T.A.R. Veneto Venezia Sez. I, Sent., 08-11-2011, n. 1663 Obbligazione pecuniaria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L’odierno ricorrente – che con gravame proposto nel 1996, accolto con sentenza n. 264/07 passata in giudicato, aveva impugnato l’aggiudicazione dell’appalto in oggetto (ove si era graduato al secondo posto) affermando che, poichè una ditta concorrente avrebbe dovuto essere estromessa dalla gara in quanto iscritta all’ANC per un importo inferiore all’importo dei lavori da eseguire, il conseguente abbassamento della media dei ribassi offerti avrebbe comportato l’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria e, quindi, l’aggiudicazione dell’appalto alla ricorrente – chiede, ora, il risarcimento del danno conseguente alla mancata assegnazione dei lavori.

Si è costituito in giudizio il Comune eccependo, preliminarmente, che la mancata richiesta di sospensione dell’impugnato provvedimento di aggiudicazione della gara avrebbe concorso alla creazione del danno di cui ora si chiede il risarcimento, danno che avrebbe potuto essere escluso o, comunque, limitato con l’ordinaria diligenza proponendo, appunto, la domanda cautelare che, secondo il resistente, aveva ragionevoli probabilità di essere accolta: in subordine, peraltro, ha evidenziato la sproporzionata quantificazione del danno esposta dal ricorrente.

La causa è passata in decisione all’udienza del 20 ottobre 2011.

Motivi della decisione

Come si è accennato in narrativa, in assenza dell’illegittimità commessa dall’Amministrazione l’impresa ricorrente, essendosi collocata al secondo posto della graduatoria, sarebbe divenuta aggiudicataria della gara.

Risulta, quindi, provata la spettanza del bene della vita da identificarsi nell’aggiudicazione dell’appalto.

Risulta anche la colpa della stazione appaltante in quanto, come la giurisprudenza ha in più occasioni sottolineato (cfr., ex pluribus, CdS, VI, 9.6.2008 n. 2751), non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della PA.

Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.

Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.

Spetterà a quel punto all’Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.

Nel caso di specie risulta violata una norma fondamentale della lex specialis di gara – il bando, infatti, prevedeva quale requisito minimo di partecipazione l’iscrizione all’Albo Nazionale dei Costruttori per la categoria I di importo adeguato ai lavori d’appalto: sicchè l’Amministrazione non avrebbe dovuto ammettere alla gara la ditta Tesser che aveva dichiarato di essere iscritta all’ANC per un importo di Lire 150.000.000, inferiore all’importo progettuale delle opere posto a base di gara, che era di Lire 181.800.000 – e, pertanto, considerando anche che l’Amministrazione non ha allegato circostanze tali da superare la presunzione di colpa che nasce dall’illegittimità, deve ritenersi integrata la prova dell’elemento soggettivo.

A questo punto, però, dev’essere esaminata l’eccezione del Comune secondo cui il ricorrente, omettendo di proporre la domanda cautelare, avrebbe concorso alla causazione del danno.

Va anzitutto premesso che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con la diligente utilizzazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, III comma del codice del processo amministrativo, deve ritenersi ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’interpretazione evolutiva dell’art. 1227, II comma, c.c. (cfr. CdS, Ap, 23.3.2011 n. 3): l’omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, dunque, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. Il codice del processo amministrativo, quindi, non ha fatto altro che formalizzare in campo processuale amministrativo la regola, già immanente nell’ordinamento, secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa, recide, in tutto o in parte, il nesso causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili (cfr Cass., SS.UU. 11.1.2008 n. 577; Cass. Civ., III, 12.3.2010 n. 6045). Ne discende, pertanto, la rilevanza, sul versante causale, dell’omessa attivazione di tutti i rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, come fatto che preclude la risarcibilità di pregiudizi che sarebbero stati presumibilmente evitati, così come la necessità di valutare anche l’omissione di ogni altro comportamento esigibile in quanto non eccedente la soglia del sacrificio significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita alla stregua del canone di buona fede di cui all’art. 1175 c.c. (cfr. TAR Veneto, II, 7.4.2011 n. 582).

Orbene, alla luce dei predetti principi – ritenuti condivisibili dal Collegio -, va evidenziato che nel caso di specie il ricorrente ha impugnato il provvedimento di aggiudicazione della gara alla ditta controinteressata, ma non ne ha chiesto la sospensione, che, qualora accordata, avrebbe consentito di escludere affatto o comunque di limitare il danno: vero è, però, che se è inequivocabile l’omissione da parte del ricorrente di una specifica misura di tutela predisposta dall’ordinamento (la domanda di sospensione), non è tuttavia apprezzabile con sufficiente certezza, né determinabile con ragionevole approssimazione, la probabilità di una pronuncia cautelare favorevole e, soprattutto, satisfattiva per l’interessato, tale cioè tale da consentirgli di sostituirsi all’aggiudicatario nell’esecuzione dei lavori ed evitare quindi la produzione del danno. Il che conduce a negare il concorso colposo dell’interessato nella provocazione del danno, fermo restando che la riscontrata omissione sarà valutata ai fini delle spese del presente giudizio.

