T.A.R. Piemonte Torino Sez. II, Sent., 09-11-2011, n. 1185 Armi da fuoco e da sparo Detenzione abusiva e omessa denuncia Porto abusivo di armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con due provvedimenti datati 13 settembre 2010, entrambi di numero prot. Cat.6.F/2010, il Questore della Provincia di Torino ha revocato la "validità della licenza di porto di fucile per uso tiro a volo", di cui era titolare il sig. G.C., ed ha respinto l’istanza, dal medesimo presentata, di rilascio della licenza di porto di fucile per uso caccia.

La motivazione di entrambi gli atti è incentrata sul "venir meno del requisito di affidabilità" in capo al sig. C.. In particolare, le determinazioni del Questore prendono le mosse dalla nota informativa redatta in data 12 febbraio 2010 dai Carabinieri di Volpiano, dalla quale si evince – come si legge – che il sig. C. "è solito accompagnarsi con pregiudicati e che il di lui cognato, benché non convivente, è affetto da gravi pregiudizi di natura penale". Si legge, inoltre, che "la vita relazionale del sunnominato non consente di escludere che possano verificarsi abusi del titolo autorizzatorio in questione" e che "non è irragionevole ritenere che le persone collegate per parentela ed affinità con il sunnominato possano usare pressioni a vario titolo al fine di utilizzare o fare utilizzare le armi da parte di questi".

2. Con il ricorso in epigrafe il sig. C. ha chiesto l’annullamento dei due atti, previa sospensione cautelare.

Egli contesta, con un primo motivo, sia il difetto di istruttoria e di motivazione – posto che entrambi i provvedimenti non indicano né quali sono i pregiudicati che il ricorrente frequenterebbe, né le circostanze di tempo e di luogo delle presunte frequentazioni, né le condotte concrete addebitabili al ricorrente – sia la violazione dell’art. 10bis della legge n. 241 del 1990, avendo l’amministrazione "ignorato" le controdeduzioni che erano state presentate nel corso del procedimento.

Con un secondo motivo, poi, si contesta la motivazione "solo apparente" che ha condotto a ritenere l’inaffidabilità del ricorrente, posto che i precedenti penali del cognato (che il sig. C. "ha occasione di incontrare per inevitabili ragioni di famiglia ma con cui non condivide interessi di alcun tipo"), "senza che siano evidenziati rapporti tali (di convivenza, di carattere lavorativo o di altro tipo di cointeressenza) tali da far dubitare del corretto uso del titolo da parte del richiedente, non possono giustificare da soli una prognosi di temibile abuso dello stesso". L’amministrazione non avrebbe, infatti, accertato "in concreto che i vincoli di affinità (…) comportino la probabilità di abuso delle armi".

3. L’amministrazione intimata, pur ritualmente evocata in giudizio, non si è costituita.

4. Alla camera di consiglio del 23 febbraio 2011, chiamata per la discussione dell’incidente cautelare, il ricorrente ha rinunciato alla sospensiva.

La causa è stata, quindi, chiamata per la discussione in pubblica udienza il 26 ottobre 2011, con contestuale passaggio in decisione.

5. Il ricorso è fondato.

Coglie nel segno la censura di difetto di motivazione, entrambi i provvedimenti mostrandosi carenti lungo l’intero versante dei presupposti di fatto in base ai quali essi sono stati adottati. Il venir meno del requisito dell’"affidabilità" in capo all’interessato (requisito di cui all’art. 43, comma 2, del r.d. n. 773 del 1931) è stato, invero, argomentato unicamente per le non meglio specificate "frequentazioni con pregiudicati" del ricorrente e per la mera esistenza di un suo rapporto di affinità con altro pregiudicato (il cognato).

Il giudizio di affidabilità devoluto dalla norma all’autorità amministrativa, connotato di per sé da un’ampia latitudine di apprezzamento, esige – proprio per tale ragione – una specificazione motivazionale rigorosa, al fine di non confliggere con inderogabili esigenze di determinatezza e perché sia evitato il pericolo di sconfinare nell’arbitrio (cfr. già Corte cost., sent. n. 440 del 1993). Sulla base di tali indicazioni di carattere generale, appare evidente che, da un lato, non può ritenersi soddisfacente la mera indicazione, non circostanziata, di "cattive frequentazioni" in cui sia incorso l’interessato, non consentendo essa, a tutta evidenza, l’esercizio del diritto di difesa in capo a quest’ultimo, il quale non è così messo nelle condizioni di poter controdedurre in ordine alle effettive sue conoscenze e frequentazioni: egli, al contrario, sarà così chiamato, di fatto, a dimostrare qual è il proprio stile di vita e le proprie abitudini, con un sostanziale capovolgimento dell’onere della prova. In altre parole, mediante la semplice allegazione delle cattive frequentazioni, si mette illegittimamente l’interessato nella condizione di dover provare di tenere, al contrario, una condotta irreprensibile ed esente da mende, così riesumando, in modo surrettizio, l’onere di provare la propria buona condotta (elemento che, invece, è stato espunto dalla formulazione dell’art. 43, comma 2, del r.d. n. 773 del 1931 a seguito della già richiamata sentenza di incostituzionalità n. 440 del 1993).

Dall’altro lato, è altresì evidente che l’esistenza di un rapporto di affinità con altro pregiudicato non può essere presa, di per sé sola, quale indice sintomatico di devianza dalla legalità, in assenza di specifici fatti dai quali si possa dedurre, con ragionevole certezza, la sussistenza di un pericolo connesso con la detenzione di armi. Sul punto, i provvedimenti del Questore si limitano a riferire, in modo del tutto astratto, che la "vita relazionale" del ricorrente "non consente di escludere che possano verificarsi abusi", ovvero che le persone collegate per parentela ed affinità possono, in via generale ed astratta, "usare pressioni a vario titolo al fine di utilizzare o fare utilizzare le armi". In assenza di elementi concreti, che riguardino la persona dell’interessato e che siano specificamente riportati nell’atto (come, ad esempio, episodi che si sono verificati o altre situazioni di fatto dalle quali far discendere il pericolo di abuso delle armi), non è infatti possibile trasformare quelle generiche (ed astrattamente condivisibili) affermazioni in elementi atti a giustificare il provvedimento interdittivo: diversamente, rimarrebbe irrimediabilmente violato l’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990, perché alle (pur astrattamente condivisibili) ragioni giuridiche non sono affiancati né i presupposti di fatto che ne richiamano l’applicabilità né tantomeno le risultanze dell’istruttoria.

In conclusione, deve considerarsi illegittimo quel provvedimento negativo che ometta di indicare le circostanze di fatto ritenute preclusive ovvero si limiti ad indicare le dette circostanze senza procedere alle dovute valutazioni (cfr., ancora, la complessiva ratio della sentenza della Corte costituzionale n. 440 del 1993).

In applicazione della presente sentenza, pertanto, l’amministrazione, nel caso di un eventuale rinnovo dei provvedimenti negativi qui gravati, dovrà adeguatamente illustrare, con maggiore dettaglio ed in relazione alle risultanze dell’istruttoria, i presupposti fattuali in base ai quali si ritiene, nel caso specifico, la "non affidabilità" del ricorrente nell’uso delle armi, ai sensi dell’art. 43, comma 2, del r.d. n. 773 del 1931, nel testo risultante dalla sentenza di incostituzionalità n. 440 del 1993.

Sono da considerarsi assorbiti gli altri motivi di gravame.

6. In considerazione della natura della presente controversia, il Collegio rinviene giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione seconda, definitivamente pronunciando,

Accoglie

il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati, nei sensi di cui in motivazione.

Compensa le spese tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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