Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-03-2012, n. 3729

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con atto di citazione notificato tra il 6 ed il 7.12.1996, R.G., assumendosi coltivatrice diretta del fondo in sua proprietà accatastato al Comune di Mogliano Veneto mapp. Nn.143, 248, e 510 di ettari, complessivi 3.58.81, conveniva dinnanzi al Tribunale di Treviso Bo.Gi., Gr. Gi. e G., M.B.P. e G.G. esercitando nei loro confronti il diritto di retratto agrario in quanto, per frazioni distinte, acquirenti in violazione del suo diritto di prelazione del podere già in proprietà della famiglia C. confinante con il proprio. Allegava che il fondo della famiglia C. pp. Nn. 61, 1662, e 1663) con due atti del giugno del 1995 veniva frazionato ai mappali 61, 2677, 2678, 2679, 2681, 2682, 2683, 2684, 2685 e 2686. Quindi i mappali N. 2677, 2681 e 2684 venivano unificati nell’entità urbana identificata al mapp. n. 2688 subalterni 1, 2 e 3, nonchè i mapp. n. 61 e 2683 unificati nell’entità urbana censita al mapp. n. 61 subalterni 1, 2 e 3.

Osservava che il mappale n. 2679 era stato alienato con atto pubblico in data 10.04.1996 a Bo.Gi., enunciandosi nella compravendita che lo stesso ne era già affittuario e che in tal modo, essendo tale mappale in continuità con i numeri 2688 e 61 e venduti a G.G., Bo.Gr. e B. G., si era determinata una fascia a confine con il proprio podere tale da escludere fraudolentemente il suo diritto di prelazione e susseguente riscatto. Specificava che in precedenza il podere (OMISSIS) costituiva un complesso colturale unico sotto il profilo strutturale e produttivo, ivi compresa la casa colonica insistente sullo stesso (mappali 61 e 2688 e relativi subalterni accatastati all’urbano). L’evidenziata frode, a detta dell’attrice, non poteva escludere l’esercizio del diritto esercitato in giudizio nei confronti di tutti gli acquirenti dei singoli mappali in quanto costituenti in realtà unico fondo agricolo a confine del proprio.

Osservava che i convenuti Bo.Gi. e G. non avevano mai avuto la qualifica di coltivatori diretti e che mai gli stessi avevano coltivato come affittuari i mappali a loro alienati nel biennio antecedente agli atti di compravendita, nonostante l’affermazione contraria contenuta negli; atti pubblici di acquisto.

Allegando la sussistenza degli ulteriori presupposti oggettivi imposti dalla L. n. 590 del 1965 e dichiarandosi pronta a pagare il prezzo delle singole vendite, l’attrice concludeva per l’inefficacia nei suoi confronti degli atti di compravendita con cui i convenuti avevano acquistato le frazioni di podere indicate e per l’acquisto a suo favore dei mappali oggetto di riscatto, con il risarcimento dei danni per la mancata disponibilità del fondo. Si costituivano tutti i convenuti i quali in primo luogo eccepivano l’inesistenza del diritto di prelazione e del riscatto, in quanto il podere C. era già in precedenza delle vendite condotto dagli affittuari B.G. e Gi. con la conseguenza che acquistati i mappali 2679 e 61 sub. 1, 2 e 3 dai medesimi era venuta meno la contiguità del fondo dell’attrice con le restanti particelle, tenuto conto della irreversibile perdita dell’attitudine alla coltivazione agricola dei mappali n. 61 e 2688 passati all’urbano. Veniva, inoltre, contestata la qualifica di coltivatrice diretta della convenuta. A seguito di istruzione orale e documentale con il conforto dei disposti accertamenti tecnici, il Tribunale rigettava la domanda di riscatto nei confronti di G.G., Bo.Gr. e B.G. in riferimento ai beni di rispettiva pertinenza, in quanto sottratti da tempo alla destinazione agricola e costituenti parte autonoma rispetto al resto del compendio e accoglieva la domanda relativa agli altri immobili perchè il frazionamento degli stessi, costituenti in precedenza un’unità colturale organica, denotava con evidenza il fraudolento intento dei proprietari di eludere il diritto di prelazione dell’attrice quale coltivatrice diretta confinante nel possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi e le dichiarazioni confessorie rese da Bo.

G. nel corso dell’interrogatorio penale consentivano di escludere l’esistenza di un rapporto di affittanza tra lo stesso e i proprietari dei terreni, attesa anche la genericità delle circostanze riferite dai testi.

2. Con la sentenza indicata in epigrafe, depositata il 31 agosto 2009 e notificata il 6 aprile 2011, la Corte d’Appello di Venezia accoglieva l’appello di G. e Bo.Gi. e di M. B.P. e rigettava quello incidentale della R., così respingendo tutte le originarie domande di questa. Osservava la Corte territoriale che le considerazioni del CTU sulla irragionevolezza del frazionamento del terreno agricolo da parte dei C. erano intimamente minate da una logica che escludeva qualsiasi iniziativa economica del proprietario ( art. 41 Cost.) e congelava l’utilizzo dello stesso terreno nelle forme e nei contenuti ad esso propri al momento del frazionamento, mentre mancava un qualsiasi riscontro di siffatta irragionevolezza sotto il profilo del valore dell’originario fondo unitario e della somma dei valori dei fondi frazionati in relazione alle possibilità coeve e future di utilizzo e l’effettività del frazionamento era confermata dalla netta distinzione degli acquirenti dei fondi frazionati che non può certamente essere elisa dalla circostanza che in parte gli acquirenti fossero legati tra loro da vincoli di parentela. La pretesa interclusione dei fondi frazionati era smentita dalle trascrizioni degli atti d’acquisto letteralmente riprodotte nell’atto, d’appello.

Non condivisibile si rivelava la valutazione del primo giudice sulla pretesa mancanza di un affittuario sui fondi in oggetto, in base alle pregresse considerazioni incidenti soltanto in ordine al mappale 2679, unico confinante a destinazione agricola. La concreta coltivazione dell’intero fondo da parte di Gi.. B orto lato dal 1993 aveva trovato indubbia conferma nelle concordi, circostanziate dichiarazioni dei testi Ca.Gu., G.R., P.G., B.P. e B.R. e nelle richieste di contributi dallo stesso presentate all’AIMA a partire dal 1993 anche in relazione ai fondi in oggetto secondo il riscontro ribadito dallo stesso CTU. La circostanza che il corrispettivo dell’affittanza, secondo la dichiarazione di Bo.Gi. nel corso dell’interrogatorio formale, avesse ad oggetto non una prestazione di denaro, bensì l’obbligo di tenere in ordine i terreni e i rustici, non escludeva la natura commutativa del contratto, se solo si considerava che l’obbligo a carico dell’affittuario era certamente più ampio dell’onere insito nello sfruttamento di terreni e rustici e rifletteva l’interesse dei proprietari di salvaguardare il valore e l’appetibilità sul mercato di terreni e rustici, non solo sfruttati, bensì anche tenuti in ordine. Del resto non era priva di significato la precisazione fatta dalle parti, in proposito, negli atti di compravendita in oggetto. Il carattere reale del frazionamento e l’esistenza dell’affittuario Bo.Gi. sui terreni ritenuti riscattabili dal primo giudice consentivano di condividere le ragioni di doglianza degli appellanti e di riformare la sentenza impugnata con il rigetto della domanda della R.. Per contro era privo di qualsiasi fondamento l’appello incidentale con cui quest’ultima aveva censurato il rigetto della domanda in relazione ai mappali 61 e 2688, considerato che i rilievi del CTU sulla estraneità del fondo agricolo dei mappali 2688 e 61 con i relativi subalterni trovano adeguato riscontro non solo nella sottrazione, operata da terzi, delle due unità abitative e delle relative aree di pertinenza alla coltivazione agricola, bensì nella stessa locazione a terzi non coltivatori fin dal 1984-1985 delle predette unità, censite al catasto urbano.

