Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-03-2012, n. 3733 Affitto a coltivatore diretto Canone

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 21.11.2008, D.I., D.P., F.C., F.F., G. B., M.F., N.S., P.S., S. G. e T.M. convenivano davanti alla sez. spec. Agraria del tribunale di Trento il Comune di Rovere della Luna, assumendo che erano affittuari di vari fondi del Comune; che alla scadenza dei contratti il Comune aveva indetto un bando di gara per la riassegnazione dei fondi per solo 1 anno; che, avendo essi attori vinto la gara, i fondi erano stati loro riassegnati per un anno, senza l’assistenza delle organizzazioni di categoria ad un canone superiore a quello legale; che quindi il termine di scadenza del contratto doveva essere rapportato ad anni 15 ed il canone a quello legale, a norma della L. n. 203 del 1982.

Il tribunale, ritenuto che la L. n. 203 del 1982, artt. 9 e 62, erano stati dichiarati incostituzionali, rigettava la domanda, quanto alla determinazione del canone equo in sostituzione di quello determinato tramite i criteri del bando, ed accoglieva la domanda quanto alla sostituzione del termine annuale di scadenza del contratto in quello legale di anni 15.

Avverso questa decisione proponevano appello gli attori.

La Corte di appello di Trento, sez. spec. Agraria, rigettava l’appello, con sentenza depositata il 22.12.2009, rilevando che la dichiarazione di illegittimità effettuata con sentenza della Corte Cost. n. 310/2002 investiva ogni determinazione legale del canone di affitto; che la clausola contrattuale, attinente alla durata del contratto, era nulla perchè violava il termine di legge attinente alla durata quindicennale e, quindi, andava sostituita con la clausola legale, ma che tale sostituzione automatica non influiva sull’entità del canone stabilito nel contratto.

Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli attori.

Resiste con controricorso il Comune convenuto.

Motivi della decisione

1.1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione ed errata applicazione della normativa di cui alla L. n. 203 del 1982, in merito alla determinazione del canone di affitto ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in merito all’asserita non vigenza del principio dell’equo canone in tema di contratto di affitto agrario ed in merito alla decisione di applicare un canone contrario alla volontà dei conduttori e non voluto al momento della stipula del contratto.

1.2.Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione ed errata applicazione della L. n. 567 del 1962, art. 3 e L. n. 203 del 1982, artt. 14 e 45, in merito all’individuazione dei criteri per la determinazione dell’equo canone. In particolare ritenevano i ricorrenti che il canone d’affitto dovesse essere determinato o sulla base delle indicazioni fornite dalle commissioni provinciali, ai sensi della L. n. 567 del 1962, art. 3, e L. n. 203 del 1982, artt. 14 e 45, oppure attraverso la mediazione delle organizzazioni sindacali.

2.1. I suddetti 2 motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati.

Come già è stato affermato da questa Corte (Cass. 12.4.2011, n. 8413; Cass. 19/04/2010, n. 9266) per effetto della declaratoria d’incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 318 del 2002, sono divenute prive di effetti sia le tabelle per il canone di equo affitto, disciplinate dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 9 e dalle norme da questo richiamate, sia, ai fini della quantificazione del canone stesso, i redditi dominicali stabiliti, ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 62 a norma del R.D.L. 4 aprile 1939, n. 589, per cui il canone dovuto dalla parte conduttrice è unicamente quello stabilito liberamente tra le parti o l’ultimo, giudizialmente accertato con sentenza passata in cosa giudicata anteriormente alla sentenza n. 318 del 2002.

Da ciò consegue che non è consentito al giudice – in attesa di un’eventuale nuova disciplina della materia – determinare un canone equo in sostituzione di quello voluto dalle parti o definitivamente accertato dal giudice, anche se il canone così determinato (pattiziamente o in forza di pronuncia passata in giudicato) non assicuri al concedente una remuneratività non irrisoria della rendita e all’affittuario la possibilità di esercizio dell’impresa con il contemperamento degli interessi reciproci.

2.2. E’ precluso al giudice sia l’esame, nel merito, di domande formulate ai sensi della L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 28, allorchè dirette ad ottenere la restituzione di somme pagate dal conduttore oltre i "livelli massimi di equità", sia l’esame (nè per essere accolte perchè fondate, nè per essere rigettate in assenza dei relativi requisiti o per essere dichiarate precluse per intervenuta decadenza) di eventuali domande – comunque denominate – avanzate in forza della L. 12 giugno 1962, n. 567, art. 7, ovvero in forza delle tabelle redatte dalle commissioni tecniche provinciali ai sensi delle L. n. 567 del 1962, art. 3 e L. n. 203 del 1982, art. 14.

Quindi per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 138 del 2002 sono divenuti legittimi, in mancanza di previsione normativa di livelli massimi d’equità gli accordi liberamente intervenuti tra le parti – anche senza l’assistenza delle rispettive organizzazioni di categoria – in ordine alla determinazione del canone d’affitto (Cass. 23628 del 20/12/2004).

2.3.Le conclusioni sopra raggiunte, del resto, trovano ulteriore conferma nella pronunzia 28 ottobre 2004, n. 315 della Corte costituzionale che in motivazione, al punto 3.2., ha evidenziato: "a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale della L. n. 203 del 1982, artt. 9 e 62, il regime di equo canone dei fondi rustici è venuto meno su tutto il territorio nazionale, ad eccezione dei territori del catasto derivante dall’ex catasto austro ungarico, cui appunto continua ad applicarsi l’art. 14 della stessa legge. Dal che deriva, dunque, una ingiustificata disparità di trattamento dei proprietari dei fondi rustici situati in quei territori (e che, per l’effetto, ha dichiarato la illegittimità costituzionale della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 14, comma 2, secondo e terzo periodo)", con ciò dimostrando – ulteriormente – in termini non equivoci nè dubbi che, al momento, non esiste più un regime di equo canone, per i fondi rustici.

