Cass. civ., sez. I 10-02-2006, n. 2995 DEMANIO STATALE – ARCHEOLOGICO – Oggetti archeologici – Appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 12.4.1996, il Ministero dei beni culturali e ambientali conveniva in giudizio L? E? davanti al Tribunale di Roma, chiedendo l’accertamento della proprietà pubblica dei beni archeologici, già sequestrati in sede penale presso il domicilio del convenuto, e successivamente sottoposti a sequestro giudiziario, ed il conseguimento del relativo possesso. Si costituiva in giudizio L? E? contestando il fondamento della domanda, di cui chiedeva il rigetto: i beni non dovevano considerarsi di interesse archeologico, e dunque potevano appartenere a privati, e

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1283/03 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 17/03/03; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/01/2006 dal Consigliere Dott. S? S?; udito per il ricorrente l’Avvocato C? che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. R? G? R? che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione dei motivi 1, 3, 4 e 7 del ricorso.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 12.4.1996, il Ministero dei beni culturali e ambientali conveniva in giudizio L? E? davanti al Tribunale di Roma, chiedendo l’accertamento della proprietà pubblica dei beni archeologici, già sequestrati in sede penale presso il domicilio del convenuto, e successivamente sottoposti a sequestro giudiziario, ed il conseguimento del relativo possesso.

Si costituiva in giudizio L? E? contestando il fondamento della domanda, di cui chiedeva il rigetto: i beni non dovevano considerarsi di interesse archeologico, e dunque potevano appartenere a privati, e

comunque erano da considerare acquisiti per usucapione. Avverso la sentenza di primo grado, che, restituiti alcuni pezzi, dichiarava l’appartenenza degli altri al patrimonio indisponibile dello Stato, cui attribuiva il possesso, proponeva appello il L?.

Con sentenza depositata il 17.3.2003, la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame. Le cose d’interesse culturale, indipendentemente dal valore economico, fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato e in quanto tali non sono usucapibili: alla stregua di tale principio vanno considerate quelle sequestrate al L?, il quale non aveva dato prova di averne acquisito il possesso prima del 1909.

Ricorre per Cassazione L? E? affidandosi a otto motivi, illustrati da memoria, al cui accoglimento si oppone con controricorso il Ministero per i beni e le attività culturali.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, L? E?, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 5 1. 20.9.1909 n. 364, dell’art. 53 r.d. 30.1.1913 n. 363, nonché degli artt. 2, 3, 5,35,39,53,54 e 71 1. 1.6.1939 n. 1089, degli artt. 6 e 8 d.lgs. 29.10.1999 n. 490, censura la sentenza impugnata per aver considerato assoggettati alla disciplina vincolistica delle cose d’antichità gli oggetti archeologici, pur se non muniti d’interesse artistico. I beni sequestrati al ricorrente non sono mai stati riconosciuti d’interesse culturale, mediante una formale "notifica", che è elemento costitutivo del vincolo, pur se l’amministrazione ben ne conosceva l’esistenza. Prima della notifica il detentore non ha alcun obbligo in relazione agli stessi beni: solo dopo la notifica, attraverso la quale l’amministrazione dà una valutazione sul pregio dell’oggetto, il bene viene a far parte del patrimonio indisponibile. L’evoluzione legislativa, fin dalla prima legge organica in materia, la n. 364 del 1909, e in seguito la n. 1089 del 1939, mostra chiaramente l’attenzione dell’ordinamento solo per le cose che possiedano un valore culturale apprezzabile, non anche per quelle semplicemente vetuste: l’enfatizzazione del principio di proprietà statale porrebbe serissimi problemi di conservazione, posta l’ingente quantità di testimonianze archeologiche venute alla luce nel nostro paese.

Con il secondo motivo di ricorso, il L?, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 15 1. 20.6.1909 n. 364, censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto che lo Stato non ha dato la prova di aver rilasciato, come la legge impone, la quarta parte delle cose rinvenute, o il prezzo equivalente, o la totalità dei beni rinvenuti, giudicati non interessanti per le collezioni dello Stato.

Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, censura la sentenza impugnata per aver operato un semplice richiamo alla motivazione di primo grado, senza darsi carico di spiegare il perché doveva essere Il L? a provare l’acquisto dei beni prima del 1909.