3. Avverso tale sentenza, la R. propone ricorso per cassazione sulla base di otto motivi, illustrati con memoria. Gli intimati resistono con controricorso, illustrato con memoria, nel quale eccepiscono l’inammissibilità del ricorso per tardiva proposizione.

Al riguardo, premettono che la sentenza impugnata veniva notificata dal procuratore dei B.G., Bo.Gi. e M. P., Avv. Giovanni Maria Barcati a mezzo posta ai sensi della L. n. 211 del 1994, n. 53, notifica effettuata all’Avv. Francesco Casellati, procuratore – domiciliatario della R. con atto del 31.03.2010 ricevuto il 06.04.2010 e con atti consegnati per la rispettiva notifica a Bo.Gr. e G.G. il giorno 31.03.2010 ricevuti rispettivamente il 10.04.2010 e il 07.04.2010. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la R. con atto del 25.05.2010. 3.1. Deducono, pertanto, i controricorrenti che il termine ultimo per la R., il cui procuratore domiciliatario aveva ricevuto la notifica della sentenza in data 06.04.2010, veniva a scadere il 05.06.2010. Come si evince dalla, relata di notifica effettuata al procuratore Avv. Giovanni Maria Barcati nello studio di quest’ultimo in Piazza Borsa n. 1, Treviso (TV) la consegna è avvenuta il 21.06.2010. Data in cui è avvenuta la consegna per la notifica anche agli altri intimati. Ciò in quanto in precedenza la notifica a B.G., Bo.Gi., M.P., Bo.

G. e G.G. era avvenuta presso il procuratore domiciliatario in Venezia (VE) Avv. Alfredo Perulli, il quale nelle more tra il deposito della sentenza e la sua notificazione era deceduto. Ciò avrebbe comportato l’inesistenza della notificazione.

Vanamente quindi la R.G., a mezzo del suo difensore, richiamerebbe Cass. S.U. 24.07.2009 n. 17352, secondo cui nel caso che il procedimento di notificazione di un atto di impugnazione non abbia potuto concludersi non per colpa della parte interessata, deve ammettersi, in ossequio dei principi di uguaglianza e di tutela del diritto di difesa di cui agli artt. 3 e 24 Cost. e della giurisprudenza costituzionale, la riattivabilità del procedimento notificatorio quando alla parte istante non sia imputabile il mancato perfezionamento della notificazione dell’atto di impugnazione.

Invero, le Sezioni Unite avrebbero dato alla questione una risposta limitata e rigorosa, secondo cui, nel caso di difensore svolgente le sue funzioni nello stesso circondario del Tribunale a cui egli sia professionalmente assegnato, è onere della parte interessata ad eseguire la notifica accertare, anche mediante riscontro telematico delle risultanze dell’albo professionale quale sia l’effettivo domicilio professionale del difensore, con la conseguenza che non può ritenersi giustificata l’indicazione della richiesta di notificazione presso un indirizzo diverso. Nella specie, la morte dell’Avv. Alfredo Perulli ha provocato l’inefficacia dell’elezione di domicilio, con la conseguenza che la notifica degli atti non poteva più avvenire, secondo il disposto dell’art. 141 c.p.c., comma 4, presso lo studio del medesimo (Cass. 26.10.2007 n. 222542) e pertanto il difensore della R.G. aveva facilità di accertare mediante visura telematica dell’albo professionale le vicende dell’Avv. Alfredo Perulli, in ciò messa in doveroso allarme dal fatto che la notificazione dell’impugnata sentenza era venuta a richiesta dell’Avv. Giovanni Maria Barcati. E pertanto a quest’ultimo, presso la Cancelleria della Corte d’Appello di Venezia o presso il suo domicilio reale (cosa in effetti avvenuta) doveva avvenire la notifica entro i termini per la proposizione del ricorso per Cassazione.

3.2. L’eccezione è infondata. Diversamente da quanto sostengono i controcorrenti, si deve ribadire che, a seguito delle decisioni della Corte costituzionale n. 477 del 2002, n. 28 e 97 del 2004 e n. 154 del 2005 ed, in particolare, dell’affermazione, dalle stesse scaturente, del principio della scissione fra il momento di perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario, deve essere disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione fondata sull’assunto che il medesimo non sia stato notificato nel termine dei sessanta giorni previsto dall’art. 325 cod. proc. civ., qualora la parte ricorrente abbia consegnato l’atto all’ufficiale giudiziario entro l’anzidetto termine e, una volta conosciuto il motivo dell’esito negativo della notificazione per cause indipendenti dalla propria volontà (nella specie, effettuata presso l’avv. Perulli, procuratore domiciliatario della controparte indicato nella sentenza notificata, risultato deceduto), abbia proceduto, in un tempo ragionevole (diversamente da quanto sostenuto dalla controparte), alla sua rinnovazione (con atto consegnato per la notifica il 21.6.2010, mentre gli avvisi di ricevimento della precedete mancata notifica erano stati restituiti il precedente 14.6, rispetto ad un termine "breve" che scadeva il 5.6) nei confronti dell’avente diritto (Avv. Barcati, altro procuratore delle medesime parti, come da citazione in appello ed indicazione nella sentenza impugnata, stante la sopravvenuta inefficacia dell’elezione di domicilio presso l’atro difensore deceduto: Cass. 22542/2007; 11008/2006; 3982/2003; 15293/2002;

5201;2002) anche oltre il suddetto termine perentorio previsto per la proposizione del ricorso per cassazione (Cass. 6360/2007; 24702/06).

Orbene, nonostante quest’ultima notificazione risulti fuori termine con riferimento al disposto dell’ari. 325 c.p.c., non potendosi nel caso applicare gli istituti della sospensione e dell’interruzione (cfr. la medesima giurisprudenza già sopra richiamata, quanto alla sopravvenuta inefficacia dell’elezione di domicilio), non di meno il ricorso non soggiace alla sanzione d’inammissibilità, non potendosi imputare alla parte notificante l’esito negativo della notificazione tempestivamente richiesta e dovendosi, invece, riconoscere una sanante sollecita diligenza nel provvedere alla successiva notificazione valida, eseguita entro breve lasso di tempo dalla precedente, ciò in applicazione, mutatis mutandis, dei criteri dettati, in materia d’effetti dell’esito negativo delle notificazioni, anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa: Corte 4/05/06 n. 10216 e, più di recente 24/07/2009 n. 17352, nonchè, con specifico richiamo dell’ipotesi di morte del procuratore e del principio sopra riportato, S.U. 18/02/2009 n. 3818. 4. Vanno ora esaminati i motivi proposti dalla R..

4.1. Violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 41 e 42 Cost., art. 2729 c.c., L. n. 817 del 1971, art. 7. La Corte d’Appello ha escluso il carattere fraudolento delle alienazioni poste in essere dai C., valorizzando il principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.; ma tale ragionamento muoverebbe da una prospettiva errata. Ponendosi nell’ottica del proprietario alienante, la Corte avrebbe attribuito valore preminente ai principi di cui all’art. 41 Cost., omettendo però di considerare i principi costituzionali sanciti al successivo art. 42 Cost.. Le norme in materia di diritto di prelazione sono norme imperative, espressione della funzione sociale della proprietà sancita da detta norma. La Corte territoriale avrebbe pertanto dovuto valutare e valorizzare le risultanze processuali al fine di verificare se la norma imperativa di cui alla L. n. 817 del 1971, art. 7, espressione appunto dell’art. 42 Cost., fosse stata violata, essendo indiscussa nella specie la prevalenza del principio della funzione sociale della proprietà rispetto a quello di libera iniziativa economica, (come si desumerebbe anche dalla giurisprudenza di questa Corte: Cass. n. 7779 del 12-07-1991; Cass. 21 novembre 1984, n. 5950; Cass. n. 10112 del 15/10/1997), così operando un’errata applicazione dei principi costituzionali.

