Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-03-2012, n. 4081 Costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 5-6-2002 B.V. conveniva dinanzi al Tribunale di Brescia B.G. e S.G., assumendo che questi ultimi, proprietari di un’unità immobiliare confinante con quella dell’istante, nel 1987 avevano costruito una scala a pochi centimetri dal confine, violando le norme del P.R.G. del Comune di Bovezzo, che prevedevano una distanza minima di cinque metri dal confine, nonchè il disposto dell’art. 907 c.c., in materia di vedute. L’attrice affermava, inoltre, che nel 1999 i convenuti avevano sopraelevato il tetto di copertura della loggia, alterando il decoro esterno dell’edificio comune e il corretto deflusso delle acque piovane, che ristagnavano e impregnavano le pareti del sottostante appartamento di sua proprietà. Essa, pertanto, chiedeva la condanna dei resistenti alla demolizione dei manufatti realizzali e al risarcimento dei danni.

Con sentenza del 1-9-2008 il Tribunale adito, accertato che la scala dei convenuti era stata realizzata in violazione delle norme del P.R.G. del Comune di Bovezzo, degli artt. 872-873 c.c.. e dell’art. 907 c.c. in materia di distanze dalle venute, condannava il B. e la S. alla rimozione di tale manufatto; accertato che la realizzazione del tetto di copertura della loggia aveva creato un pregiudizio alla proprietà dell’attrice, ordinava ai convenuti di eseguire le opere atte alla completa autonomia dei manufatti delle parti, così come descritto nella parte motiva.

Avverso la predetta decisione proponevano appello il B. e la S..

Con sentenza depositata il 28-4-2010, in parziale accoglimento del gravame, respingeva le domande di demolizione della copertura della loggia di proprietà dei convenuti, condannando questi ultimi al pagamento dei due terzi delle spese di doppio grado e dichiarando tali spese compensate per il resto.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono il B. e la S., sulla base di due motivi.

La B. resiste con controricorso, contenente altresì ricorso incidentale, affidato a un unico motivo.

In prossimità dell’udienza i ricorrenti hanno depositato una memoria.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 7.01 delle n.t.a. del P.R.G. del Comune di Bovezzo approvato il 22-12-2000, il quale esclude dal computo delle distanze le scale esterne sporgenti meno di m. 1,50 dal filo di facciata. Nel premettere che la scala per cui è causa è stata realizzata nel 1985, sostengono che in forza di tale ius superveniens, applicabile nella fattispecie in quanto meno restrittivo, la scala esterna realizzata dai ricorrenti, avendo una sporgenza di m. 1 dal muro del fabbricato dei convenuti, non è rilevante ai fini del calcolo della distanza dal confine con la proprietà B..

Il motivo è infondato.

E’ vero che, secondo il costante orientamento di questa Corte, in caso di successione nel tempo di norme edilizie, la nuova disciplina meno restrittiva è applicabile anche alle costruzioni realizzate prima della sua entrata in vigore, con l’unico limite dell’eventuale giudicato formatosi nella controversia sulla legittimità o non della costruzione, e che dunque non può disporsi la demolizione, per quanto di ragione, degli edifici originariamente illeciti alla stregua delle precedenti norme, nella misura in cui siano consentiti dalla normativa sopravvenuta (Cass. 15-6-2010 n. 14446; Cass. 22/10/2007 n. 22086; Cass. 3-2-1998 n. 1047; Cass. 22-2-1996 n. 1368).

Nella specie, tuttavia, deve escludersi che la scala realizzata nel 1985 dal B. e dalla S. abbia le caratteristiche necessarie per essere considerata legittima alla luce del nuovo piano regolatore generale del Comune di Bovezzo approvato il 22-12-2000.

I ricorrenti invocano l’art. 7.01 delle n.t.a. di tale P.R.G., a mente del quale le distanze sono misurate a partire dal filo di facciata più sporgente dai fabbricati, o dagli elementi (quali balconi, scale esterne, pensiline, gronde in muratura ecc.) sporgenti più di m. 1,50 dal filo di facciata, per desumerne che la scala esterna in questione, avendo una sporgenza di m. 1, non è rilevante ai fini del calcolo della distanza dal confine con la proprietà B..

