Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-03-2012, n. 3878 Accertamento, opposizione e contestazione Ordinanza ingiunzione di pagamento: opposizione Questioni di legittimità costituzionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 16 agosto 2005, il Giudice di pace di Padova ha rigettato l’opposizione proposta da B.S., nella qualità di legale rappresentante della TARGET s.n.c., avverso l’ordinanza-ingiunzione con la quale la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Padova aveva ingiunto ad esso ricorrente il pagamento della sanzione amministrativa di Euro 441.696,00 per avere stipulato, nel periodo maggio 1995 – gennaio 1996, nel corso dell’attività di vendita esercitata fuori dai propri locali commerciali, n. 428 contratti, nei quali l’informazione sul diritto di recesso era riportata in modo non conforme alle prescrizioni contenute nel D.Lgs. n. 50 del 1992.

Il Giudice di pace ha dapprima disatteso l’eccezione di incompetenza per valore, rilevando che l’ordinanza-ingiunzione, ancorchè di importo superiore a 30.000.000 di lire, si riferiva a 428 violazioni singolarmente considerate e sanzionate, sicchè l’opposizione rientrava nella sua competenza per valore.

Il Giudice di pace ha ritenuto altresì manifestamente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, formulate dall’opponente in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 Cost., nella parte in cui non devolve al Tribunale la cognizione delle controversie aventi ad oggetto provvedimenti sanzionatori per importi superiori al limite di competenza del Giudice di pace.

In proposito, il Giudice di pace ha osservato che le sanzioni, ancorchè contenute in un unico provvedimento, mantengono la loro individualità e che sarebbe illogico far discendere la regola di determinazione della competenza dal fatto, del tutto casuale, che l’amministrazione contesti una pluralità di violazioni con un unico provvedimento, in tal modo eccedendo il limite della competenza per valore del Giudice di pace.

Il Giudice di pace ha poi ritenuto manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 27 e 76 Cost., anche la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 50 del 1992, artt. 4, 5 e 11, nella parte in cui non prevedono l’applicazione della continuazione al caso in cui venga posta in essere una pluralità di illeciti amministrativi della stessa indole, in violazione della normativa di cui al citato decreto legislativo e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso.

In proposito, il giudice dell’opposizione ha osservato che, vista la disomogeneità tra illeciti penali e illeciti amministrativi, rientra nella discrezionalità del legislatore la scelta di comminare sanzioni amministrative o penali con tutte le conseguenze che ne derivano, anche in tema di continuazione, e ha escluso la sussistenza anche della denunciata violazione della legge di delegazione, posto che la direttiva comunitaria, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 50 del 1992 in attuazione della L. n. 428 del 1990, imponeva al legislatore nazionale il perseguimento di un risultato, non precludendo che a tal fine il legislatore nazionale potesse introdurre discipline più rigorose di quella prevista in sede comunitaria.

Nel merito, il Giudice di pace ha rigettato il motivo formulato sul rilievo che le condotte contestate, lungi dall’essere una pluralità, erano in realtà riconducibili ad unità, atteso che la ratio del D.Lgs. n. 50 del 1992 è quella di tutelare il singolo consumatore e non la astratta comunità dei consumatori, essendo vietata proprio la conclusione dei singoli contratti mediante moduli predisposti in violazione della disciplina del medesimo decreto legislativo.

Il Giudice di pace ha rigettato anche la doglianza concernente il lamentato difetto di motivazione dell’ordinanza ingiunzione, ritenendo invece compiutamente assolto il detto onere sulla base dell’accertamento compiuto dalla Guardia di Finanza, al quale l’ordinanza-ingiunzione faceva riferimento.

Quanto alle censure concernenti il denunciato formalismo delle disposizioni violate, e segnatamente al rilievo che la sanzione era stata applicata anche per l’erronea indicazione delle fonte normativa applicabile, il Giudice di pace ha rilevato che i detti errori potevano ingenerare confusione nel consumatore sul proprio diritto di recesso, al quale faceva riferimento anche la locuzione che lo stesso "spetta all’avente diritto".