4.2. Insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio Ferma la prevalenza, nel giudizio che ci occupa, del principio della funzione sociale della proprietà sancito dall’art. 42 Cost., è evidente come la motivazione della sentenza sia intimamente viziata.

La Corte d’Appello non avrebbe dovuto, infatti, concentrarsi sul rispetto o meno del principio della libera iniziativa economica, bensì avrebbe dovuto valutare se fosse stato o meno frodata la norma imperativa in materia di prelazione agraria di cui alla L. n. 817 del 1971, art. 7. La giurisprudenza in materia di retratto agrario, è infatti consolidata nello statuire, nell’ipotesi relativa alla vendita da parte del proprietario di un fondo rustico, con riserva da parte del venditore di una striscia di terreno sul confine, non rispondente ad alcuna utilità, che la violazione della norma imperativa che prevede la prelazione del proprietario confinante, fa sì che a quest’ultimo debba essere riconosciuto lo strumento di tutela rappresentato dall’esercizio del riscatto (Cass. 27/07/1990 n. 7579; Cass. 17/10/1989 n. 4152; Cass. 24/05/1982 n. 3158; Cass. 08/04/1988 n. 2781). Ciò posto il riconoscimento del diritto di riscatto agrario avrebbe dovuto essere accordato essendo l’elusione dell’esercizio del diritto di riscatto avvenuta in modo fraudolento.

Le modalità ed i tempi dei frazionamenti, le successive alienazioni, nonchè l’utilizzazione unitaria di tutto il podere da parte di Bo.Gi., proseguita dopo le varie compravendite, documentati e descritti nell’atto di citazione e nell’espletata C.T.U., e risultanti dalla stessa sentenza impugnata dimostrano chiaramente l’intento fraudolento dei venditori, volto a defraudare la confinante dal suo diritto d’acquisto preferenziale, costituendo ad arte una cortina divisoria rappresentata dai mapp. 2679, 2688 e 61, di separazione con il mapp. 510, di proprietà della R..

Come si legge alle pagg. 9 e ss. della CTU 71 IDI 1999 del dott. T., "per quanto attiene ai terreni (attuali mappali 2679, 2685, 2686, 2682 FG. 41), si è rilevato durante i sopralluoghi che le nuove proprietà non presentano divisione risultando nel loro insieme fisicamente un complesso unitario, tutte sono coltivate ad un’unica coltura.

I terreni, con riferimento alle domande di compensazione al reddito dei seminativi prestate all’A.LM.A., sono condotti da un unico imprenditore agricolo ( Bo.da.) anche successivamente ai frazionamenti. La non divisione della proprietà ex C. favorirebbe l’attività di coltivazione, abbassandone i costi; si eviterebbe, inoltre, il gravame di servitù di passaggio sui fondi derivati e la creazione di appezzamenti di minor appetibilità da parte del mercato (o perchè di modestissima dimensione, perchè senza accesso diretto sulla pubblica via, o per la forma irregolare).

Ad esempio il frazionamento dell’originale mapp. 1662 Foglio 41 non segue linee con nessun riferimento particolare allo stato dei luoghi.

Il mapp. 2679, derivato dal precedente, determina un bene di difficoltosa individuazione e scarsa appetibilità sul mercato perchè appezzamento di forma irregolare stretta pur se di superficie non trascurabile (ha 1.07.22).

Ci sarebbero state modalità di frazionamento sicuramente più razionali e tali da minimizzare gli aspetti negativi della divisione.

Sono stati creati tre corpi con superficie rispettivamente di ha 1.07.22 (mapp. 2679), ha 0.72.05 (mapp. 2685), ha 0.20.35 (mapp. 2682 e 2686). Per le sue dimensioni quest’ultimo appezzamento ha scarso significato economico e colturale". Nello specifico, il mappale 2679, è costituito da una striscia di terreno molto lunga e stretta, a forma di "L", larga solo 10 metri (come si evince dalle "mappe indicanti le suddivisioni avvenute" allegate alla CTU 7/10/1999). Il che è del tutto irrazionale sotto il profilo della coltivazione;

basti pensare che se venisse coltivato ad orzo, granoturco o frumento, una mietitrebbia non riuscirebbe nemmeno a girarsi alla fine del campo. Alla luce della giurisprudenza sviluppatasi in materia di frode del diritto di prelazione agraria, e del principio informatore della materia sancito dall’art. 42 Cost., non v’è chi non veda come tutti gli elementi indicati dalla Corte d’Appello a sostegno dell’asserita insussistenza del diritto di riscatto, appaiono assolutamente irrilevanti ed inidonei, Sicuramente inidonea ed irrilevante era la circostanza, pacifica agli atti, della realità del frazionamento del fondi e della loro successiva alienazione a soggetti tra loro diversi. Inidonea è la "concreta coltivazione" (pag. 9 sentenza n. 135712009), peraltro del solo (come riconosciuto dalla stessa Corte) B. su tutti i fondi per cui è causa (che sono stati peraltro alienati a soggetti diversi). Trattasi infatti di mera presenza, non idonea a legittimare l’esercizio del diritto di prelazione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8, per le ragioni che esposte in seguito nel prosieguo. Altrettanto irrilevante ed inidonea è la circostanza che i fondi non sarebbero stati interclusi. L’irrazionalità del frazionamento deriva infatti dalla non necessità di privare i mappali n. 2685 e 2679 di accesso diretto alla pubblica via. infatti, non vi è dubbio che scelta ottimale sarebbe stata quella di non frazionare l’ex mappale 2262 in due mappali, entrambi privi di accesso, andando così a gravare, con ogni conseguente pregiudizio, anche sotto il profilo economico, i mappali 2683, 2684, 2677 e 2678, 2685 di servitù non necessaria La motivazione è assolutamente insufficiente laddove, a pag. 9, sostiene che mancherebbe "un qualsiasi riscontro di siffatta irragionevolezza sotto il profilo del valore dell’originario fondo unitario e della somma dei valori dei fondi frazionati in relazione alle possibilità coeve e future di utilizzo". Il CTU ha osservato chiaramente come i fondi risultanti dai frazionamenti derivassero da "un complesso unitario", la cui "non divisione … favorirebbe l’attività di coltivazione, abbassando i costi; si eviterebbe, inoltre, il gravame di servitù di passaggio … e la creazione di appezzamenti di minor appetibilità da parte del mercato (o perchè di modestissima dimensione, perchè senza accesso diretto sulla pubblica via, o per la forma irregolare)". Sarebbe dato di comune esperienza il fatto che un unitario fondo agricolo di ampie dimensioni risulti più appetibile nel mercato, e quindi di valore economico superiore, rispetto a tanti appezzamenti di piccole dimensioni, ancorchè complessivamente di pari superficie. Nella CTU del dott. T. è stato pertanto chiaramente evidenziato sia il deprezzamento subito dai fondi a seguito del frazionamento, sia la minore sfruttabilità degli stessi. Evidente l’errore in cui è incorso il Giudice d’Appello, che, esaminando erroneamente la questione alla luce dei principi di cui all’art. 41 Cost., e quindi sotto la logica e l’interesse del proprietario venditore, ha valutato se vi fosse o meno una qualche possibilità di utilizzo futuro degli appezzamenti. AI contrario, la Corte avrebbe dovuto valutare le risultanze processuali alla luce dei principi di cui all’art. 42 cosi, allo scopo di vedere se fosse o meno stata violata la norma imperativa di cui alla L. n. 817 del 1971, art. 7. Attesa l’inidoneità di tutti gli elementi succitati al fine di giustificare la reiezione della domanda, sarebbe evidente l’insufficienza della motivazione del Giudice d’Appello, laddove ha concluso per l’insussistenza del diritto di riscatto.

