle sue qualità; che perciò nel caso avrebbe dovuto tener conto dell’attività imprenditoriale esercitata.

Al contrario la giurisprudenza tanto della Corte Costituzionale quanto di legittimità ha costantemente tratto dal ricordato precetto costituzionale i seguenti principi: a) l’indennità per l’esproprio, essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, è unica e non può superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione (il valore cioè che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul mercato della L. n. 2359 del 1865, ex art. 39), e nelle singole fattispecie, neppure quello derivante dal criterio di valutazione posto dalla legge applicabile per determinarlo; 2) il termine di riferimento dell’unica indennità è quindi rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato, quale gli deriva dalle sue caratteristiche naturali, economiche e giuridiche, e soprattutto dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle: essa non può peraltro essere rapportata (all’infuori delle ipotesi previste dalla L. n. 865 del 1971, art. 15) al pregiudizio che il proprietario risente come effetto del non potere ulteriormente svolgere mediante l’uso dello stesso immobile la precedente o altre attività (industriali o commerciali); 3) a questo regime non si sottrae la c.d. occupazione espropriativa, pur essa appartenente alla materia delle espropriazioni per p.u. considerate dal precetto dell’art. 42 Cost.

(cfr. art. 5 bis, comma 6) che d’altra parte riserva al legislatore il potere discrezionale di modulare contenuto, ampiezza e denominazione dell’indennizzo nelle varie fattispecie disciplinate;

sicchè proprio in forza di questa norma lo stesso assume nell’espropriazione illegittima la fisionomia di un risarcimento del danno integrale, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato ( L. n. 2359 del 1865, art. 39), sì da raggiungere, secondo la Corte Costituzionale, "la sua massima estensione consentita" in luogo del "massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesserà pubblica amministrazione può garantire all’espropriato" nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge (Corte Costit. 188/1995;

179/1999; 349/2007; Cass. 10560/2008).

Proprio al dettato di queste pronunce si è attenuta la sentenza impugnata che, ha riformato quella del Tribunale laddove aveva applicato il meccanismo riduttivo della L. n. 662, art. 3, comma 65, dichiarato incostituzionale; ha determinato l’indennizzo dovuto alla società nella misura di L. 59.092.830, corrispondente al valore venale del fondo stimato al gennaio 1984, data della sua acquisizione al patrimonio del comune; ed infine sul presupposto della natura risarcitoria dell’indennizzo nella fattispecie appropriativa, ne ha rivalutato l’importo alla data della decisione, tenendo conto della svalutazione nel frattempo intervenuta, come è peculiare dei debiti di valore. Egualmente inconsistenti sono le censure rivolte dalla società al criterio di valutazione del terreno utilizzato dalla Corte territoriale.

L’accertamento del relativo valore,infatti, può avvenire indifferentemente sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad individuare quello di trasferimento del fondo; sia con metodi sintetico-comparativi, volti invece a desumere dall’analisi del mercato il valore commerciale del fondo: oggi più non potendosi stabilire dopo il sopravvenire del principio dell’edificabilità legale di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, tra i due criteri un rapporto di regola/eccezione, come era in passato allorchè si attribuiva valore preminente a questi ultimi perchè era sufficiente l’edificabilità di fatto per liquidare l’indennità. Da qui la regola, del tutto pacifica nella giurisprudenza, che rientra tra i compiti del giudice di merito, la scelta del criterio di stima improntato per quanto possibile a criteri di effettività -anche secondo le indicazioni della Corte costituzionale (Cass. 13182/2006;

3034/2005; Corte Costit. 305/2003): e quindi la facoltà di stabilire in base alle peculiarità del caso concreto (anche avvalendosi delle indicazioni del consulente tecnico d’ufficio), e senza necessità di motivazione, se sussistono gli elementi occorrenti per la ricerca del presumibile valore comparativo dell’area; se privilegiare quest’ultimo metodo, ovvero i criteri di stima c.d. analitici- ricostruttivi, o ancora metodi diversi da questi; ed infine se utilizzarli entrambi (Cass. 7200/2011;9639/2010; 12771/2007;

1161/2007; 4885/2006).

Pertanto tutte le doglianze rivolte a contestare le sentenze di merito per aver privilegiato il criterio sintetico-comparativo risultano inammissibili anche perchè la società non ha dimostrato che quello analitico invocato,ove correttamente applicato alla situazione di mercato del 1983 nella specifica zona del PEEP, avrebbe condotto ad una valutazione più elevata del fondo.