Quanto alla previsione che il recesso avrebbe dovuto essere esercitato con raccomandata semplice anzichè con avviso di ricevimento, il Giudice di pace ha ritenuto che la stessa fosse lesiva della posizione del contraente consumatore, in tal modo posto nella impossibilità di conoscere con esattezza e facilità il dies a qno del termine entro il quale l’operatore commerciale era tenuto a restituire le somme percepite; così come contrastante con le prescrizioni del D.Lgs. n. 50 doveva ritenersi il fatto che la clausola relativa al diritto di recesso fosse collocata sul retro della nota d’ordine, senza una collocazione differenziata rispetto alle altre condizioni generali di contratto, secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 2, del citato decreto legislativo.

Infine, il Giudice di pace ha ritenuto legittima la contestazione rivolta all’opponente di avere aggravato l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente con la clausola n. 9, la quale faceva dipendere la decadenza dal diritto di recesso dalla mancata restituzione, entro i sette giorni successivi alla sottoscrizione del contratto, della merce eventualmente già ritirata dal committente, dovendosi escludere che la mancata restituzione della merce possa porre nel nulla il recesso già esercitato.

Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso TARGET s.n.c. sulla base di cinque motivi.

L’intimata Camera di Commercio non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 2, 3 e 5, la questione della costituzionalità della L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, sostenendo che il Giudice di pace, rifiutando di sollevare la questione di legittimità costituzionale di detta norma, non avrebbe fatto adeguata applicazione degli artt. 3, 24 e 113 Cost., nonchè del principio di ragionevolezza e di quello di proporzionalità. In particolare, il Giudice di pace non avrebbe prestato attenzione nè alla ratio della attribuzione di alcune delle controversie al Giudice di pace, ad esclusione di quelle, di competenza del Tribunale, in cui la sanzione sia di rilevante valore economico, nè al fatto che la sanzione in concreto applicata era di natura proporzionale.

1.1. Il motivo è infondato;

Correttamente il Giudice di pace, adeguandosi peraltro alla conforme decisione del Tribunale di Padova sul punto, ha affermato la propria competenza per valore, atteso che, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, ai fini della determinazione della competenza per valore nei giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, non rileva la circostanza che il provvedimento sanzionatorio abbia ad oggetto una pluralità di violazioni e che per effetto della somma degli importi delle sanzioni applicabili per ciascuna violazione, si abbia un importo superiore a quello della competenza del Giudice di pace.

Invero, l’attribuzione della competenza al Tribunale postula che l’illecito consista nella "violazione" per la quale è prevista una sanzione superiore nel massimo a Euro 15.493, risultando così evidente che ciò a cui deve aversi riguardo è il massimo edittale della sanzione prevista per la singola violazione contestata.

Devono quindi condividersi le ragioni in base alle quali il Giudice di pace ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dall’opponente. Del resto, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 370 del 2007, ha avuto modo di dichiarare manifestamente infondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale della L. n. 689, art. 22 bis, nella parte in cui non prevede che la competenza a conoscere delle opposizioni avverso ordinanze-ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative spetti al Tribunale, anzichè al Giudice di pace, quando, per ragioni di connessione soggettiva ed oggettiva, il valore della causa di opposizione a varie ordinanze- ingiunzione superi il complessivo importo di lire trenta milioni.