Con il quarto motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e 3 e 101 Cost., censura la sentenza impugnata per avere ingiustificatamente sovvertito il principio dell’onere probatorio, che è garanzia dell’uguaglianza delle parti e della terzietà del giudice, e non tollera posizioni di privilegio processuale: la vicenda penale scaturita dal sequestro dei beni di cui è causa, si è conclusa con l’assoluzione del moria dai reati di furto archeologico e ricettazione, attesa l’impossibilità di accertare esattamente l’epoca del rinvenimento dei beni nel sottosuolo.

Con il quinto motivo di ricorso, il L?, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 826, secondo comma, c.c., censura la sentenza impugnata per non aver considerato che l’attribuzione della proprietà pubblica ai beni archeologici, da chiunque rinvenuti nel sottosuolo, non è incondizionata, ma concepibile alle condizioni stabilite dalla legge 1089 del 1939, che presuppone l’interesse particolarmente importante delle cose, e la loro avvenuta notifica: non può ritenersene l’interesse culturale per il solo fatto che siano stati rinvenuti nel sottosuolo. Diversamente, si tratta di un bene commerciale, soggetto alla disciplina delle cose comuni.

Con il sesto motivo di ricorso, il L?, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto del giudicato penale, costituito dalla sentenza di assoluzione, a conclusione del giudizio, al quale hanno preso parte tutte le parti dell’attuale giudizio civile, e nel quale è stata ricostruita la verità dei fatti.

Con il settimo motivo di ricorso, il L?, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 828 c.c., in relazione agli artt. 1140 e 1142 c.c., dell’art. 10 preleggi e d.lgs. 490 del 1990, e degli artt. 1153 e 1160 c.c., censura la sentenza impugnata per non considerato che in base al nuovo testo unico dei beni culturali, che ha abrogato la normativa precedente, tuttavia reiterandone i principi, vanno distinti i beni da considerare ontologicamente beni culturali, da quelli che rivestono tale qualità solo se oggetto di un riconoscimento culturale operato da un provvedimento amministrativo discrezionale: senza di che il bene può essere appreso da privato, posseduto, e di conseguenza usucapito.

Con l’ottavo motivo di ricorso, il L?, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1142 e 828, secondo comma, c.c., 5 1. 20.6.1909 n. 364, censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto che l’autorità da epoca remota era a conoscenza dell’esistenza dei beni sequestrati al ricorrente, in tal modo manifestando il più completo disinteresse riguardo ad essi, dal che consegue che trattandosi di oggetti comuni, essi ben hanno potuto essere oggetto di usucapione.

La lettura dei motivi di ricorso, in parte ripetitivi, richiede una razionalizzazione della materia in contestazione, palesandosi l’opportunità di un’analisi delle doglianze del ricorrente, polarizzate intorno a questioni omogenee, che si ritiene di individuare, nell’ordine logico di trattazione, nel modo che segue: l’interesse culturale del bene, da cui consegue l’ascrivibilità dei beni sequestrati al patrimonio indisponibile dello Stato (motivi pruno, quinto e settimo); il regime probatorio in ordine alla proprietà dei beni archeologici (motivi secondo, terzo e quarto); i rapporti tra giudicato civile e penale (motivo sesto); l’usucapibilità dei beni archeologici (motivo ottavo).

Sotto il primo profilo, la legislazione di tutela dei beni culturali, in particolare dei beni archeologici, è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell’importanza che essi rivestono – anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico-artistico garantita dall’art. 9 Cost. dell’appartenenza allo Stato dei beni rinvenuti: gli istituti dell’occupazione e dell’invenzione, quali modi di acquisto della proprietà (artt. 923 e 929 c.c.), di cui è applicazione la disciplina del "tesoro" (art. 932 c.c.), sono derogati in considerazione della peculiarità degli oggetti, per cui l’art. 826, secondo comma, c.c., assegna al patrimonio indisponibile dello Stato "le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo": disciplina confermata dagli artt. 44,46,47 e 49 della legge 1089 del 1939, cui rinvia l’art 932, secondo comma, c.c. In prosieguo di tempo, prima l’art. 88 d.lgs. 29.10.1999 n. 490, t.u. beni culturali, che quelle norme ha abrogato (art. 166), ha disposto che i beni di cui all’art. 2 (che alla lett. a) enumera "le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico"), da chiunque e in qualunque modo ritrovati, appartengono allo Stato, e, attualmente, l’art. 91 d.lgs. 22.1.2004 n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio (che all’art. 184 ha abrogato il d.lgs. 490 del 1999), dispone l’appartenenza al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato delle cose, a seconda se immobili o mobili, di cui all’art. 10 (cioè "che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico").