4.3. Insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. La Corte d’Appello, nell’escludere che le vendite impugnate siano state poste in essere in frode al diritto di riscatto della sig.ra R., ha dato rilievo ad elementi a ciò inidonei, come evidenziato nel precedente motivo di appello, trascurando altresì alcuni rilevanti aspetti, sicchè la motivazione sarebbe anche perciò insufficiente.

Le modalità ed i tempi dei frazionamenti, le successive alienazioni, nonchè l’utilizzazione unitaria di tutto il podere da parte di Bo.Gi., proseguita dopo le varie compravendite, dimostrano chiaramente l’intento fraudolento dei venditori, volto a defraudare la confinante dal suo diritto d’acquisto preferenziale, costituendo ad arte una cortina divisoria rappresentata dai mapp. 2679, 2688 e 61, di separazione con il mapp. 510, di proprietà della R.. Come sottolineato nel precedente motivo di impugnazione, la costituzione del mappale 2679, costituito da una striscia di terreno molto lunga e stretta, a forma di "L", larga solo 10 metri, risulta assolutamente irrazionale sotto il profilo dello sfruttamento agricolo. All’epoca dell’accertamento del CTU dott. T., tutto il fondo "(OMISSIS)" veniva coltivato dal solo Bo.Gi., ancorchè le compravendite contestate fossero state fatte a vari soggetti appartenenti alla sua famiglia. Ciò ad ulteriore conferma dell’intento fraudolento perseguito dalle controparti: le vendite a diversi soggetti andavano infatti a celare l’attribuzione unitaria dei fondo al predetto. D’altra parte, sarebbe stato evidente che i mapp. n. 2679, 2688 e 61 avrebbero potuto costituire un diaframma rispetto alla proprietà R. creata per impedire alla stessa di esercitare il proprio diritto di prelazione sugli altri fondi ex (OMISSIS). Le parti contrattuali erano infatti ben consapevoli che l’esercizio del diritto di riscatto da parte della R. sarebbe stato ostacolato, quanto al mapp. 2679, dall’enunciazione, fermamente contestata di un rapporto agrario in essere con l’acquirente Bo.Gi. e, quanto ai mapp. 2688 e 61, dal trasferimento al Catasto Fabbricati dell’area di pertinenza degli immobili che vi insistono. Correttamente il Tribunale di Treviso aveva rilevato come là frode al diritto di riscatto si evinca da molteplici circostanze, statuendo che: "si può concludere che lo stesso – NDR: il proprietario venditore dei terreni oggetto di riscatto – ha frazionato il compendio in modo irrazionale rispetto alle esigenze della coltivazione con il verosimile scopo di costituire la fascia di separazione rappresentata dal mappale n. 2679 e con l’intenzione successivamente di alienarla alla stessa famiglia B. che manteneva un concreto interesse all’acquisto". Infatti, primo indice evidente dell’intento fraudolento è dato dalla "circostanza che tutte le porzioni agricole siano state acquisite dai B." e dal "fatto che il mappale 2679 sia stato alienato per ultimo con un frazionamento che non risponde all’interesse del venditore al mantenimento della sua proprietà". In secondo luogo, la privazione dei mappali n. 2679 e 2685 di accessi diretti conferma ulteriormente la volontà delle parti contrattuali di eludere il diritto di riscatto. A tale ultimo riguardo, la Corte d’Appello si è limitata a ritenere smentita la suddetta interclusione sulla base di quanto indicato negli atti d’acquisto, senza però chiarire su quali elementi si fondi detta deduzione. Ciò posto, al fine di ipotizzare le ragioni su cui si fonda detta considerazione, potrebbe supporsi che la Corte d’Appello si sia riferita alle servitù di passaggio costituite contestualmente alle compravendite. Tuttavia, il rilievo dato a tale servitù non vale, in profilo logico, ad escludere la frode. A tal riguardo ha invece rilievo la irrazionalità del frazionamento rilevata dal CTU (al passo sopra trascritto), e trascurata con motivazione insufficiente dalla Corte d’Appello.

Infatti, a prescindere dalla costituzione o meno delle asserite servitù, occorre osservare che l’irrazionalità del frazionamento deriva dalla non necessità di privare i mappali nn. 2685 e 2679 accesso diretto. Come pure osserva il CTU, nel passo sopra citato, "ci sarebbero state modalità di frazionamento sicuramente più razionali e tali da minimizzare gli aspetti negativi della divisione" (CTU, pag. 10). Il riferimento del CTU è alla ben più ragionevole scelta di non frazionare l’ex mappale 2262 (si veda doc. 2 allegato all’atto di citazione 0511211996) in due mappali, entrambi interclusi, a favore di uno dei quali, il mappale 2679, sono state costituite ben due servitù di passaggio; l’una a carico dei mappali 2683, 2684, 2677 e 2678, l’altra a carico del mappale 2685, oltretutto collegato alla via pubblica attraverso un’altra servitù di passaggio a carico dei mappali 2684, 2677 e 2678. Il perseguimento di uno scopo fraudolento viene, normalmente, accertato mediante il ricorso alla prova per presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c. Se da un lato è vero, come sostiene la Corte d’Appello, che la mera alienazione di terreni a soggetti tra loro parenti non dimostri, in sè e per sè considerata, la finalità fraudolenta delle alienazioni medesime, è altrettanto vero che tale circostanza avrebbe dovuto essere valorizzata allorchè si accompagni, come nel caso che ci occupa, agli ulteriori indizi gravi, precisi e concordanti sopra ricordati. Invero, in ordine a tali elementi la Corte d’Appello non si è espressa, limitandosi a dichiarare legittima, anche ai sensi dell’art. 41 Cost., l’alienazione frazionata di un fondo unitario. Ne conseguirebbe la sussistenza del vizio censurato. Nel caso che ci occupa, come rilevato dal Tribunale di Treviso, sussisterebbero elementi gravi precisi e concordanti, dai quali emerge la frode al diritto di riscatto posta in essere dalle controparti, e precisamente: la realizzazione di un irrazionale e sconveniente frazionamento, sotto il profilo dello sfruttamento agricolo, dell’unitario fondo " C.", coltivato, anche al tempo della CTU, dal solo Bo.Gi.; l’alienazione dei fondi risultanti dal predetto frazionamento mediante alienazioni ai familiari del sig. B., che peraltro non coltivavano il fondo predetto; la realizzazione, sconveniente e comunque assolutamente non necessaria, di nuovi fondi interclusi, con conseguente necessità di costituire delle apposite servitù di passaggio; l’enunciazione di un rapporto agrario con il Bo.Gi., oltre che con il B. G., che in realtà appare assolutamente pretestuoso ed insussistente (per le ragioni meglio evidenziate nel successivo motivo di impugnazione). E’ del tutto insufficiente la motivazione con cui la Corte d’Appello ha svalutato gli indicati indizi, gravi, precisi e concordanti. D’altra parte, la conclusione secondo la quale nel caso di specie è volutamente elusa l’applicabilità della Legge 14/08/1971 n. 817 non può essere disattesa neppure alla luce della sentenza della Suprema Corte 09/04/2003, n. 5573 citata da controparte nell’atto di citazione d’appello 1110312004, che non risulta pertinente in relazione al caso concreto. Infatti, la sentenza di cui sopra riconosce il diritto di prelazione nell’ipotesi in cui siano stati creati artificiosi diaframmi al fine di eliminare il requisito della contiguità, dei quali la parte alienante abbia mantenuto la proprietà. Tuttavia, la predetta sentenza condiziona l’esercizio del diritto alla circostanza secondo la quale la porzione di fondo a confine, rimasta di proprietà dell’alienante, sia destinata a rimanere sterile e incolta o sia, comunque, inidonea a qualsiasi sfruttamento. Nella fattispecie concreta i C. non si sono riservati la proprietà della "fascia" di confine. Ciò in quanto tale riserva non serviva allo scopo, avendo le parti simulato un contratto d’affitto sul mapp. 2679 in essere tra i C. e l’acquirente Bo.Gi.. L’esistenza di un contratto d’affitto avrebbe comunque precluso il riscatto, indipendentemente dall’estensione ed utilizzabilità del fondo oggetto del contratto.