Conclusione, questa, cui la Corte costituzionale è pervenuta sulla base del rilievo che la competenza va determinata tenendo conto solo della sanzione prevista per la singola violazione – trattandosi di competenza per materia con limite di valore – e che la riunione di procedimenti relativi a cause connesse ex art. 274 cod. proc. civ. non è nient’altro che una misura organizzativa del lavoro giudiziario, inidonea a superare l’autonomia dei singoli giudizi, non essendo possibile porre sullo stesso piano la posizione di chi sia destinatario di un’unica sanzione pecuniaria di importo superiore alla soglia di competenza del giudice onorario e quella di chi sia invece destinatario di tante sanzioni pecuniarie, ciascuna di importo edittale inferiore. La L. n. 689 del 1981, art. 22-bis, comma 3, lett. a), – ha affermato la Corte costituzionale – è norma speciale rispetto a quella dell’art. 10 c.p.c., comma 2, il quale, pertanto, non si applica nel caso in cui in un giudizio vengano riunite più opposizioni avverso distinte ordinanze-ingiunzioni tutte relative a violazioni per le quali è prevista una sanzione di importo inferiore, nel massimo, ad Euro 15.493, nè nel caso in cui l’ordinanza-ingiunzione sia unica, ancorchè di importo superiore ad Euro 15.493 per effetto della somma delle sanzioni dovute per ciascuna delle singole violazioni contestate.

In proposito, deve ricordarsi che questa Corte ha del resto chiarito che "in materia di opposizione a sanzioni amministrative, la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22-bis, introdotto dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, attribuisce la competenza al Tribunale, in luogo del Giudice di pace, se per la violazione è prevista una sanzione pecuniaria superiore nel massimo a lire trenta milioni (comma 3, lettera a), facendo riferimento alla pena edittale e non alla pena in concreto irrogata, come del resto si ricava dall’attribuzione della competenza al Tribunale anche quando (lettera b), essendo la violazione punita con sanzione pecuniaria proporzionale senza previsione di un limite massimo, è stata applicata una sanzione superiore a lire trenta milioni, che è quindi la sola ipotesi nella quale si ha riguardo alla pena in concreto irrogata per determinare il tetto, oltre il quale scatta la competenza del Tribunale" (Cass. n. 18636 del 2006).

Le diverse argomentazioni sostenute dalla ricorrente non appaiono idonee ad indurre dubbi tali da ipotizzare di dover investire nuovamente la Corte costituzionale della suddetta questione, atteso che i parametri evocati non sono pertinenti, non risultando chiaramente evidenziati i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione rispetto ai quali la scelta del legislatore delegato si porrebbe in contrasto, e non essendo pertinente, trattandosi di disciplina della competenza in ordine al giudizio di opposizione in materia di illeciti amministrativi, il parametro di cui all’art. 27 Cost..

2. Con il secondo motivo, la ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si duole del fatto che il Giudice di pace abbia negato l’unitarietà della condotta sanzionata, sostenendo che l’interesse protetto dalla normativa violata sarebbe piuttosto quello della collettività dei consumatori che non quello del singolo consumatore, come chiaramente desumibile dalla normativa comunitaria, sicchè la condotta sanzionabile sarebbe costituita non dalla sottoscrizione del singolo contratto, ma dal complessivo comportamento dell’imprenditore che tale interesse ha violato.

2.1. Il motivo è infondato, atteso che, come esattamente osservato dal giudice del merito, la ratio della tutela del consumatore, introdotta in attuazione della disciplina comunitaria con il D.Lgs. n. 50 del 1992 (ratione temporis applicabile, pur se abrogato dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 146, il quale ha tuttavia recepito all’interno del Codice del consumo le disposizioni relative ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali e all’esercizio del diritto di recesso), è quella di proteggere il singolo consumatore e non già quella di apprestare una tutela a favore della categoria dei consumatori, il che esclude che, a fronte di reiterate negoziazioni effettuate in violazione delle regole di derivazione comunitaria poste a tutela del singolo consumatore, possa ritenersi la unicità della condotta illecita.

