Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-03-2012, n. 4077 Divisione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 5-12-1984 V.G. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Treviso V. A., V.E. e F.M. e, premesso che in data (OMISSIS) era deceduto Ve.Ab. lasciando quali eredi le figlie G., A. ed E. ed usufruttuaria "pro quota" la moglie F.M., assumeva che la sorella A. aveva avuto in assegnazione la sua quota costituita da beni che le tre sorelle avevano venduto a terzi nel 1956, e che la stessa A. con dichiarazione del 27-2-1984 si era impegnata a non pretendere alcunchè sui beni residui ed a prestare il suo consenso alla divisione nel caso in cui le sorelle E. ed A. avessero deciso di dividere i restanti beni.

L’attrice chiedeva quindi che fosse disposta la divisione in ragione di un mezzo ciascuna dei beni ereditari tra l’esponente e la sorella E., previa resa del conto e fermo restando l’usufrutto "pro quota", capo alla madre F.M..

Si costituiva in giudizio V.E. chiedendo il rigetto delle domande attrici assumendo che tra le parti era già intervenuta la divisione in virtù di due contratti preliminari stipulati rispettivamente il 27-6-1952 ed il 2-5-1953; in particolare con il primo preliminare le tre sorelle, avvalendosi dell’opera del geometra B., avevano provveduto alla formazione di due lotti, dei quali il primo era stato assegnato all’esponente ed il secondo "pro indiviso" a V.G. ed a V.A., mentre con il secondo preliminare queste ultime avevano diviso tra di loro i beni costituenti il secondo lotto loro assegnato in forza del preliminare del 27-6-1952; successivamente i beni assegnati ad V.A. erano stati ceduti a terzi e le tre sorelle, essendo ancora cointestatarie dei beni, erano intervenute nell’atto di vendita onde prestare il loro consenso; dopo tale atto e l’avvenuto incasso del denaro ricavato da parte di V. A., V.G. ed V.E. avevano posseduto "uti dominae" ed in modo distinto i terreni a ciascuna assegnati.

V.E. formulava pertanto domanda riconvenzionale volta all’accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione dei beni a lei assegnati in base al preliminare del 27-6-1952 ed alla condanna dell’attrice al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c..

La convenuta con comparsa del 23-9-1992 chiedeva che fosse accertata la veridicità delle sottoscrizioni apposte ai contratti preliminari suddetti e che fosse conseguentemente dichiarata l’avvenuta divisione del compendio immobiliare in forza dei citati contratti.

Il giudice istruttore, a seguito delle contestazioni sollevate dalle parti, nominava tre periti calligrafi onde accertare la veridicità della firma apposta sui preliminari.

Nel corso del giudizio si costituiva V.A. dichiarando di non aver nulla a pretendere in ordine ai beni oggetto di causa avendo già ricevuto quanto le spettava in base ai contratti preliminari del 27-6-1952 e del 2-5-1953 e formulando "ad adiuvandum" le stesse domande svolte da V.E..

Con sentenza del 9-10-2003 il Tribunale adito rigettava le domande attrici, accertava la veridicità delle sottoscrizioni apposte alle convenzioni divisionali stipulate il 27-6-1952 ed il 2-5-1953, rigettava la domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento danni ex art. 96 c.p.c. e condannava l’attrice al rimborso delle spese di lite.

Avverso tale sentenza V.G. proponeva gravame citando in giudizio V.A., V.E. e, in qualità di eredi di F.M., V.A., V.E., Ve.Gi., V.E. e V.F.; resistevano in giudizio V.A. ed V.E. formulando altresì appello incidentale.

La Corte di Appello di Venezia con sentenza 6-7-2009, ogni altra domanda respinta, ha rigettato l’impugnazione ed ha condannato l’appellante al pagamento delle spese del grado in favore delle appellate.

Per la cassazione di tale sentenza V.G. ha proposto un ricorso articolato in sette motivi cui V.E. ed V.A. hanno resistito con controricorso proponendo altresì due ricorsi incidentali affidati rispettivamente a due e ad un motivo cui la ricorrente principale ha resistito a sua volta con controricorso; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione

Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.

E’ poi appena il caso di osservare che, contrariamente a quanto asserito dalla ricorrente principale, considerato che la sentenza impugnata è stata depositata il 6-7-2009, nella fattispecie non trova applicazione l’art. 366 bis c.p.c., abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d) a decorrere dal 4-7-2009.