Ma detto contratto di affitto non sussisteva, come peraltro riconosciuto dal Tribunale di Treviso, per le ragioni già esposte nei precedenti motivi di impugnazione. Ne consegue che ulteriori indici dell’intento fraudolento delle parti contrattuali sono dati dalla simulazione del contratto d’affitto sul mapp. 2679 e dall’enunciazione, nel contratto del 19/03/1996, secondo cui anche il B.G. avrebbe acquistato il terreno di cui al mapp. 2678 esercitando il diritto di prelazione ai sensi della L. n. 590 del 1965, art. 8, mentre il CTU ha confermato che tutti i terreni per cui è causa venivano coltivati dal solo Bo.Gi.. Di qui l’insufficiente motivazione in ordine ad un fatto decisivo per il giudizio.

4.4. Nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 2733 c.c. e art. 116 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza va censurata anche relativamente ai capo in cui è stato riconosciuta la legittimità, da parte di Bo.Gi., dell’esercizio del diritto di prelazione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8. Non sussisteva infatti tra i C. ed il predetto un valido contratto d’affitto agrario, così come richiesto dall’indicata norma. Il B., in sede di interpello in primo grado aveva dichiarato: "lo e mio padre … il fondo C. prima della compravendita, lo coltivavamo già da circa tre anni… avevamo un accordo verbale con i C. .. in base al quale noi tenevamo in ordine l’appezzamento coltivato e la casa sovrastante ed in cambio potevamo tenere i frutti derivanti dalla coltivazione … non pagavamo canoni d’affitto in denaro. La Corte d’Appello ha ritenuto provata la concreta coltivazione del fondo da parte del predetto, siccome confermata dalle dichiarazioni dei testi C.G., G.R., P.G., B.P. e B.R., nonchè dalle richieste di contributi presentate dal Bo.Gi. all’AlMA a partire dal 1993. Ma la coltivazione in sè è attività neutra, logicamente inidonea a comprovare, di per sè, la qualità di affittuario, potendo essere effettuata in molteplici qualità (ad esempio, di promissario acquirente immesso nei possesso). Ha infine ritenuto "non priva di significato la precisazione fatta dalle parti, in proposito, negli atti di compravendita in oggetto". Invero, sebbene la Corte non lo indichi espressamente, deve ritenersi che il riferimento sia al contratto 1010411996, rep. N. 64025 – 12565 (allegato sub doc. 8 all’atto di citazione 511211996, con cui è stato alienato l’ultimo appezzamento rimasto, mapp. n. 2679), in cui si legge: "le parti precisano che il signor BO.GI. è l’attuale affittuario dell’appezzamento di terreno oggetto del presenta atto e, pertanto, con presente atto esercita il diritto di prelazione a lui spettante, ai sensi della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, in base al contratto di affitto stipulato fin dal febbraio 1993"). Tuttavia, gli elementi probatori indicati dalla Corte – peraltro irrilevanti per le ragioni che si esporranno nei successivi paragrafi – sono privati di, ogni valenza dalla dichiarazione confessoria del B., di cui pure la corte d’Appello da atto, senza peraltro attribuirle l’effetto legale. Sicchè la Corte avrebbe dovuto limitarsi a dare atto del valore di prova legale della confessione resa dal sig. B. ed escludere così la legittimità dell’esercizio del diritto di prelazione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8. Infatti, a differenza delle dichiarazioni contenute negli atti di compravendita, ai sensi dell’art. 2733 c.c., comma 2 la confessione giudiziale forma piena prova contro colui che l’ha fatta. In considerazione del dettato e dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 2700, circa l’efficacia dell’atto pubblico, posto che le vendite impugnate non provano affatto la veridicità delle dichiarazioni rese dalle parti, non vi è chi non veda come tali dichiarazioni vengano totalmente screditate dalla confessione giudiziale del Bo.

G.. La Corte d’Appello avrebbe dovuto, pertanto, limitarsi a prendere atto del contenuto e del valore di prova legale della dichiarazione, la quale prevaleva su qualsivoglia altro indizio o elemento, testimoniale o documentale, ed escludere la sussistenza di ogni contratto di affitto agrario, e, conseguentemente, la legittimità dell’esercizio del diritto di prelazione Nel caso di specie, pertanto, la Corte d’Appello di Venezia, non attribuendo valore legale alla dichiarazione confessoria del sig. B., ha violato l’art. 116 c.p.c., comma 2 e art. 2733 c.c..

4.V. Violazione o falsa applicazione dell’art. 2733 c.c. e art. 116 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In subordine, le ragioni esposte nel precedente motivo vengono riproposte con questo mezzo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (Cass. n. 20112/2009). Il Giudice d’Appello avrebbe dovuto attribuire valore preminente alla dichiarazione confessoria del B., e negare la sussistenza di qualsivoglia contratto di affitto tra i C. ed il predetto. Qualora Codesta Suprema Corte non ritenesse che la descritta violazione integri un error In procedendo, si renderebbe in ogni caso doveroso cassare la sentenza impugnata, siccome emessa in chiara violazione dell’art. 2733 c.c. e art. 116 c.p.c., comma 2, per tutte le ragioni sopra esposte.