In proposito, giova ricordare che questa Corte, sia pure con riferimento alle pratiche bancarie, ha avuto modo di chiarire che "la violazione amministrativa consistente nell’omessa indicazione negli atti e nella corrispondenza delle società di capitali, dell’ammontare del capitale sociale effettivamente versato, prevista dall’art. 2250 c.c., comma 2 e art. 2627 c.c. (nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 61 del 2002), tutela l’esigenza (derivante da obblighi comunitari) di mettere in condizione i clienti di conoscere la consistenza patrimoniale della società, sicchè l’illecito si consuma non già nella predisposizione unitaria e generalizzata di stampati e atti per una serie indeterminata di contrattazioni, bensì ogni qual volta, per una operazione commerciale, i singoli stampati ed atti vengano utilizzati senza le indicazioni anzidette. Ne consegue che, in tali ipotesi, non è applicabile nè la L. n. 689 del 1981, art. 8, in quanto relativo alla diversa fattispecie del concorso formale, eterogeneo od omogeneo, che postula l’unicità dell’azione o omissione produttiva di una pluralità di violazioni, nè l’istituto della continuazione, previsto soltanto per gli illeciti previdenziali" (Cass. n. 6194 del 2011).

Tale principio appare applicabile anche al caso delle violazioni previste e sanzionate dal D.Lgs. n. 50 del 1992, nelle quali, quindi, ciò che rileva non è la predisposizione di un modulo utilizzabile innumerevoli volte, ma la concreta utilizzazione del singolo modulo, sanzionabile ogniqualvolta il modulo stesso non sia rispondente alle prescrizioni legislative.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente sostiene la illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 11, per violazione degli artt. 3, 27 e 76 Cost., sul rilievo che la citata disposizione, ove interpretata nel senso fatto proprio dal Giudice di pace, secondo cui l’interesse protetto sarebbe quello dei singoli consumatori e non quello collettivo dei consumatori, irragionevolmente finirebbe con il sanzionare più gravemente gli illeciti amministrativi rispetto a quelli penali, non essendo per i primi previsto l’istituto della continuazione.

3.1. Il motivo è infondato.

Premesso che la determinazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni, siano esse penali o amministrative, rientra nella più ampia discrezionalità legislativa, deve qui rilevarsi che non sussiste in alcun modo la violazione dei principi e criteri direttivi della delega contenuta nella L. n. 428 del 1990. Questa, all’art. 2, comma 1, lett. d), disponeva infatti, quale criterio direttivo per l’esercizio della delega che "saranno previste, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, salve le norme penali vigenti, norme contenenti le sanzioni amministrative e penali, o il loro adeguamento, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi, nei limiti, rispettivamente, della pena pecuniaria fino a lire 100 milioni, dell’ammenda fino a lire 100 milioni e dell’arresto fino a tre anni, da comminare in via alternativa o congiunta. Le sanzioni penali saranno previste solo nei casi in cui le infrazioni alle norme di attuazione delle direttive ledano interessi generali dell’ordinamento interno, individuati in base ai criteri ispiratori della L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 34 e 35. Di norma sarà comminata la pena dell’arresto o dell’ammenda. La pena dell’ammenda sarà comminata per le infrazioni formali, la pena dell’arresto e dell’ammenda per le infrazioni che espongono a pericolo grave ovvero a danno l’interesse protetto".

Come si vede, non solo la legge di delegazione rimetteva al legislatore delegato la previsione delle sanzioni e la scelta dell’adozione di una sanzione penale o amministrativa, ma esprimeva anche il criterio che la sanzione penale avrebbe potuto essere adottata solo per il caso in cui la violazione ledesse interessi generali dell’ordinamento, individuati mediante il riferimento alla L. n. 689 del 1981, artt. 34 e 35, e cioè interessi presidiati da disposizioni di carattere penale, escluse dalla depenalizzazione disposta dalla medesima L. n. 689 del 1981, nonchè violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatoria. La scelta del legislatore delegato era dunque orientata nel senso di introdurre, a presidio dei precetti introdotti dai decreti legislativi attuativi di direttive comunitarie, nel senso della configurazione delle dette violazioni quali illeciti amministrativi.

Nel caso di specie, dunque, risulta del tutto infondata la denunciata violazione dell’art. 76 Cost..

3.2. Manifestamente infondata è altresì la denunciata irragionevolezza della scelta del legislatore, sotto il profilo della mancata previsione dell’istituto della continuazione in tutte le ipotesi di illecito amministrativo.