Deve però osservarsi che il successivo art. 7.03 prescrive una distanza minima assoluta delle costruzioni dai confini di m. 5.

Orbene, ponendo in collegamento le due norme, appare corretta la valutazione espressa dai giudici di merito, secondo cui il nuovo piano regolatore, nel mantenere invariata (salvo diverso accordo tra le parti, nella specie non risultante) la distanza minima di m. 5 dai confini prevista dal piano regolatore vigente all’epoca della costruzione, consente la realizzazione di sporti, non rilevanti ai fini delle distanze se sporgenti fino a m. 1,50 dalle facciate, sempre che tali facciate siano poste a metri 5 dal confine.

Nel caso in esame, in base a quanto accertato dalla Corte territoriale con apprezzamento in fatto non sindacabile in questa sede, tale condizione non sussiste.

Ne consegue che la scala in questione, che secondo quanto si evince dalla lettura della sentenza impugnata e dello stesso ricorso, si spinge fino alla linea di confine con il lotto della B., pur i avendo una sporgenza inferiore a m. 1,50 dalla facciata del fabbricato B. – S., non può ritenersi legittima alla luce della sopravvenuta normativa regolamentare. Legittimamente, pertanto, i giudici di merito hanno disposto la demolizione del predetto manufatto, atteso che le norme del piano regolatore generale e quelle tecniche di attuazione dello stesso relative alle distanze da osservarsi nelle costruzioni, in quanto volte a disciplinare l’attività della P.A. per un migliore assetto dell’agglomerato urbano ed i rapporti di vicinato tra privati in modo equo, sono fonti normative che integrano quelle del codice civile ex art. 873 c.c., facendo sorgere a favore del vicino danneggiato dalla nuova costruzione il diritto di chiedere la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 872 c.c. (tra le tante v. Cass. 11-1-2006 n. 213; Cass. 1/8/2001 n. 10471).

2) Il rigetto del primo motivo di ricorso principale comporta l’assorbimento del secondo, con il quale il B. e la S., lamentando la violazione dell’art. 905 c.c., in relazione all’art. 900 c.c., censurano la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che dal ballatoio della scala esterna da essi realizzata è possibile esercitare una veduta diretta sulla proprietà dell’attrice.

Una volta accertato, infatti, che la scala dei convenuti è stata realizzata in violazione delle norme sulle distanze dai confini e deve essere, pertanto, demolita, si rivela del tutto superfluo verificare se dal suo ballatoio possa o meno esercitarsi una veduta sulla proprietà contigua.

3) Con l’unico motivo di ricorso incidentale, articolato in tre ordini di censure, la B. denuncia la violazione degli artt. 726, 727 e 728 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione.

Lamenta, in primo luogo, che il Tribunale, pur avendo ritenuto che le opere realizzate dai convenuti sul tetto e sulle gronde avevano determinato un pregiudizio per la proprietà della B., non aveva ordinato la demolizione della copertura della loggia, invocata dall’attrice, ma aveva optato per l’adozione di misure meno gravose, disponendo l’esecuzione delle opere indicate in motivazione. Sostiene che la Corte di Appello, nel rigettare la domanda di demolizione, ha impropriamente "riformato" la sentenza di primo grado su un punto dalla stessa non disposto, incorrendo nel vizio di ultrapetizione. In secondo luogo, si duole del mancato accoglimento del motivo di gravame tendente ad ottenere il risarcimento, quanto meno in via equitativa, dei danni derivanti dall’arbitraria modifica del tetto e del sistema di gronde. Infine, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la compensazione per un terzo delle spese di doppio grado e di consulenza tecnica d’ufficio, pur essendo i convenuti risultati totalmente soccombenti in primo grado.

4) Il motivo è infondato, in tutte le sue articolazioni.