4.6. Violazione o falsa applicazione degli artt. 1803, 1804 e 2697 c.c., L. n. 590 del 1965, art. 8 e L. n. 817 del 1971, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La concreta coltivazione dei fondi, di per sè, non può ritenersi giuridicamente sufficiente a legittimare l’esercizio del diritto di prelazione L. n. 590 del 1965, ex art. 8, essendo anche necessaria la sussistenza di un valido contratto agrario tra le parti. Circostanza che non sussisterebbe nella specie. Fermo il valore di prova legale della dichiarazione confessoria di cui al precedente motivo, il ricorrente sottolinea che, nel corso del giudizio di merito, controparte non ha offerto qualsivoglia prova del rispettivo insediamento, in forza di contratto agrario, sui fondi, non esistendo invero nessun contratto d’affitto, valido ed opponibile, ma neppure, per stessa ammissione del B., un rapporto di fatto che comunque potesse costituire ostacolo al sorgere del diritto di prelazione della R.. Non può pertanto condividersi, perchè in chiaro contrasto con la ratio ed il tenore di cui agli artt. 2733, 1803 e 1804 c.c., L. n. 590 del 1996, art. 8 e L. n. 817 del 1971, art. 7 la statuizione della Corte d’Appello secondo cui il B. avrebbe legittimamente esercitato il diritto di prelazione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8, in quanto: "… la concreta coltivazione dell’intero fondo da parte di danni B. dal 1993 ha trovato indubbia conferma nelle concordi, circostanziate dichiarazioni rese dai testi C.G., G.R., P.G., B.P. e B.R. … la circostanza che il corrispettivo dell’affittanza, secondo la dichiarazione di Bo.Gi. nel corso dell’interrogatorio formale, avesse ad oggetto non una prestazione di denaro, bensì l’obbligo di tenere in ordine i terreni e i rustici non esclude la natura commutativa del contratto se solo si considera che l’obbligo a carico dell’affittuario è certamente più ampio dell’onere insito nello sfruttamento di terreni e rustici e riflette l’interesse dei proprietari di salvaguardare il valore e l’appetibilità sul mercato di terreni e rustici, non solo sfruttati, bensì anche tenuti in ordine". La concreta coltivazione dei fondi, di per sè, non può ritenersi giuridicamente sufficiente a legittimare l’esercizio del diritto di prefazione L. n. 590 del 1965, ex art. 8, rendendosi a tal fine necessaria l’esistenza di un valido contratto agrario. Il Bo.Gi., pertanto, non era assolutamente legittimato ad acquistare il fondo di cui al mapp. n. 2679, in forza dell’asserito diritto di prelazione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8, essendovi di ostacolo non la mera presenza fisica e di fatto di coltivatori diretti del fondo, ma solo quella giuridicamente rilevante perchè legittimata da un regolare contratto agrario (Cass. 20/01/2006 n. 1112). Nella specie, non solo controparte non avrebbe assolutamente offerto la prova dell’esistenza di un valido rapporto agrario, ma dalla dichiarazione confessoria del Bo.Gi., richiamata dalla stessa sentenza della Corte d’Appello, è emerso che la presenza dello stesso sul fondo non sarebbe in alcun modo riconducibile ad un rapporto di affìtto agrario. A ragione, quindi, il Tribunale aveva escluso, nella fattispecie, la sussistenza di qualsivoglia contratto agrario commutativo a favore dei Bo.

G. e G. ed avente ad oggetto il fondo ex C.. Le dichiarazioni rese in sede di interpello all’udienza del 22/12/98 avanti il Tribunale da Bo.Gi., richiamata nella sentenza della Corte d’Appello, tutt’al più avrebbero potuto indurre a sussumere la fattispecie de qua nella seconda ipotesi contrattuale analizzata dalla sopraccitata sentenza n. 562/2005 di questa Corte.

Il B. ha infatti ammesso che, in cambio della possibilità di tenere per sè i frutti, egli si occupava di "tenere in ordine il terreno coltivato e la casa". Una tale attività corrisponde esattamente alle attività ed agli oneri imposti ai comodatario dall’art. 1804 c.c.. Ed in tali ipotesi, dottrina e giurisprudenza individuano: un comodato modale, essendo associato al godimento gratuito dei beni immobili l’obbligo a carico del concessionario di eseguire una prestazione modale a favore del comodante. La mancanza di un corrispettivo e della determinazione di durata erano elementi sufficienti per escludere che nel caso concreto ricorresse un contratto di affitto .., trattasi, invero, di due tipi negoziali del tutto non assimilabili sotto il profilo della causa, in quanto, in virtù del primo il comodatario svolge attività che rientrano nella custodia e gestione dei fondi stessi e certamente non volte alla costituzione di un’impresa agricola In virtù di quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, non sarebbero condivisibili le considerazioni della Corte d’Appello, che:a. ha ritenuto la natura commutativa del rapporto, sulla base di un elemento "il tenere in ordine" che non ha natura sinallagmatica (Cass. 10684/2003); b. ha valorizzato l’avvenuta maggior ampiezza dell’"obbligo" di tenere in ordine il fondo a fronte dell’"onere" insito nello sfruttamento del terreno, senza avvedersi che non avendo il primo natura sinallagmatica, perdeva rilievo ogni asserita maggior "ampiezza" del predetto obbligo; c. ha valorizzato l’interesse dei proprietari a "tenere in ordine" il fondo, senza avvedersi che si tratta invece di fattore neutro: "la presenza di un interesse del comodante non contrasta con lo schema causale del comodato rivestendo un valore neutro ai fini della qualificazione del rapporto (Cass. 6350/1990).

4.7. Insufficienza della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio Come già rilevato nel precedente motivo di impugnazione, la Corte d’Appello di Venezia ha dichiarato che "la concreta coltivazione dell’intero fondo da parte di Bo.Gi. dal 1993 ha trovato indubbia conferma nelle concordi, circostanziate dichiarazioni rese dai testi C.G., G.R., R.G., B.P. e B.R.".

Posto che a legittimare l’esercizio dei diritto di prelazione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8 non è qualsivoglia insediamento sul fondo agricolo, ma solo un insediamento determinato in ragione di un valido contratto agrario, è evidente che con motivazione insufficiente la Corte abbia ritenuto idoneo il presupposto della mera attività materiale di "coltivazione" – in sè neutra e non riconducibile ad un contratto agrario – accompagnata dall’obbligo di "tenere in ordine" il terreno, in sè pure neutro e compatibile con il comodato modale, idoneo ad attribuire carattere sinallagmatico al rapporto. Invece, i testi escussi avrebbero semplicemente confermato la presenza del B. sui fondi per cui è causa, circostanza che non avrebbe potuto legittimare la prelazione. Insufficiente sarebbe poi la motivazione, laddove assume che l’obbligo di tenere in ordine i terreni sarebbe più ampio dell’onere insito nello sfruttamento dei terreni medesimi, valorizzando un elemento (l’interesse dei proprietari a che il fondo sia tenuto in ordine), neutro ai fini della sinallagmaticità e che, non contrastando con lo schema del contratto modale, non depone affatto, in profilo logico, per la sussistenza di un contratto agrario. Insufficiente sarebbe altresì la motivazione della sentenza della Corte laddove valorizza le "prescrizioni contenute negli atti di compravendita in cui il B. si è qualificato coltivatore diretto, non potendo attribuirsi alcun rilievo alla dichiarazione stragiudiziale che una parte effettua a favore di sè medesima. Insufficiente è il rilievo al carattere "reale" del frazionamento dei terreni: non si discute infatti del carattere "reale" del frazionamento catastale dei terreni, o dell’effettuazione delle vendite separate delle varie porzioni, si discute della sussistenza di una frode nei confronti del proprietario confinante coltivatore diretto, attuata proprio a mezzo del frazionamento e della seguente vendita a soggetti appartenenti alla stessa famiglia, allo scopo di celare l’attribuzione dei terreni ad un unico soggetto (il Bo.Gi.), che non era titolare del diritto di prelazione. Infine insufficiente sarebbe il rilievo alla mera presenza sul fondo del solo Bo.Gi., che, semmai, deponeva per la frode (non essendo presenti sul fondo, come risulta dalla sentenza, gli altri acquirenti M.P., G.G., Bo.Gr. e B.G.).

