Cass. civ. Sez. I, Sent., 12-03-2012, n. 3915 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.B. chiedeva, con ricorso ex legge n. 89/2001, alla Corte di appello di Salerno l’equa riparazione per il danno conseguente alla non ragionevole durata del procedimento civile da lui iniziato davanti al Tribunale di Vibo Valentia con citazione del 15 febbraio 1986 e deciso con sentenza depositata il 25 settembre 2001.

La Corte di appello di Salerno ha accolto parzialmente la domanda di equa riparazione liquidandola in 2.800 Euro (400 Euro annui per ognuno dei sette anni ritenuti eccedenti la durata ragionevole del processo) e non pronunciando sulla richiesta di liquidazione del danno patrimoniale.

Sul ricorso per cassazione del P. questa Corte, con sentenza del 5 luglio 2007, riteneva inadeguata sia la determinazione in otto anni e mezzo della durata ragionevole, tenendo conto che si trattava di un processo non particolarmente complesso, sia la determinazione dell’indennizzo, su base annua di soli 400 Euro, e ha cassato la sentenza della Corte di appello anche in ordine alla mancata pronuncia relativamente alla richiesta di condanna al risarcimento del danno patrimoniale.

La Corte di appello di Salerno adita in sede di rinvio ha determinato la durata ragionevole del processo in quattro anni ma ha ritenuto ugualmente che la durata eccessiva imputabile all’amministrazione della Giustizia fosse di sette anni e ha liquidato l’indennizzo spettante al P. in 7.000 Euro. Ha escluso la sussistenza di un danno patrimoniale ascrivibile alla durata del processo perchè non provato.

Ricorre ora nuovamente per cassazione I.P. che si affida a cinque motivi di impugnazione.

Si difende con controricorso il Ministero della Giustizia.

La Corte riunita in camera di consiglio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 394 c.p.c., commi 2 e 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e per omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5).

Il ricorrente sottopone alla Corte il seguente quesito di diritto: se il ricorrente agendo in riassunzione possa modificare il proprio petitum rispetto a quello originariamente proposto e se lo possa fare implicitamente, senza una espressa volontà sul punto; se l’affermazione apodittica e non provata, anzi contrastante con le risultanze processuali, posta a motivazione della accettazione da parte del ricorrente della determinazione in soli sette anni della durata irragionevole del processo, possano essere immuni da censura in questo giudizio, principi e fatti che, se riconosciuti, comportano la violazione e/o la falsa applicazione della legge o la omessa insufficiente e contraddittoria motivazione di un fatto controverso e decisivo, e la conseguente cassazione sul punto del decreto, dovendosi procedere alla liquidazione dell’indennità anche per il periodo legittimamente escluso.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto, artt. 6 e 41 della C.E.D.U. per come interpretati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, violazione o falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio.

Il ricorrente sottopone alla Corte il seguente quesito di diritto :

se i criteri giurisprudenziali determinati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in applicazione degli artt. 6 e 41 C.E.D.U. siano vincolanti per il giudice nazionale e se la Corte dr appello possa discostarsi dai principi dettati da questa S.C. in sede di rinvio, senza indicare quanto meno i diversi principi cui nel caso intende attenersi, principi sui quali si sarebbe potuto svolgere il sindacato di legittimità e che, se implicanti la violazione di legge o la sua falsa applicazione al caso di specie, avrebbero legittimato la cassazione del decreto consentendo la liquidazione dell’indennità anche per il periodo illegittimamente escluso.

Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, della L. n. 89 del 2001, dell’art. 41 C.E.D.U., della correlata giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, degli artt. 1226 e 2056 c.c. in riferimento al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il ricorrente sottopone alla Corte il seguente quesito di diritto: se la Corte di appello, chiamata alla liquidazione dell’indennità dovuta ex artt. 6 e 41 della C.E.D.U. e della L. n. 89 del 2001, dovendo procedere in via equitativa, possa discostarsi dai criteri indicati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiamati come cogenti dalla stessa sentenza di rinvio, e se possa, con motivazione non attinente a quanto previsto in quella stessa giurisprudenza e comunque in violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., fissare l’indennità nella misura minima ivi prevista, incorrendo quindi in violazione di legge e/o in una omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere semplicemente fatto riferimento alla tipologia del procedimento dalla stessa Corte di appello definita di non rilevante difficoltà.

Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 394 c.p.c., commi 2 e 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 c.p.c. e per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il ricorrente sottopone alla Corte il seguente quesito di diritto: se il ricorrente, agendo in riassunzione, possa modificare il proprio petitum rispetto a quello originariamente proposto e se lo possa fare implicitamente, senza una espressa volontà sul punto, e se l’affermazione apodittica e non provata anzi contrastante con le risultanze processuali, posta a motivazione della accettazione da parte del ricorrente della determinazione in soli Euro 49.732,32 possano essere immuni da censura in questo giudizio, principi e fatti che, se riconosciuti, comportano la violazione e/o la falsa applicazione della legge o la omessa insufficiente e contraddittoria motivazione di un fatto controverso e decisivo, e la conseguente cassazione sul punto del decreto, dovendosi procedere alla liquidazione dell’indennità sulla base del danno effettivamente subito, sulla base del valore commerciale del bene usurpativamente espropriato.