Ritenuta, dunque, la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo dell’illecito, si deve quantificare, a questo punto, il risarcimento del danno, risarcimento che, attesa l’avvenuta esecuzione dei lavori, non può che essere liquidato per equivalente secondo i criteri e con le modalità che seguono.

a) In primo luogo deve ribadirsi il consolidato orientamento secondo il quale nel caso in cui una impresa lamenti la mancata aggiudicazione di un appalto, non le spettano i costi di partecipazione alla gara.

Occorre, infatti, puntualizzare che la partecipazione alle gare di appalto comporta per le imprese dei costi che, ordinariamente, restano a carico delle imprese medesime sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione.

Detti costi sono risarcibili, a titolo di danno emergente, solo qualora l’impresa subisca un’illegittima esclusione, perché in tal caso viene in considerazione il diritto soggettivo del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili (cfr., ex multis, CdS, VI, 21.5.2009 n. 3144).

Per converso, nel caso in cui l’impresa ottenga il risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all’impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall’aggiudicazione (cfr. CdS, VI, 7.9.2010 n. 6485).

b) Va invece riconosciuto a titolo di lucro cessante il profitto che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto.

In ordine alla quantificazione di tale danno, l’impresa ricorrente chiede che esso venga quantificato applicando il criterio (spesso utilizzato dalla giurisprudenza amministrativa: cfr., ad esempio, CdS, V, 14.4.2008 n. 1665) del 10% del prezzo a base d’asta, ai sensi dell’art. 345 dell’All. F alla legge n. 2248 del 1865, che dispone(va) – la norma è stata abrogata dall’articolo 256 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 – che "è facoltativo all’Amministrazione di risolvere in qualunque tempo il contratto, mediante il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importare delle opere non eseguite".

La sezione ritiene, tuttavia, che il criterio del 10%, se pure è in grado di fondare una presunzione su quello che normalmente è l’utile che una impresa trae dall’esecuzione di un appalto, non possa essere oggetto di applicazione automatica.

Come, invero, è stato affermato (CdS, V, 13.6.2008 n. 2967), il criterio del 10%, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l’imprenditore ben più favorevole dell’impiego del capitale.

Cosicchè il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subito quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe di meno.

Appare allora preferibile l’indirizzo che esige la prova rigorosa, a carico dell’impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto: prova desumibile, in primis, dall’esibizione dell’offerta economica presentata al seggio di gara (cfr. CdS, V, 17.10.2008 n. 5098).

Nel senso che la percentuale del 10% non rappresenti un criterio automatico di quantificazione del danno sembra deporre, del resto, anche l’art. 20, IV comma del DL n. 185/08 che, con riferimento agli appalti relativi ad investimenti pubblici strategici da individuarsi con successivo DPCM, stabilisce che il risarcimento del danno, possibile solo per equivalente, non possa comunque eccedere la misura del decimo dell’importo delle opere che sarebbero state eseguite se il ricorrente fosse risultato aggiudicatario in base all’offerta economica presentata in gara.

Pur essendo dettata con riferimento ad una particolare tipologia di appalti, tale norma conferma che il 10% non possa essere riconosciuto automaticamente e che sia possibile quantificare il danno in misura minore. Se ciò vale, per espressa previsione legislativa, nei casi in cui (come accade per gli appalti cui si riferisce il DL n. 185/08) il risarcimento per equivalente rappresenta l’unico strumento di tutela (essendo espressamente escluso il subentro), si deve ritenere che, a maggior ragione, ciò valga anche quando la tutela per equivalente è alternativa con la tutela in forma specifica.

Inoltre, il lucro cessante da mancata aggiudicazione può essere risarcito per intero se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile.

Onere, questo, che grava non già sull’Amministrazione, ma sull’impresa.

Va da sé, infatti, che l’imprenditore, in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili.

In sede di quantificazione del danno, pertanto, spetterà all’impresa dimostrare, anche mediante l’esibizione all’Amministrazione di libri contabili, di non aver eseguito, nel periodo che sarebbe stato impegnato dall’appalto in questione, altre attività lucrative incompatibili con quella per la cui mancata esecuzione chiede il risarcimento del danno (cfr., in termini, CdS, IV, 7.9.2010 n. 6485; VI, 21.9.2010 n. 7004).

Tale prova è mancata nel caso di specie.

Alla luce delle considerazioni che precedono, pertanto, risulta equo liquidare a titolo di lucro cessante la somma dell’8% dell’importo dell’offerta economica presentata dal ricorrente: tale somma, poi, va ridotta al 4% tenendo conto dell’aliunde perceptum dell’impresa.