4.V111. Insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio La Corte d’Appello, rigettando l’appello incidentale proposto dalla R., avrebbe erroneamente escluso la possibilità di sottoporre a riscatto la porzione di fondo costituita dai mappali n. 61 e 2688, sostenendo che la stessa sarebbe stata sottratta da tempo alla destinazione agricola ed avrebbe costituito parte autonoma rispetto al resto del compendio. Anche tale mutamento di destinazione del fondo sarebbe, secondo la ricorrente, espressione della finalità delle controparti di eludere il diritto di prelazione per i seguenti motivi: a. le considerazioni del C.T.U.., per quanto attiene l’unitarietà funzionale tra fabbricato e terreni, non tengono conto di una serie di variabili e caratteristiche delle coltivazioni, ampiamente illustrate nelle memorie del C.T.P. attoreo, ove si rilevava che "…La superficie del fondo, oggetto di causa, … richiedeva la disponibilità di fabbricato con locali diversi e funzionalmente collegati con la pratica della coltivazione del fondo stesso, coltivazione che annualmente poteva e doveva mutare in funzione appunto della più corretta gestione pedo-agronomica dei terreni. Peraltro, il fondo stesso dei Signori C. era stato sempre unito ed unico fino alla fine del 1995-1996 allorchè con il frazionamento svolto dai mappali originali n. 61-1662-1663 del 1995 e 1996 e le vendite conseguenti registrate con rogiti del Notaio Mammuccari di Mogliano tra l’aprile e l’ottobre 1996 la proprietà era stata trasferita ai vari Signori B. ( Gi., G., Gr.), M.P. e G.G….". A nulla rilevava dunque che i mapp. n. 2688 e 61, e relativi subalterni, fossero stati successivamente censiti nel NCEU, censimento peraltro preordinato, per tutte le ragioni già evidenziate in seno ai paragrafi 111 e IV, ad ostacolare fraudolentemente l’esercizio del diritto di riscatto della R., creando una "cortina" (mapp. n. 2679, 2688 e 61) di separazione con il fondo di proprietà della stessa (mapp. 510). Invero, il diritto di prelazione in capo alla R. sussisteva, prima dei frazionamenti e delle vendite, non solo per le porzioni immediatamente attigue al mapp. 510 di cui è proprietaria, ma anche per le ulteriori particelle dell’originario fondo "(OMISSIS)", costituenti un complesso unitariamente integrato dal punto di vista strutturale e produttivo. E’ evidente il vizio di motivazione della sentenza per insufficienza della stessa. La Corte d’Appello dopo aver dato atto, a pag. 10 dell’impugnata sentenza, delle molteplici caratteristiche che depongono per l’unitarietà funzionale del fondo, "ampiamente illustrate nella memoria del CTP dr. V." (pag.

10), esclude il diritto di prelazione della R. sulla base di considerazioni che non attengono alle caratteristiche oggettive del fondo (evidenziate appunto dal dott. V.) e rigetta infatti l’appello incidentale evidenziando che i mapp. 2688 e 61 sarebbero stati locati a terzi non coltivatori, nonchè censiti al catasto urbano. Tali circostanze (la stipula di un contratto di locazione e la modifica dell’accatastamento), siano il frutto di scelte meramente soggettive dei proprietari e non incidano in alcun modo sulle caratteristiche oggettive dei fondi di cui si discute. Ed è a tali caratteristiche oggettive che avrebbe dovuto aversi logicamente riguardo al fine di verificare se sussistessero i presupposti per l’esercizio del riscatto. La motivazione sarebbe pertanto insufficiente laddove, dopo aver dato atto dell’unitarietà funzionale del fondo, e quindi della sussistenza degli elementi oggettivi rilevanti ai fini dell’esercizio dei diritto di prelazione, ha escluso il diritto medesimo sulla base di considerazioni attinenti alle scelte meramente soggettive dei venditori. Il censimento al Catasto Urbano sarebbe, in realtà, ulteriore indizio dell’intento fraudolento di privare la R. della possibilità di esercitare il diritto di riscatto, al parti dell’enunciazione, nel contratto del 19/03/1996 secondo cui il B.G. avrebbe acquistato il terreno di cui al mapp. 2678 esercitando il diritto di prelazione ai sensi della L. n. 590 del 1965, art. 8 dichiarazione che sarebbe stata smentita dall’esperita CTU. 5. Il ricorso si rivela privo di pregio.

5.1. In particolare, il primo ed il secondo motivo non possono trovare accoglimento, alla luce delle considerazioni che seguono.

5.2. In primo luogo, si rivela inammissibile la denunziata "violazione o falsa applicazione di legge" e, in particolare, della L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7, comma 2, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 41 e 42 Cost. e art. 2729 c.c.. Conformemente ad una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice deve ribadirsi che, quando nel ricorso per cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile, poichè non consente alla Corte di cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass. 29 novembre 2005, n. 26048; Cass. 8 novembre 2005, n. 21659; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20145; Cass. 2 agosto 2005, n. 16132). In altri termini, il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di cassazione). Dato che nella specie non solo non è indicata quale sia la lettura, data dai giudici a quibus alla L. n. 817 del 1971, art. 7, comma 2, in contrasto con gli insegnamenti dottrinari e giurisprudenziali, ma non è neppure indicata quale sia la corretta "lettura" di tale legge, è evidente l’inammissibilità della censura. In pratica, il ricorrente, nel dissentire dalla conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata – là ove non ha accolto la domanda di riscatto di tutte le porzioni di terreno in lite – non prospetta contrariamente a quanto del tutto apoditticamente si afferma nella intestazione del motivo una "violazione o falsa applicazione di legge" ma l’allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, ed è palese che un tale vizio, della sentenza impugnata, seppure per ipotesi esistente, è estraneo, e diverso, rispetto all’esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, esclusivamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

5.1.1. Senza contare che la censura si rivela, comunque, infondata.

Invero, con una molteplicità di decisioni (Cass. 27.7.1990 n. 7579;

Cass. 12.10.1982 n. 5270 e Cass. 24.5.1982 n. 3158) questa Corte ha affermato che "il nostro legislatore non ha sancito la nullità dei contratti di acquisto dei fondi rustici stipulati in violazione delle norme sulla prelazione agraria, ma ha soltanto disposto, con la L. n. 590 del 1965, art. 8, comma 5 (istitutiva della prelazione) che il titolare del diritto può esercitare l’azione di retratto sul fondo dell’acquirente e di ogni altro successivo avente causa entro un anno dalla trascrizione del contratto presso l’ufficio dei registri immobiliari: con la conseguenza, che si ricava anche dal 1 comma dell’art. 1418 c.c. ("il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente") che i contratti stipulati in violazione delle norme sulla prelazione sono, in linea di principio, perfettamente validi: e tali restano, se non viene esercitato il diritto di riscatto nel termine di decadenza di un anno, imposto dal principio che regola la certezza dei diritti". 5.2. La censura in esame, comunque, deve essere dichiarato inammissibile anche sotto il diverso profilo della "insufficiente motivazione" circa un punto decisivo per il giudizio, espressamente dedotto con il secondo motivo, sempre con riferimento alla funzione della normativa sul retratto agrario. Invero, oltre ad osservare che non è dato cogliere quale incidenza possa svolgere nel meccanismo previsto dalla legge istitutiva della prelazione per l’esercizio dell’azione di retratto il fatto che tra le parti sarebbero stati posti in essere dei negozi simulati – va altresì precisato che costituisce ius receptum (Cass. 29.09.1999 n. 10761 Cass. 7.8.1995 n. 8656; Cass. 11.11.1988 n. 6089 e Cass. 1.8.1987 n. 6668) che in tutte le ipotesi di violazione dello ius prelationis (comprese quelle fraudolente e/o anche quando l’esercizio del diritto di prelazione sia avvenuto – e ciò nella specie non può affermarsi – attraverso un procedimento negoziale simulatorio) l’unico rimedio apprestato dalla L. n. 590 del 1965, art. 8 in favore del soggetto pretermesso è costituito dall’esercizio dell’azione di riscatto. In sostanza, il ricorrente si limita ad insistere sulla necessità di un accertamento "di fatto" – esistenza di un accordo simulatorio – che non può essere chiaramente svolto in questa sede. E va ancora precisato che l’errore di fatto e l’erronea valutazione delle risultanze processuali possono essere dedotti in sede di legittimità soltanto in quanto si risolvano in omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabili d’ufficio, non quando si traducano nella generica affermazione che il giudice di merito ha sbagliato nell’apprezzare un fatto o nel valutare le risultanze istruttorie, senza che venga allegato un vizio del ragionamento che sia tale da non consentire il controllo dell’iter logico seguito per pervenire alla decisione. Nella specie il "vizio di ragionamento", che consisterebbe in insufficienza della motivazione, nel quale sarebbe incorso il giudice d’appello non risulta idoneamente indicato ed a ben vedere il ricorrente si limita a prospettare una propria valutazione dei fatti di causa da contrapporre a quella – che risulta per altro assistita da motivazione adeguata, coerente ed immune da vizi logici e/o giuridici – operata dalla Corte territoriale.