In proposito, deve rilevarsi che le considerazioni della ricorrente muovono da una premessa – quella secondo cui la sanzione amministrativa potrebbe in ipotesi essere più grave di quella penale – che si rivela erronea, atteso il diverso ambito di operatività delle sanzioni amministrative e di quelle penali e l’incidenza di queste ultime sulla dignità delle persone, laddove quelle amministrative non attingono, secondo il comune sentire, il medesimo disvalore e la medesima incidenza sul profilo della dignità della persona.

Risulta, quindi, fuorviante la prospettiva dalla quale muove la ricorrente, e cioè che la eventuale qualificazione delle violazioni sanzionate dal D.Lgs. n. 50 del 1992 come illeciti penali avrebbe avuto conseguenze meno pregiudizievoli per il contravventore, stante la possibile applicazione, in quel caso, dell’istituto della continuazione, invece esclusa, salvo che per le violazioni considerate dalla L. n. 689 del 1981, art. 8 bis, nel caso dell’illecito amministrativo.

Del resto, questa Corte ha già avuto modo di affermare che "in tema di sanzioni amministrative, la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 8 prevede che salve le ipotesi di cui al comma 2, in materia di violazione delle norme previdenziali ed assistenziali la sanzione più grave aumentata fino al triplo può essere irrogata nei soli casi di concorso formale, senza che possa ritenersi applicabile il medesimo meccanismo sanzionatorio alla fattispecie della continuazione di cui all’art. 81 c.p., comma 2; la disciplina di cui al citato art. 8 che non subisce deroghe neppure in base alla successiva previsione di cui all’art. 8 bis della medesima legge, che ha introdotto, in tema di sanzioni amministrative, il corrispondente di alcune forme di recidiva penale non configura alcuna ipotesi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto alle sanzioni penali, attesa la diversità dei due tipi di violazione" (Cass. n. 5252 del 2011).

In motivazione, e sotto questo ultimo profilo, si è rilevato che la questione di costituzionalità – per supposta violazione dell’art. 3 Cost. – appare manifestamente infondata, anche con riguardo all’indicato parametro normativo di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 8 bis, dovendosi riconfermare il principio secondo cui, in ipotesi di pluralità di illeciti amministrativi in violazione della medesima norma, ciascuna infrazione è assoggettabile a sanzione, non essendo in tal caso applicabile la L. n. 689 del 1981, art. 8 (riferentesi alla diversa ipotesi in cui le violazioni siano state commesse con un’unica azione od omissione), nè essendo estensibili agli illeciti amministrativi i 4 principi in tema di continuazione riguardanti esclusivamente la materia penale, senza che, peraltro, per la mancata previsione della continuazione in subiecta materia, possa configurarsi un’ipotesi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della disparità di trattamento, giacchè tale disparità rispetto alle violazioni penali, come già rilevato dalla Corte Costituzionale (con la sentenza n. 421 del 1987 e le ordinanze n. 468 del 1989 e n. 23 del 1995), trova giustificazione proprio nella diversità dei due tipi di violazione.

3.3. Quanto, infine, alla denunciata violazione dell’art. 27 Cost., appare del tutto evidente la non pertinenza dell’evocato parametro, atteso che, per consolidata giurisprudenza costituzionale, esso si riferisce alle sole sanzioni penali e non trova applicazione con riferimento all’illecito amministrativo.

4. Con il quinto motivo, TARGET s.n.c. censura la sentenza impugnata per non avere accolto il motivo di opposizione relativo al difetto di motivazione dell’ordinanza-ingiunzione.

5.1. Il motivo è infondato alla luce del principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui "in tema di opposizione ad ordinanza ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative – emessa in esito al ricorso facoltativo al Prefetto ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 204, ovvero a conclusione del procedimento amministrativo L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 18 – i vizi di motivazione in ordine alle difese presentate dall’interessato in sede amministrativa non comportano la nullità del provvedimento, e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio di opposizione non ha ad oggetto l’atto, ma il rapporto, con conseguente cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), in quanto riproposte nei motivi di opposizione, decidendo su di esse con pienezza di poteri, sia che le stesse investano questioni di diritto che di fatto" (Cass., S.U., n. 1786 del 2010).