Considerato che l’importo dell’offerta presentata dal ricorrente è pari a Lire 161.802.000 (Lire181.800.000 a base d’asta ribassate dell’11%), la somma da liquidarsi a titolo di lucro cessante è dunque pari a Lire 6.472.080 (pari a Euro 3.342,55).

c) Non può, invece, essere risarcito il costo di Euro 42.947, 56 che il ricorrente assume di aver sopportato per lo smaltimento del materiale di risulta proveniente dai lavori svolti per l’esecuzione di altro appalto (assegnatogli dal Comune di Vittorio Veneto) che, in quanto concomitanti con i lavori di cui all’appalto illegittimamente negatogli dal Comune di Conegliano (che prevedeva l’esecuzione di un’opera asseritamente speculare: mentre da una parte si sarebbe sbancato il materiale, dall’altra lo si sarebbe apportato), sarebbe stato assorbito dalla realizzazione di tali lavori.

Non può perché – a prescindere dalla considerazione che il lamentato danno non rappresenterebbe comunque una conseguenza diretta ed immediata della mancata aggiudicazione dell’appalto di Conegliano: non v’è, cioè, nesso di causalità tra mancata aggiudicazione di un appalto e spesa sostenuta per l’esecuzione di un altro, diverso appalto – il ricorrente non ha prodotto alcuna prova dell’effettiva possibilità di eseguire contemporaneamente i due diversi appalti, non ha dimostrato che il materiale da asportare fosse della medesima qualità e quantità di quello da apportare (e, quindi, da utilizzare per la costruzione della pista ciclabile), e non ha considerato che il costo del trasporto del materiale da un cantiere all’altro (che avrebbe comunque dovuto effettuarsi) surclassa il costo del materiale.

d) Può invece riconoscersi il c.d. danno curriculare chiesto dal ricorrente: l’esecuzione di un appalto pubblico, invero, è fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti.

L’interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un’impresa, va, infatti, ben oltre l’interesse all’esecuzione dell’opera in sé e al relativo incasso. Alla mancata esecuzione di un’opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all’immagine della società ed al suo radicamento sul mercato.

In linea di massima, allora, deve ammettersi che l’impresa illegittimamente privata dell’esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale.

Esso, tuttavia, non può essere quantificato, come pretende il ricorrente, sull’importo dell’appalto, risultando più corretto calcolarlo come percentuale della somma già liquidata a titolo di lucro cessante (così CdS, VI, 21.5.2009 n. 3144), in misura inversamente proporzionale all’importanza di quest’ultima.

Nel caso di specie il collegio stima equo riconoscere una somma pari al 10% di quanto liquidato a titolo di lucro cessante.

Alla somma di Euro 3.342,55 devono aggiungersi, quindi, Euro 334,25 a titolo di danno c.d. curriculare, per un risarcimento complessivo pari a Euro 3.676,80.

e) Trattandosi di debito di valore, alla ricorrente spetta anche la rivalutazione monetaria dal giorno in cui è stato stipulato il contratto con l’impresa illegittima aggiudicataria sino alla pubblicazione della presente sentenza: a decorrere da tale momento, infatti, in conseguenza della liquidazione giudiziale il debito di valore si trasforma in debito di valuta.

f) Non spettano, invece, gli interessi compensativi (dalla data della domanda fino alla pubblicazione della sentenza) sulla somma via via rivalutata: nei debiti di valore, infatti, gli interessi compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria dell’eventuale danno da ritardo nella corresponsione dell’equivalente monetario attuale della somma dovuta all’epoca della produzione del danno, sicchè essi non sono dovuti ove il debitore non dimostri la sussistenza di una perdita da lucro cessante per non avere conseguito la disponibilità della somma di danaro non rivalutata fino al momento della verificazione del danno ed averla potuta impiegare redditiziamente in modo tale che avrebbe assicurato un guadagno superiore a quanto venga liquidato a titolo di rivalutazione monetaria (cfr., per tutte, Cass. Civ., III, 12.2.2008 n. 3268).

In mancanza di qualsiasi prova circa l’insufficienza della rivalutazione ai fini del ristoro del danno da ritardo nei sensi sopra specificati, la domanda volta ad ottenere gli interessi compensativi va, pertanto, respinta (CdS, VI, 21.5.2009 n. 3144).

f) Spettano, invece, gli interessi legali dalla pubblicazione della presente decisione fino all’effettivo soddisfo.

5.- Alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, il Comune di Conegliano va condannato al risarcimento del danno a favore del ricorrente da liquidarsi in complessivi Euro 3.676,80, oltre alla rivalutazione monetaria dalla domanda alla pubblicazione della presente decisione e agli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al soddisfo.

Le spese del giudizio vanno compensate in ragione dell’omessa attivazione, da parte dell’odierno ricorrente, di tutti i rimedi (nel caso di specie, la domanda cautelare nell’ambito del presupposto giudizio impugnatorio) potenzialmente idonei a limitare il danno.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, condanna il Comune di Conegliano a risarcire al ricorrente i danni come specificato in motivazione.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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