Va in primo luogo sgombrato il campo da un palese fraintendimento nel quale incorre il ricorrente, nel momento in cui, proponendosi di dimostrare la non appartenenza al patrimonio pubblico degli oggetti di cui è stato trovato in possesso, assume che per gli stessi (che dunque non avrebbero valore culturale) non è intervenuto il riconoscimento dell’autorità dal quale soltanto discende la sottoposizione alla legislazione protezionistica.

Il riconoscimento, che in gergo è detto "notifica", è previsto per le sole cose di proprietà privata, al fine di assoggettarle alle limitazioni e agli obblighi della legislazione di tutela (art. 3 1. 1089/39; art. 5 d.lgs. 490/99; art. 15 d.lgs. 42/04): per queste il presupposto è che si tratti di cose in cui l’interesse culturale sia "particolarmente importante", ovvero, ai fini dell’assoggettamento alla tutela, non basta la mera appartenenza alle categorie storica, artistica, archeologica, che viceversa è sufficiente, ove di proprietà pubblica, a far scattare, tra l’altro, l’obbligo dei legali rappresentanti degli enti alla compilazione degli speciali elenchi (art. 4 1. 1089/39; art. 5 d.lgs. 490199: tuttavia con effetti ricognitivi, non costitutivi). Che le cose per il conseguimento delle quali il ministero per i beni culturali ha agito in giudizio, non siano state notificate, non significa né che le stesse non abbiano valore culturale (ma sul punto si tornerà in seguito), né che esse non appartengano al patrimonio pubblico. Anzi, è proprio vero il contrario: la notifica depone per la proprietà privata del bene, mentre per l’assoggettamento delle cosa alla proprietà pubblica (il che avviene, per i beni archeologici, al momento del loro rinvenimento) è sufficiente la presenza nell’oggetto dell’interesse storico, artistico, archeologico, anche semplice, o generico, abbia questo costituito o meno oggetto di accertamento. Questo spiega perché, prima di determinarsi a procedere alla rivendicazione delle cose, lo Stato non operi formali riconoscimenti dell’interesse culturale (la notifica dei beni in possesso di privati cittadini, da parte dell’amministrazione potrebbe significare, anzi, una presunzione di proprietà privata), e nemmeno può trarsi argomento dalla remota conoscenza della detenzione privata delle cose, circa la non rilevanza dell’interesse, attesa l’imprescrittibilità della rei visidicatio.

Va osservato, per completezza, con riferimento al recente Codice dei beni culturali, di cui al d.lgs. 42/04, non ancora emanato al momento della notifica del ricorso per cassazione, e per questo citato dal ricorrente solo nella memoria per la discussione, che le esigenze di conoscenza del patrimonio pubblico al fine di una sua miglior tutela, e di certezza delle situazioni proprietarie, hanno convinto negli ultimi anni della necessità, da un lato, di dare impulso alla catalogazione dei beni (vedi, tra l’altro, la 1. 19.4.1990 n. 84 e l’art. 17 del Codice), dall’altro di procedere alla verifica dell’interesse culturale dei beni storico-artistici, anche di proprietà pubblica (art. 12, comma 3, Codice): resta però il principio fondamentale per cui, fino al compimento della verifica di "culturalità" (qualora questa dovesse avere esito negativo), le cose sono comunque sottoposte alla legislazione di tutela (art. 12, comma 1), e che la verifica concernente i beni di proprietà pubblica, non si estrinseca in una formale "dichiarazione" (art. 13, comma 2, Codice). Contrariamente a quanto dedotto con il settimo motivo, per cui il t.u. dei beni culturali avrebbe diviso i beni ontologicamente culturali da quelli per i quali è richiesto specifico accertamento di culturalità, va precisato che il riconoscimento di culturalità non è provvedimento costitutivo, che si basi sull’esercizio della discrezionalità amministrativa, ma solo atto di certazione, che rivela prerogative che il bene possiede per le sue caratteristiche. Che l’atto di certazione non sia intervenuto, non significa certo che lo stesso sia di proprietà privata, od oggetto di libera apprensione ed usucapione.

