Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-03-2012, n. 3627 Lavoro familiare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 29-7-1989 S.M., Sa.

C., con le rispettive consorti, C.T. e G. D., si rivolgevano al Giudice del Lavoro del Tribunale di Padova deducendo di avere sempre collaborato con Sa.Pi., loro genitore, nella conduzione di una impresa familiare avente ad oggetto la coltivazione di fondi agricoli.

Sostenevano che le parti avevano dapprima costituito una comunione tacita familiare e poi una impresa familiare.

Chiedevano, di conseguenza, la declaratoria di accertamento del proprio diritto alla quota degli utili e dei crediti derivanti dalla partecipazione all’impresa e la condanna dei convenuti, Sa.

P., degli altri fratelli e sorelle -essendosi poi verificati fenomeni successori-, al pagamento delle somme corrispondenti.

Nel corso del giudizio veniva espletata ctu contabile per verificare la consistenza della impresa e i criteri di valutazione degli apporti dei familiari.

Con sentenza non definitiva veniva respinta la domanda dei ricorrenti relativa all’accertamento della comunione tacita familiare, mentre veniva affermata la sussistenza, a decorrere dal 18 luglio 1975, di un’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c..

A seguito di ulteriore ctu, la causa veniva definitivamente decisa con sentenza del 28.1.2005/1.7.2005, con cui l’adito Giudice condannava i resistenti, nella loro qualità di eredi del signor Sa.Pi., in proporzione delle rispettive quote ereditarie, al pagamento di somme, specificamente indicate, secondo quanto accertato dal CTU, in relazione al periodo 1975, data di entrata in vigore dell’art. 230 bis c.c., al luglio 1985, quando era cessato l’apporto lavorativo dei ricorrenti nell’azienda paterna.

Avverso tale decisione proponevano appello i convenuti soccombenti, ma la Corte d’appello di Venezia, ritenute, anche sulla base del materiale probatorio acquisito, corrette le determinazione del CTU, rigettava il gravame.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorrono i soccombenti con due motivi.

Resistono gli originari ricorrenti, S.M., Sa.

C., C.T. e G.D. (o G. o G.), con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo mezzo d’impugnazione i ricorrenti, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè errata determinazione delle quote di partecipazione dei singoli componenti dell’impresa familiare agli utili della stessa, agli incrementi dell’azienda e all’avviamento ed, ancora, errata quantificazione dell’apporto lavorativo degli stessi, contestano l’impugnata sentenza nella parte in cui, in relazione ai primi due motivi di appello, ha disatteso le censure degli appellanti, ritenendo "del tutto corretta la quantificazione effettuata dal Giudice di primo grado in conformità con le risultanze di cui alla seconda CTU espletata in primo grado.

In particolare, lamentano che il Giudice di merito non avrebbe valorizzato l’apporto del sig. Sa.Pi., quale "imprenditore" della impresa familiare e proprietario del "capitale" dell’azienda agricola ed avrebbe, pertanto, riconosciuto una percentuale di spettanza troppo bassa.

Lamentano, inoltre, che, anche con riferimento a M.M., moglie di Sa.Pi., sarebbe stata attribuita una quota di partecipazione all’impresa familiare minore di quanto alla stessa spettante, tenuto conto, per un verso, dell’attività lavorativa dalla stessa sempre svolta a tempo pieno nel lavoro domestico funzionale all’azienda e nella cura degli animali da cortile e dell’orto, e, per altro verso delle quote attribuiti, alle nuore, C.T. e G.D., occupate anche nell’attività domestica non funzionale all’azienda (gravidanze e cura dei figli).

Con il secondo motivo i ricorrenti, denunciando omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), lamentano inadeguatezza argomentativa in relazione all’individuazione dei criteri per la determinazione dei coefficienti e delle quote di partecipazione di ciascun membro dell’impresa familiare.

Il ricorso, pur valutato nella sua duplice articolazione, non può trovare accoglimento.

Invero, la Corte d’appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado, ha riconosciuto agli appellati – componenti della impresa familiare un corrispettivo adeguato nei termini indicati da una consulenza d’ufficio volta appunto a valutare in termini economici l’apporto dato da ciascuno dei singoli componenti della suddetta impresa familiare.

Nel pervenire a tale conclusione il Giudice d’appello ha tenuto nel dovuto conto l’impegno lavorativo dato dai fratelli M. e Ca., tenendo in conto il periodo in cui costoro erano stati impegnati in altro lavoro di natura subordinato, e tenendo in considerazione l’apporto domestico che le loro mogli davano anche in funzione dell’accudimento del bestiame e della cura dei loro mariti consentendo agli stessi di dedicarsi alla conduzione generale del fondo agricolo.

Con i proposti motivi i ricorrenti svolgono, in realtà, una rivisitazione delle prove testimoniali e muovono una critica alla disposta ctu, la quale risulta, per converso, motivatamente accolta ed argomentata dal Giudice di merito.

Devesi, in proposito, rammentare, costituendo specifico motivo di gravame, unitamente a quello ricondotto al vizio di violazione di legge, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. S.U. n. 13045/97) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

Nella specie, il ragionamento della Corte territoriale appare coerente, logico ed immune da vizi.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 50,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari ed oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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