D’altra parte è errato anche l’altro presupposto da cui la soc. Beni Stabili muove per contestare la validità del criterio suddetto,che si fondi sulle inaffidabili fluttuazioni della moneta nel tempo, e/o sugli indici calcolati dall’ISTAT per l’aumento del costo della vita:

essendo invece incentrato sulla ricognizione di prezzi storici e certi che, in ragione della loro rappresentatività, si porgono come idonei parametri di determinazione del valore da attribuire al bene oggetto della stima. E siffatta rappresentatività si configura solo allorquando i prezzi di confronto riguardino terreni "omogenei" con riferimento non solo agli elementi materiali – quali la natura, la posizione, la consistenza morfologica e simili – e temporali, ma anche alla condizione giuridica urbanistica cui sono soggetti.

Consegue che la Corte di appello correttamente non ha preso in alcuna considerazione gli elementi comparativi offerti dalla società quanto meno per la disomogeneità del dato temporale cui essi si riferiscono, riguardando la maggior parte di essi terreni e fabbricati, stimati nel triennio 1995-1998 (taluno nel periodo immediatamente antecedente); laddove la valutazione del terreno espropriato è stata correttamente compiuta nell’anno 1984, in cui se ne è verificata l’acquisizione da parte del comune. Ed in cui, come ha finito per riconoscere la stessa società, il mercato immobiliare inerente al piano edilizio ancora da realizzare per la gran parte non era sotto alcun profilo comparabile con quello del decennio successivo durante il quale erano stati realizzati servizi ed opere di urbanizzazione di ogni genere; e la zona era stata interamente edificata. Senza considerare che di nessuno degli immobili indicati sono state prospettate la disciplina urbanistica nonchè le altre caratteristiche che dovevano renderle analoghe a quelle proprie dell’immobile da valutare, mentre alcuni di detti atti, come l’avviso di accertamento del dicembre 1997, contiene soltanto una proposta di valutazione di cui la società non ha riferito neppure se sia divenuta o meno definitiva,pur essendo di essa destinataria la dante causa Granai di Nerva.

Per converso,la sentenza impugnata non si è limitata a recepire gli accertamenti e le risultanze della c.t., ma: a) ha individuato gli atti di riscontro utilizzati per la valutazione del fondo acquisito nel 1984, correttamente rilevando che per il loro ingente numero -ben 14- nonchè per le loro caratteristiche analoghe a quelle del fondo espropriato,soprattutto con riguardo alla comune disciplina urbanistica, tanto che ben 10 di essi si riferivano proprio ad un Piano di zona, gli stessi dovevano considerarsi pienamente rappresentativi dei prezzi del mercato immobiliare del tempo: senza alcuna contestazione al riguardo della società; b) ha spiegato anche le ragioni per cui era stato necessario ridurre il valore di alcuni di essi inclusi in zona E ed aventi possibilità di sfruttamento edilizio solo a distanza di un rilevante intervallo temporale; c) ha indicato quale ultimo e decisivo riscontro della congruità della stima compiuta dal consulente, sicuramente favorevole alla società, un atto di compravendita di una vasta area ubicata nella zona da parte della Iniziativa Granai che vi aveva attribuito nel mese di dicembre 1983 il valore assai più modesto di circa L. 8000 mq. Con ciò esprimendo le ragioni del proprio convincimento in termini tali da consentire il controllo del processo logico adottato per pervenire ad esso, ed esaurendo l’obbligo della motivazione non tenuta ad esaminare particolarmente tutte le deduzioni della società (di cui si è detto avanti) incompatibili con le argomentazioni accolte:

perchè implicitamente disattese.

Venendo da ultimo al regime delle spese si osserva che, se il rigetto del ricorso del Comune attinge in parte il solo rapporto tra l’Ente e la intimata, che non ha svolto difese, nel rapporto impugnatorio di legittimità tra Beni Stabili e Comune di Roma, la infondatezza delle censure esposte dalla prima ne impone la condanna, per prevalente soccombenza, alla refusione delle spese a beneficio del secondo (determinate in dispositivo).

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, riuniti i ricorsi, li rigetta e condanna Beni Stabili alla refusione delle spese di legittimità in favore del Comune, che determina in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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