Premesso che le norme sostanziali di cui viene dedotta la violazione (dettate in materia di divisione ereditaria) appaiono del tutto inconferenti in relazione alle questioni trattate nel presente giudizio, si osserva, quanto alla prima censura, che non sussiste il dedotto vizio di ultrapetizione.

E’ pacifico che con la sentenza di primo grado il Tribunale, accertato che la realizzazione del tetto di copertura della loggia del B. e della S. aveva creato un pregiudizio alla proprietà dell’attrice, aveva ordinato ai convenuti di eseguire le opere atte alla completa autonomia dei manufatti delle parti, dettagliatamente descritte in motivazione. Dalla lettura della sentenza di appello si evince che gli appellanti principali, con il secondo motivo di gravame, avevano impugnato tale statuizione (v. pag. 9), chiedendo nelle conclusioni (v. pag. 2) che, in totale riforma della sentenza impugnata, venissero rigettate tutte Se domande proposte dalla controparte.

La Corte di Appello ha ritenuto fondate le censure mosse dagli odierni resistenti, sul rilievo che il dedotto pericolo di infiltrazioni di acqua nel fabbricato della B. doveva ritenersi meramente teorico, mancando la prova di danni effettivamente cagionati al predetto edificio in conseguenza dell’intervento praticato dai convenuti sul loro tetto; e, di conseguenza, in parziale accoglimento dell’appello, ha rigettato "le domande di demolizione della copertura della loggia" proposte dalla B..

Tale pronuncia, pertanto, è stata resa in relazione ad uno specifico motivo di gravame, che investiva una statuizione del giudice di primo grado avente natura comunque demolitoria, avendo condannato i convenuti all’esecuzione di opere dirette al ripristino dell’originario assetto del tetto di loro proprietà; tant’è che la stessa Corte territoriale, nell’esaminare l’appello incidentale proposto dalla B., ha ritenuto palesemente infondata "la doglianza volta ad ottenere un intervento demolitorio del tetto di parte appellante ancora più incisivo rispetto a quello disposto dal primo giudice". 5) Quanto alla seconda censura, si osserva che la Corte di Appello, con motivazione esente da vizi logici, ha dato atto della mancanza di prova circa l’esistenza di effettivi danni derivati alla proprietà dell’attrice dall’intervento realizzato sul tetto dei convenuti, rilevando che il rischio di infiltrazioni di acqua piovana nell’appartamento della stessa costituisce una ipotesi dei tutto teorica.

Legittimamente, pertanto, il giudice del gravame ha disatteso il motivo di appello incidentale diretto ad ottenere la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, quanto meno in via equitativa.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, infatti, il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, che l’art. 1226 c.c., conferisce al giudice del merito, è rigorosamente subordinato al duplice presupposto che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che sia impossibile, o molto difficile, la dimostrazione dei loro preciso ammontare; sicchè esso non può essere esercitato per surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (Cass. 18-4-2007 n. 9244; Cass. 12-4-2006 n. 8615).

6) In ordine alla terza censura, si rammenta che, in tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della Corte di Cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio della soccombenza, da intendersi nel senso che soltanto la parte totalmente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse (Cass. 31-3-2006 n. 17457; Cass. 16-3-2006 n. 5828; Cass. 14-11-2002 n. 16012; Cass. 01/10/2002, n. 14095; Cass. 2-8-2002 n. 11537); e il suddetto criterio della soccombenza non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole (Cass., 11-1-2008 n. 406; Cass. 25/03/2002 n. 4201; Cass. 14-12-2000 n. 15787).

Nella specie, le statuizioni contenute nella sentenza impugnata non violano il principio della soccombenza, non essendo state le spese di doppio poste nemmeno parzialmente a carico dell’attrice, la quale, peraltro, all’esito finale della lite, può ritenersi parte solo parzialmente vittoriosa (essendo state disattese sia la domanda di demolizione della tettoia che quella di risarcimento danni).

7) In ragione della reciproca soccombenza delle parti, connessa al rigetto di entrambi i ricorsi, va disposta l’integrale compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta sia il ricorso principale che quello incidentale e compensa le spese del presente grado.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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