La mancata "notifica" dei beni, dunque, non dimostra che il bene non appartiene al patrimonio pubblico, anzi, dimostra il contrario.

Sostiene il ricorrente che non tutti gli oggetti archeologici, per il semplice fatto di appartenere alla categoria – per essere stati reperiti nel sottosuolo – possono essere considerati di interesse archeologico, ma che per la diffusione che essi hanno sul territorio del nostro paese, il cui sottosuolo archeologico è particolarmente ricco, non rivestono particolare significato per le scienze dell’antichità.

Va osservato in proposito che, se anche fosse vero il presupposto da cui il ricorrente muove, esso sarebbe smentito in fatto nella misura in cui, attraverso la pur succinta motivazione del giudice di merito (la motivazione per relationem è consentita ove comunque espliciti, come nella specie, il percorso argomentativo autonomo compiuto dal giudice di secondo grado alla luce dei motivi dell’impugnazione: Cass. 14.2.2003, n. 2169, Rv. 561341), si attesta che la modestia del valore dei beni sequestrati al L? non esclude l’interesse archeologico "anche per il solo profilo di enumerazione degli oggetti appartenenti ad un certo tipo, con riferimento alle antiche civiltà sannitica, apula e tarantina, ovvero etrusco-laziale (il periodo interessato va dal IX secolo a.C. al III-IV secolo d.C.), enumerazione che comunque costituisce materia della scienza archeologica e storica". Non va dimenticato, infatti, che per un’altra parte degli oggetti la restituzione allo Stato fu esclusa dal Tribunale, poiché all’esito degli accertamenti peritali erano stati ritenuti non autentici o di scarso interesse. Il che significa che per gli altri è stata ritenuta l’esistenza dell’interesse culturale, in misura tale da determinarne l’appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato: il riferimento alla sentenza 1.12.2004, n. 22501, contenuto nella memoria del ricorrente, è per questo irrilevante, attenendo quella pronuncia alla diversa questione della sindacabilità del giudizio relativo all’interesse culturale degli oggetti, formulato dalla Soprintendenza.

La questione però, a parere del collegio, deve essere diversamente impostata nei suoi presupposti teorici.

La teoria c.d. "dell’interesse qualificato", per cui sarebbe necessario un quid pluris per determinare l’interesse archeologico del bene (secondo il ricorrente occorrerebbe, addirittura, un pregio artistico), rispetto alla mera appartenenza alla categoria degli oggetti archeologici, in quanto reperiti nel sottosuolo, va verificata sia alla luce del testo normativo, sia in connessione alle regole ed agli scopi della disciplina archeologica: cui è pur necessario fare appello, per via del richiamo normativo a nozioni di dominio delle discipline extragiuridiche. La stessa definizione di culturalità, secondo la dottrina tradizionale, si presenta problematica, atteso che l’ordinamento non ne offre una qualifica unitaria e riassuntiva e che lo stesso riferimento della legge, alle "testimonianze materiali aventi valore di civiltà" (vedi ora art. 2, comma 2, Codice), non si presenta come nozione giuridicamente valida, ma laminale, ovvero una nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio contenuto, che viceversa deve esser definito mediante il rinvio a discipline non giuridiche.

Pur non potendosi ignorare l’utilità pratica che l’accoglimento della teoria dell’interesse qualificato potrebbe comportare – per l’alleviamento dagli oneri di conservazione che ne conseguirebbe -, non sembra che il testo normativo possa avvalorare, nella gradualità dell’interesse culturale su cui si articola la 1. 1089/39, la nozione di un filtro preventivo all’interesse base.

L’artificiosità di uno sdoppiamento tra categoria delle cose archeologiche e categoria delle cose d’interesse archeologico, non trova sostegno nel dettato normativo. L’art. 1 1. 1089/39 sottopone alla normativa tutte le "cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico", e così pure l’art. 2 t.u. beni culturali, e da ultimo, l’art. 10 del Codice.