2.4. Privo di qualsiasi fondamento, ancora, al fine di pervenire a una diversa soluzione della controversia è il richiamo, all’art. 36 Cost..

Per quanto "ampia" possa essere la nozione di "lavoratore" richiamata dall’art. 36 Cost., infatti, deve escludersi decisamente – che la tutela della disposizione de qua possa invocarsi dagli affittuari coltivatori diretti. E’ sufficiente, al riguardo, considerare che il codice civile, al titolo secondo del quinto libro, in tema di "lavoro nell’impresa", alla prima sezione (del capo primo) dedicata espressamente all’"imprenditore", precisa – espressamente – all’art. 2083 c.c., che "sono piccoli imprenditori", tra gli altri, "i coltivatori diretti del fondo".

La circostanza, ex se, pare più che sufficiente a escludere – a giudizio di questa Corte – che gli affittuari coltivatori diretti possano invocare la tutela dettata dal ricordato art. 36 Cost. e, in particolare "una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del loro lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a loro e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa". Specie considerato che nei contratti di affitto il concedente il fondo rustico (diversamente da quanto si verificava negli ora non più esistenti contratti associativi agrari) non si pone come "datore" di lavoro, o come soggetto che si appropria dei risultati dall’attività lavorativa manuale prestata dall’affittuario "lavoratore", ma è, unicamente, il proprietario di uno degli elementi dell’azienda di cui l’affittuario "imprenditore agricolo" (a norma del precetto di cui all’art. 2135 c.c.) si avvale per l’esercizio della sua impresa.

3.Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., nonchè il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza in merito all’eccezione secondo cui il canone, come le altre clausole contrattuali, non è frutto della libera autonomia contrattuale, ma risulta imposto dal Comune con il bando di gara.

4.1. Il motivo è inammissibile per una duplice ragione.

Anzitutto l’eccezione è stata rigettata dalla corte di appello sulla base di 2 rationes decidendi.

La prima è costituita dall’assunta violazione dell’art. 345 c.p.c..

Sul punto la sentenza risulta censurata con il motivo in esame.

La seconda ratio decidendi è costituita dalla decisione nel merito in ogni caso effettuata dalla corte territoriale, secondo cui anche le modalità di determinazione del canone erano riportate nel bando di gara, che i partecipanti avevano espressamente accettato, esercitando il diritto di prelazione.

4.2. In merito a questa seconda autonoma ratio decidendi nessuna censura hanno prospettato i ricorrenti, con la conseguenza che il motivo di ricorso è inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse.

Infatti, quando la statuizione impugnata sia fondata su più ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali sia giuridicamente e logicamente idonea a sorreggere la pronuncia, l’omessa censura di una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto d’interesse, il motivo di ricorso per cassazione relativo alle altre, in quanto la sua eventuale fondatezza non potrebbe mai condurre all’annullamento della sentenza, essendo divenuta definitiva la motivazione autonoma non impugnata. (Cass. 9 dicembre 1994, n. 10555; Cass. 18.7.2000, n. 9449; Cass. 18.4.1998, n. 3951).

4.3. Inoltre ed in ogni caso il motivo è inammissibile per mancato rispetto del principio di autosufficienza del ricorso. Avendo la sentenza impugnata rigettato l’eccezione della mancata contrattazione del canone, in quanto esso era determinato sulla base del bando di gara che ne prevedeva le modalità e che tale bando era stato liberamente accettato, per censurare tale assunto i ricorrenti avrebbero dovuto riportare nel ricorso, trascrivendole, le clausole del bando di gara attinenti al canone, per sostenere le loro censure avverso l’argomentazione della corte territoriale.

Tanto non risulta effettuato, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

5. Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322 e 1325 c.c., in merito all’estensione del canone, come determinato dal bando di gara, anche ai successivi 14 anni di durata legale del contratto, quale conseguenza dell’applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 1.

Assumono i ricorrenti che il canone del bando di gara era relativo solo ad un anno; che ciò comportava che per i successivi 14 anni il canone doveva essere convenuto tra le parti; che in ogni caso il canone fissato per l’assegnazione di fondi "Sort comunali decennali" era inferiore.

6. Il motivo è infondato.

Va infatti affermato in linea di principio che la sostituzione automatica ex art. 1339 c.c., delle clausole contrattuali difformi da quelle previste da norme imperative con quelle legali non investe la validità ed esistenza dell’intero contratto (nella specie: di affitto), ai sensi dell’art. 1419 c.c., comma 2, che costituisce espressione del principio di conservazione degli atti negoziali (cfr. in tema di sostituzione automatica di clausole mille in tema di contratto di locazione, Cass. N. 18868 del 10/07/2008).

Ne consegue che correttamente nella fattispecie la sentenza impugnata ha rilevato che la sostituzione della clausola relativa alla durata annuale del contratto con la clausola legale relativa alla durata quindicennale comportava tuttavia la conservazione delle restanti clausole contrattuali (ivi compresa quella del canone) per tutto il periodo di durata legale del contratto. Le clausole relative al canone, infatti, non era attinte da nullità. 7. Il ricorso va, pertanto rigettato ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dal resistente e liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dal resistente e liquidate in complessivi Euro 3700,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese processuali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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