5.3. Anche il terzo e l’ottavo motivo, concernenti vizi motivazionali, non meritano di essere accolti. Al riguardo, si osserva – contrariamente a quanto suppone la difesa della ricorrente e alla luce di quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, che in questa sede non può che ulteriormente ribadirsi – che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione. Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (Cass. 21 aprile 2006, n. 9368; Cass. 20 aprile 2006, n. 9234; Cass., 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass., 20 ottobre 2005, n. 20322). Poichè nella specie si censurano, in buona sostanza, apprezzamenti di merito, compiuti dai giudici del merito, allorchè hanno escluso che sussistessero, in linea di fatto, le condizioni per ritenere che nella specie gli alienanti, cedendo ai resistenti porzioni separate dalla loro proprietà, abbiano posto in essere un espediente per aggirare l’obbligo di offrire al coltivatore diretto confinante di acquistare il fondo, alle stesse condizioni, è evidente la inammissibilità della deduzione. Specie ove si consideri che, non solo non vengano in alcun modo evidenziati "vizi" della motivazione, rilevanti sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma tenuto presente che tutte le censure si risolvono in una semplice opposizione, alla lettura dei fatti di causa come compiuta dalla sentenza impugnata, di una diversa lettura di quegli stessi fatti, favorevole agli assunti della parte ricorrente.

5.3.1. Inoltre, non può che ribadirsi, in conformità a costante giurisprudenza di questa Corte regolatrice, che, qualora in sede di vendita di fondo rustico l’alienante si riservi (o ceda a terzi) la proprietà di una striscia di terreno tale da interrompere la contiguità e continuità fisica tra i due fondi ne deriva una condizione obiettiva di non confinanza sufficiente ad escludere il diritto di prelazione, a meno che la riserva sia stata fatta senza nessuna utilità economica, all’unico scopo di vanificare, sopprimendo il requisito della confinanza, il diritto di prelazione del confinante. L’accertamento della sussistenza di apprezzabili ragioni giustificative della suddetta riserva, in relazione alle esigenze di coltivazione del fondo, rientra – peraltro – nei compiti istituzionali del giudice di merito e non è censurabile se adeguatamente motivato (Cass. 13 dicembre 2010 n. 25135; 10 marzo 2008 n. 6286, in motivazione; 13 agosto 1997, n. 7553). Pacifico quanto precede, non controverso che i giudici del merito hanno più che congruamente e logicamente motivato le ragioni in forza delle quali la vendita separata delle porzioni del fondo dei C. non costituiva un atto posto in essere all’unico scopo di impedire la prelazione dell’odierna ricorrente, è palese che anche le censure in questione si rivelano del tutto prive di pregio.

5.4. Del resto, la giurisprudenza di questa Corte regolatrice ha ripetutamente enunciato il principio secondo cui, in materia di contratti agrari, il diritto di prelazione in favore del proprietario confinante con quello venduto, di cui alla L. n. 817 del 1971, art. 7, comma 2, sussiste anche nell’ipotesi in cui, in occasione dell’alienazione, siano creati artificiosi diaframmi al fine di eliminare il requisito della confinanza fisica tra i suoli, onde precludere l’esercizio del diritto di prelazione. Avverte, peraltro, la ricordata giurisprudenza che allo scopo non è sufficiente che una porzione di fondo sia stata riservata alla parte alienante – o, come nella specie, ceduta a terzi – esclusivamente al fine di evitare il sorgere del diritto di prelazione o che lo sfruttamento dei fondi, risultanti dalla divisione, sia meno razionale che non la conduzione dell’intero, originario, complesso. E’ indispensabile, infatti, che la porzione costituente la fascia confinaria, per le sue caratteristiche, sia destinata a rimanere sterile e incolta o sia, comunque, inidonea a qualsiasi sfruttamento coltivo autonomo, sì che possa concludersi che la porzione non ceduta è priva di qualsiasi utilità per l’alienante, o per l’eventuale diverso acquirente (Cass. 9 aprile 2003, n. 5573). Poichè nella specie i terreni venduti autonomamente ai vari resistenti non solo non costituiscono dei reliquati di scarso interesse economico (come, nella generalità dei casi avuti presenti dalla giurisprudenza di legittimità richiamata sopra), ma costituiscono fondi che comunque hanno un’autonoma e congrua destinazione è di palmare evidenza l’impossibilità di configurare – anche in tesi – nella separata vendita di alcuni beni a ciascuno dei resistenti un atto posto in essere esclusivamente al fine di paralizzare il diritto alla prelazione dell’odierna ricorrente.

6. Con i motivi dal quarto al settimo la ricorrente denunzia, sotto il rispettivo profilo dell’error in procedendo, della violazione di legge (5^ e 6^ motivo) e del vizio motivazionale, la mancanza di idoneo contratto agrario preesistente con Bo.Gi..

6.1. Anche tutte queste censure non colgono nel segno, risultando formulate in violazione di canone di autosufficienza del ricorso per cassazione. Va, infatti, ribadito che, ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 5 aprile 2004, n. 6656). E’ palese, pertanto, che parte ricorrente non poteva, come ha fatto, censurare la sentenza gravata per non avere valutato la circostanza sopra evidenziata (inesistenza di un valido rapporto agrario tra i cedenti e Bo.Gi.) ma doveva indicare, altresì, in quale occasione, nel corso del giudizio di appello, aveva sollecitato l’esame della specifica questione nel rispetto delle regole del contraddittorio.

6.2. Inoltre, il ricorso per cassazione – in ragione del principio di cosiddetta autosufficienza dello stesso – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere – particolarmente nel caso in cui si tratti di interpretare il contenuto di un determinato rapporto giuridico – a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 13 giugno 2007, n. 13845; Cass. 18 aprile 2007, n. 9245; Cass. 9 gennaio 2006, n. 79, tra le tantissime), il ricorrente per cassazione – pertanto – il quale deduca l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di una decisiva risultanza processuale ha l’onere di indicare in modo adeguato e specifico la risultanza medesima, dato che per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 13 maggio 1999, n. 4754). Pacifico quanto precede, si osserva che nella specie la ricorrente, pur denunziando l’insussistenza di un valido rapporto agrario in relazione a parte del terreno e in considerazione del quale è stata ritenuta efficacemente conclusa la vendita, ha omesso di trascrivere le risultanze di causa da cui deriverebbe la diversa configurazione del rapporto quale semplice comodato modale (nonchè di specificare in forza di quale iter logico argomentativo, la Corte di appello se avesse tenuto presenti tali elementi avrebbe, con certezza, dovuto ritenere fondata la sua domanda di riscatto di tutti i fondi acquistati dai vari resistenti). E’ palese, quindi, alla luce delle considerazioni svolte sopra,anche sotto tale ulteriore profilo, l’inammissibilità dei predetti motivi del ricorso.

7. Risultato infondato in ogni sua parte il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida complessivamente in favore dei resistenti in Euro 3.200=, di cui Euro 3.000,00= per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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