La formula, riprodotta testualmente nell’art. 839 c.c., secondo cui "sono soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presentano interesse, artistico, storico", ecc., non sembra idonea a restringere, all’interno delle categorie (ad. es., le cose archeologiche), le sottocategorie (le cose d’interesse archeologico): l’art. 1 esprime semplicemente una generica volontà legislativa di ripartire i beni, globalmente considerati, tra i grandi settori della cultura, senza indicazioni valutative o restrizioni. La stessa elencazione legislativa è unanimemente considerata molo esemplificativa. Risulterebbe allora contraddittorio che, proprio nella dichiarazione degli intenti programmatici di tutela, diretti a ricomprendere la più ampia gamma possibile di testimonianze culturali, la legge fornisse indicazioni per un’autolimitazione.

All’espressione "cose che presentano interesse" non va assegnato valore diverso da quello, più chiaramente esplicato nella lett. a) dell’art. 1 ("cose che interessano"), di una generica "presa in considerazione" dell’oggetto da parte delle varie branche delle discipline umanistiche.

In particolare, per gli oggetti archeologici di nuova scoperta, la dizione categorica dell’art. 44 ("le cose ritrovate appartengono allo Stato") non lascia adito a distinzioni suggerite dal grado di interesse del bene riportato alla luce. Ed è una formula che, a scanso di equivoci, la legge ripete a sigillo di ogni possibile circostanza in cui avvenga il ritrovamento, non solo a seguito di ricerche effettuate dal Ministero, ma anche su concessione (art. 46, Primo comma 1-1089/39), su autorizzazione (art. 47, 3° comma), o fortuitamente (art. 49, 1° comnpa) : il t.u. lo prevede complessivamente nell’art. 88, il Codice nell’art. 91.

L’attribuzione ai privati delle cose scoperte, in luogo dell’indennità di occupazione, o come premio per il ritrovamento (art. 89, commina 4, t.u.; art. 92 Codice, che prevede, come alternativa rimessa alla scelta dell’interessato, una detrazione d’imposta), integra in ogni caso un trasferimento dallo Stato, che è in via assoluta il riservatario della proprietà dell’oggetto archeologico, indipendentemente dal rilievo storico e dal pregio artistico.

La riserva allo Stato, chiaramente sancita dagli art. 822 e 826 c.c., funziona da meccanismo di tutela delle cose ritrovate nella prima delicata fase del ritrovamento e della classificazione da parte degli organi tecnici: il meccanismo mette al riparo le cose, dall’applicazione, nella prima fase della loro vita giuridica, degli istituti del diritto comune (ad es., dell’art. 932 c.c.), impedendo il formarsi su di essi di diritti privati.

La tematica del dibattito sulla culturalità delle singole componenti il patrimonio storico-artistico si è incentrata sull’individuazione di un valore immanente al supporto materiale della cosa, la cui necessità di tutela trascenderebbe il regime proprietario del bene.

La presenza di tale valore non comporta che il medesimo debba comunque esser sottoposto ad una valutazione del pregio, secondo una variabilità insita nel mutamento dei gusti e dei modelli di riferimento. Una valutazione di questo tipo si confà, nelle categorie esemplificative menzionate dall’art. 1, ai soli beni artistici, con l’avvertenza comunque che la variabilità della valutazione estetica non esclude una rilevanza dell’opera nella ricostruzione storicistica dei gusti epocali.

La concezione del bene culturale ha conosciuto, a partire dalla Commissione d’indagine per la tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico, insediata con 1. 26 aprile 1964 n. 310 (nota come Commissione Franceschini dal nome del Presidente), un iter unitario che, in luogo della pluralità delle "cose d’arte", ha individuato una categoria concettuale unitaria, tesa ad accomunare tutti i beni "aventi riferimento alla storia della civiltà".

Non si possono, tuttavia, perdere di vista le peculiarità proprie di ogni settore culturale. La stessa Commissione Franceschini ammette l’esistenza di esigenze differenti, proprie di ognuna delle categorie di beni elencate dall’art. 1 1. 1089/39. Alla cosa d’interesse archeologico non può darsi altro connotato, se non di appartenere al passato e provenire dal sottosuolo, poiché niente può essere trascurato nell’ottica ricostruttiva delle civiltà antiche. Per ogni area archeologica è indispensabile per lo studioso la conoscenza di tutti gli oggetti provenienti dal sottosuolo, singolarmente e nella reciproca connessione. Non è solo importante assicurare alla conservazione un determinato oggetto, nella sua integrità, quanto conoscerne la provenienza ed il contesto.