Nella specie, la ricorrente si limita a dolersi della mancata risposta del Giudice di pace alla denunciata carenza di motivazione dell’ordinanza-ingiunzione, ma omette sia di indicare le ragioni per le quali aveva ritenuto che il provvedimento sanzionatorio fosse privo di motivazione, sia e soprattutto di rilevare che il Giudice di pace ha ritenuto in concreto il detto provvedimento motivato e ha anche osservato che l’opponente aveva avuto modo di svolgere compiutamente le proprie difese. Con riferimento a tale ultima affermazione della sentenza impugnata il motivo di ricorso non solleva alcuna censura, sicchè deve ritenersi che il Giudice di pace abbia compiutamente esaminato tutte le ragioni di opposizione in quella sede proposte, rigettandole con motivazione, per questo specifico profilo, non idoneamente censurata.

5. Con l’ultimo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere ritenuto che le violazioni formali accertate comportassero una limitazione del diritto di recesso del contraente debole; limitazione che, nel caso di specie, non era stata in alcun modo dimostrata, essendosi al contrario verificatisi numerosi casi di recesso.

6.1. Il motivo è inammissibile.

Il Giudice di pace ha con motivazione congrua e logica, immune dai denunciati vizi, accertato e apprezzato che i moduli predisposti della società della quale l’opponente era legale rappresentante non fossero, sia per la composizione grafica, sia per il contenuto di alcune clausole, idonei ad assicurare la effettività della informazione del contraente in ordine al diritto di recesso e alle modalità del suo esercizio.

Nella sentenza impugnata non vi è invece alcun riferimento alla questione, prospettata con il motivo in esame, dell’avvenuto esercizio, da parte di alcuni dei consumatori, del diritto di recesso.

La ricorrente, nella parte introduttiva del ricorso, a pag. 13, ha dedotto di avere evidenziato che nel corso del procedimento amministrativo era stata documentata la circostanza che si erano verificati numerosi recessi, e segnatamente 700 a fronte dei 428 contratti oggetto di contestazione.

E’ agevole a questo punto rilevare, da un lato, che il numero di recessi si riferisce, all’evidenza, a tutta l’attività commerciale della società e non già segnatamente ai 428 contratti redatti su moduli non conformi alle prescrizioni normative; dall’altro, che la censura che la ricorrente avrebbe dovuto proporre era quella di omessa pronuncia, deducibile ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, e non già quella proposta, di violazione di legge e vizio di motivazione.

E’ noto, infatti, che l’omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, deve essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e non già con la denunzia della violazione di differenti norme di diritto processuale o di norme di diritto sostanziale ovvero del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 (tra le tante, Cass. n. 24856 del 2006; Cass. n. 3190 del 2006; Cass. n. 12366 del 1999).

Perchè, poi, possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente e inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria e ineludibile, e, dall’altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo del giudizio di secondo grado nel quale l’una o l’altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di legittimità di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività della proposizione nel giudizio a quo e, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi.

Nel caso di specie, gli indicati requisiti non si rinvengono.

Peraltro, quand’anche volesse scrutinarsi il denunciato vizio di motivazione, non potrebbe non rilevarsi che nella sentenza impugnata non si rinviene l’affermazione sulla quale si appuntano le censure della ricorrente, e cioè quella che "la circostanza dell’alto numero dei recessi non costituiva specifico punto cui rispondere, ma una circostanza che avrebbe dovuto comprovare un argomento altrimenti confutato dalla Camera di Commercio nel provvedimento impugnato".

Anche da questo punto di vista, dunque, la censura si appalesa del tutto incoerente rispetto al contento effettivo della sentenza impugnata.

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Non avendo l’amministrazione intimata svolto attività difensiva in questa sede, non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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