Con il quinto motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 dell’art. 2059 c.c., degli artt. 2, 24 e 111 Cost. nonchè degli artt. 1, 6 e 41 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ratificata e resa esecutiva dalla L. 4 agosto 1955, n. 848 anche in relazione con l’art. 117 Cost., per aver ritenuto non indennizzabile, in applicazione della L. n. 89 del 2001, il danno prodotto dalla L. n. 626 del 1996, art. 3 comma 65 che ha determinato l’indennità di esproprio con effetti retroattivi nei giudizi all’epoca pendenti per durata irragionevole, violando i diritti garantiti dagli artt. 2 e 111 Cost. e dagli artt. 1, 6 e 41 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, protetti nella loro giustizi abilità dall’art. 24 Cost. e dalla stessa Convenzione, quest’ultima resa inviolabile ai sensi dell’art. 117 Cost. nel senso definito dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Il ricorrente sottopone alla Corte il seguente quesito di diritto: se La L. n. 89 del 2001, art. 2 interpretata ai sensi degli artt. 2, 24 e 111 Cost. e degli artt. 6 e 41 della C.E.D.U., per conte interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, consenta ai giudici italiani di giudicare dei danni prodotti dall’applicazione dello jus superveniens, poi dichiarato contrario alle obbligazioni assunte dall’Italia con la convenzione citata, sia come tale sia per la sua applicazione retroattiva, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, dichiarato anche illegittimo dalla Corte Costituzionale, anche alla luce di quella giurisprudenza, resa possibile dalla irragionevole durata del processo, con la conseguente possibilità di applicare, nella liquidazione del danno patrimoniale, i principi della Corte Europea relativamente al risarcimento integrale del danno derivante da una espropriazione usurpativa, che tenga conto del valore del bene, ivi incluse le sue trasformazioni illegittimamente realizzate.

Infine il ricorrente solleva eccezione di incostituzionalità per l’ipotesi che il disposto dell’art. 2 non venga ritenuto interpretabile nel senso esposto con il precedente motivo e che la legge in questione debba ritenersi pertanto ostativa alla applicazione, in ottemperanza della giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze nn. 348 e 349 del 2007) che, in presenza di un contrasto fra legge interna e C.E.D.U., ritiene che il conflitto non può portare alla disapplicazione della norma interna bensi al deferimento alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale della norma interna in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1.

I motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente e si dimostrano fondati in quanto la motivazione del decreto impugnato non rende ragione della decisione di estendere di un anno rispetto agli ordinari parametri (tre anni di durata media per il primo grado, due per il grado di appello e uno per quello di legittimità) la durata ragionevole del processo in questione. Tantomeno la decisione impugnata spiega la ragione per cui il periodo di durata del processo eccedente quella ragionevole può considerarsi produttivo di un danno non patrimoniale solo limitatamente a sette anni invece che a dodici anni e sette mesi quanti sono intercorsi (oltre i tre anni di durata ragionevole) periodo intercorrente fra la citazione in giudizio (15 febbraio 1986) e il deposito della sentenza di primo grado (25 settembre 2001).

Il decreto impugnato va quindi cassato quanto alla liquidazione dell’equo indennizzo riconosciuto per il danno non patrimoniale derivante dalla non ragionevole durata del processo e riliquidato in Euro 9.400 corrispondenti a un indennizzo annuo pari a 750 Euro da moltiplicare per dodici anni, sette mesi e dieci giorni. Si ritiene infatti corrispondente a giustizia una tale liquidazione annua in considerazione della indiretta cooperazione del ricorrente nella causazione di una durata tanto prolungata del giudizio che si sarebbe potuta attenuare con un comportamento processuale più attivo.

Va invece respinta la richiesta di riconsiderare la pronuncia di merito circa l’inesistenza di un danno patrimoniale. Sul punto, come si è visto, il ricorrente ritiene che la durata eccessiva del processo abbia comportato l’applicazione di uno jus superveniens sfavorevole e quindi sia stata fonte di un danno di natura patrimoniale valutabile sulla base della diversa liquidazione del danno da occupazione abusiva operata con l’applicazione dei nuovi criteri legali. Va ribadita a questo proposito la giurisprudenza di questa Corte (fra le altre Cass. civ. n. 9909 del 15 aprila 2008), secondo cui, in tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 impone di risarcire solo i danni patrimoniali che siano conseguenza immediata e diretta, sulla base di una normale sequenza causale, del ritardo nella definizione del processo e non comprende gli effetti della sopravvenienza di una legge, applicabile anche alla fattispecie "sub xudice", contenente criteri atti a comprimere o vanificare la pretesa azionata in giudizio. Tale interpretazione non autorizza dubbi sulla compatibilità della predetta norma con l’art. 117 Cost., comma 1, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e, per il tramite di esso, con le rilevanti disposizioni della CEDU, così come interpretate dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sicchè deve dichiararsi manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata al riguardo.

Le spese del giudizio di merito e del giudizio di cassazione devono essere poste a carico del Ministero.

P.Q.M.

La Corte dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, accoglie il ricorso per quanto di ragione cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero al pagamento a titolo di equa riparazione della somma di Euro 9.400 con interessi legali dalla domanda. Condanna il Ministero al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese del giudizio liquidate in Euro 1.200 per il giudizio di merito, di cui Euro 50 per spese, 600 per diritti, 550 per onorari, e in Euro 1.100 per ciascun giudizio di cassazione, di cui Euro 900 per onorari.

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