Avendo riguardo agli scopi che la moderna concezione scientifica dell’archeologia si propone, sembra il risultato di un sofisma assumere che oggetti archeologici non interessino l’archeologia. Scriveva uno dei più insigni studiosi di archeologia classica, che "ogni scavo distrugge una documentazione accumulatasi in millenni. Perciò questa documentazione deve esser rilevata, via via che viene alla luce e che viene asportata, con estrema esattezza, in modo che la situazione originaria di ogni minimo oggetto reperito possa essere in qualunque momento ricostruita a tavolino e interpretata, anche a distanza di anni, da altri studiosi, sotto nuovi punti di vista".

Scopo dell’archeologia è di ricostruire la storia dei popoli, e della storia fanno parte non solo la vita e gli ambienti delle classi dominanti, ma anche la vita di tutti i giorni delle popolazioni antiche, e la vita quotidiana non si può immaginare se non con le componenti povere, con le suppellettili semplici, prive di valore estetico.

Che in un secondo momento, dopo il compimento dei necessari rilievi e l’inventario degli oggetti rinvenuti, parte di essi possa essere scartata, ed eventualmente ceduta a terzi, non toglie che in linea di principio la cosa debba appartenere allo Stato, al fine di impedire che attraverso la libera occupazione da parte dei privati, si distrugga la stratificazione di dati conoscitivi, accumulati nei secoli.

La proprietà privata dei beni trovati in possesso del L?, dunque, non può sostenersi né in base alla mancata notifica dell’interesse culturale rivestito dagli stessi, né in base alla pretesa assenza d’interesse culturale. I motivi primo, quinto e settimo, vanno rigettati.

Si viene ora all’esame dei motivi secondo, quarto e sesto del ricorso, che si fondano sull’assenza di prova, da parte dello Stato che avrebbe avuto interesse ad offrirla, della proprietà pubblica dei beni. Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe erroneamente invertito l’onere della prova, facendone richiesta al privato stesso.

Le doglianze sono infondate. E’ appena il caso di notare che il secondo motivo appare inammissibile: non è ravvisabile l’interesse all’impugnazione. Non si vede come si debba far carico allo Stato di provare di aver devoluto parte degli oggetti reperiti a privati, e di aver compilato il relativo verbale. Non è dato comprendere su quali beni ciò dovrebbe avvenire: non certo su quelli di cui il privato è stato trovato in possesso, giacché la denuncia da cui è scattata la misura probatorio-cautelare del sequestro, e la presente azione per l’accertamento della proprietà, dimostrano che l’amministrazione, proprio in quanto consapevole di non aver devoluto i beni in oggetto quale premio in natura per il reperimento, ha agito per riaverne la disponibilità, nella convinzione che il possesso dei medesimi da parte del L? fosse illecito. L’azione statale di recupero dei beni si fonda proprio sulla consapevolezza della proprietà pubblica degli oggetti archeologici, e sull’assenza di legittime cause di possesso da parte dei privati.

Un possibile modo di acquisto della proprietà da parte del privato, oltre al rilascio di beni in natura quale premio per il rinvenimento, al proprietario e allo scopritore, che doveva essere provato dall’interessato attraverso l’esibizione del verbale di ripartizione degli oggetti, che viene consegnato in originale (vedi artt. 95, 113 e 119 r.d. 30.1.1913 n. 363, regolamento per l’esecuzione delle leggi relative alle antichità e belle arti), potrebbe esser costituito dalla disponibilità del bene da parte del privato già in epoca anteriore alla prima legislazione di tutela dei beni culturali (legge 20.6.1909 n. 364), con cui venne configurata la proprietà statale dei beni archeologici oggetto di rinvenimento. E’ l’ipotesi invocata dal ricorrente.

Questa Corte ha ritenuto (sentenza 2.10.1995, n. 10335, Rv. 494150) che nell’azione di revindica di beni archeologici promossa dall’amministrazione statale, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, non è fatto costitutivo negativo del diritto azionato, ma fatto impeditivo che deve essere provato da chi l’eccepisce: dal complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archelogiche, ed il relativo regime di appartenenza, si ricava il principio generale della proprietà statale delle cose d’interesse archeologico, e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti, onde qualora l’amministrazione intenda rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti privati, incombe al possessore l’onere della prova, e della dedotta scoperta, e appropriazione, anteriormente all’entrata in vigore della legge 364 del 1909, a partire dalla quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato.

La disciplina delle cose d’interesse archeologico non crea, come dedotto dal ricorrente, un’ingiustificata posizione di privilegio probatorio: lo Stato, nell’azione di revindica dei beni archeologici può avvalersi di una presunzione di proprietà statale. La presunzione può essere determinata, oltre che da un id quod plerumque accidit di fatto (nella specie, peraltro, furono rinvenute sugli oggetti tracce di terra, segno della provenienza da scavi), anche da una "normalità normativa": Cass. 28.6.1984, n. 3796. Conseguentemente, opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la prova (Cass. 26.2.1985, n. 1672; 22.1.192, n. 709; 13.8.1992, n. 11149; 18.4.1995, n. 4337): in più spetterà al privato, che ragionevolmente -? dato il tempo trascorso, ormai, dal 1909 – dedurrà di aver ricevuto il bene a titolo derivativo, per successione ereditaria, dare compiuta dimostrazione sia sotto il profilo della ricomprensione del bene nell’asse ereditario, sia del ritrovamento in epoca anteriore alla 1. 364 del 1909. A meno che non si tratti di acquisto lecito (vedi art. 55 t.u. beni culturali, e ora art. ?54 Codice) da chi legittimamente possedeva il bene: ma di ciò dovrà analogamente darsi dimostrazione. I motivi terzo e quarto risultano di conseguenza infondati. A principi parzialmente diversi s’ispira il regime probatorio in tema di accertamento dei reati (ma non mancano, nella giurisprudenza penale, analoghe affermazioni di presunzione di possesso illegittimo degli oggetti archeologici: Cass. 29 ottobre 1972, Fedele; 8 gennaio 1980, Schiavo; 17 dicembre 1982, Waldner; 13 dicembre 1983, Di Ruvo; 27 giugno 1996, Dal Lago), né può sostenersi una pregiudizialità dell’accertamento compiuto in sede di processo penale, e un condizionamento della sentenza resa in quella sede, che avrebbe accertato la proprietà privata dei beni sequestrati. Il sesto motivo di ricorso è infondato: gli effetti del giudicato penale sul giudizio civile non hanno costituito oggetto di discussione nella fase di merito del giudizio, e la questione non può essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità (Cass. 25.5.1979, n. 3055, Rv. 399410).

E’ appena il caso di osservare, peraltro, che la sentenza penale di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento spiega efficacia di giudicato nel confronti di quanti furono parte in quel giudizio, solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato, ma non anche quando l’assoluzione sia sostanzialmente determinata dal diverso accertamento della mancanza di sufficienti elementi di prova in ordine all’uno o all’altro, pur se tale formula assolutoria non compaia nel diapositiva, giacché il codice di procedura penale del 1988 non l’ha prevista (Cass. 30.8.2004, n. 17401, Rv. 576397; 19.5.2003, n. 7765, Rv. 563263; 30.3.1998, n. 3330, Rv. 514091): nella specie, lo stesso ricorrente ammette che il Pretore ebbe ad assolvere l’attuale ricorrente dai reati di furto archeologico e ricettazione, essendosi rilevata "l’assoluta incertezza dell’epoca di rinvenimento del materiale archeologico".

Anche l’ottavo motivo è infondato. L’appartenenza dei beni al patrimonio indisponibile dello Stato, il che si estrinseca nell’impossibilità di sottrarli all’uso cui sono destinati, ne impedisce la maturazione del possesso ad usucapionem (Cass. 1.7.2004, n. 12023, Rv. 573981): i beni culturali sono destinati alla pubblica fruizione (art. 98 e ss. t.u. beni culturali, in relazione all’art. 9 Cost.: vedi ora l’art. 102 Codice), e l’ordinamento non ne consente, se non in casi eccezionali, e a determinate condizioni, la proprietà privata a scopi di collezionismo, che corrisponde ad un uso privato esclusivo (Cass. 28.8.2002, n. 12608, Rv. 557167).

Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio, liquidate nella misura di ? 3.500 per onorari, oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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