Venendo quindi all’esame del ricorso principale, in via preliminare si rileva l’inammissibilità ai sensi dell’art. 372 c.p.c., della produzione, contestualmente alla memoria depositata ex art. 378 c.p.c., di documenti relativi ad alcune note di trascrizioni aventi ad oggetto gli immobili per cui è causa.

Ciò premesso, si osserva che con il primo motivo V. G., deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 184 c.p.c. (nel testo anteriore alla modifica introdotta dalla L. 26 novembre 1990, n. 535) e art. 112 c.p.c., assume che il giudice di appello, nel confermare la sentenza di primo grado in ordine all’accertamento della veridicità delle sottoscrizioni apposte sulle due citate convenzioni divisionali, non ha considerato che la domanda avente tale oggetto era stata introdotta da V.E. soltanto all’udienza del 23-9-1992, e che erroneamente ha ritenuto ammissibile tale domanda ex art. 184 c.p.c., nella precedente formulazione applicabile "ratione temporis", essendo ciò consentito soltanto per l’"emendatio" e non per la "mutatio libelli", non essendovi alcun dubbio che la pretesa introdotta con tale domanda era oggettivamente diversa da quella fatta valere originariamente con la domanda di usucapione, introducendo un tema d’indagine completamente nuovo.

La censura è infondata.

Premesso come dato pacifico che V.E. sia con l’originaria domanda di usucapione sia con la successiva domanda introdotta con la comparsa del 23-9-1992 aveva chiesto il riconoscimento della proprietà in proprio favore dello stesso immobile, sia pure adducendo titoli diversi l’uno dall’altro, si rileva che secondo l’orientamento consolidato di questa Corte la proprietà appartiene alla categoria dei diritti cosiddetti "autodeterminati", individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l’oggetto, sicchè nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la "causa petendi" si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda; ne consegue che l’allegazione nel corso di un giudizio di rivendicazione di un titolo diverso rispetto a quello posto inizialmente a fondamento della domanda costituisce soltanto una integrazione delle difese sul piano probatorio, integrazione non configurabile come domanda nuova, nè come rinuncia alla valutazione del diverso titolo dedotto in precedenza (vedi "exmultis" Cass. 30/12/2002 n. 18370; Cass. 5-11-2010 n. 22598).

Con il secondo motivo la ricorrente principale, deducendo omessa ed insufficiente motivazione, sostiene che la Corte territoriale ha completamente omesso di considerare il rapporto tra la domanda di usucapione originariamente proposta da V.E. e quella successiva di accertamento della autenticità delle sottoscrizioni apposte ai contratti del 27-6-1952 e del 2-5-1953, e di esporre le ragioni per le quali ha ritenuto la seconda domanda ammissibile ai sensi dell’art. 184 c.p.c. nella precedente formulazione.

La censura è inammissibile.

Considerato che con il motivo in esame la ricorrente principale prospetta un "error in procedendo", ovvero una violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, che deve quindi essere fatta valere soltanto ai sensi di tali disposizioni, è inammissibile il motivo di ricorso con il quale detta censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto o, come nella fattispecie, di vizio della motivazione (Cass. 27-1-2006 n. 1755; Cass. 19-1-2007 n. 1196).

Con il terzo motivo V.G., denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, assume che il giudice di appello, avendo confermato la sentenza di primo grado in ordine all’accertamento dell’autenticità delle sottoscrizioni apposte in calce ai contratti di divisione del 27/6/1952 e del 2-5-1953, contratti ritenuti "trascrivibili", non ha tenuto conto che l’accertamento e la declaratoria di autenticità di tali sottoscrizioni non era mai stata formulata al fine di procedere alla trascrizione dei contratti, posto che infatti non era stata avanzata alcuna domanda di trascrizione, ma all’espresso scopo di ottenere l’assegnazione in via esclusiva ad V.E. di una parte determinata dei beni ereditari.

La ricorrente principale inoltre assume che non era stata emessa alcuna statuizione sulla domanda dell’esponente di vedere riconosciuta anche in proprio favore, a fronte del proposto giudizio di divisione, una quota in proprietà esclusiva dei beni immobili cointestati.

La censura è infondata.

Sotto un primo profilo si rileva che la Corte territoriale, nel confermare integralmente la sentenza di primo grado, ha affermato in motivazione che "avendo il tribunale qualificato tali contratti come veri e propri contratti di divisione, di cui ha accertato l’autenticità nelle firme, null’altro doveva decidere, essendo tali contratti di divisione trascrivibili"; orbene, non avendo il giudice di appello disposto la trascrizione delle scritture private sopra menzionate, ma essendosi limitato ad evidenziare la loro trascrivibilità, non è comprensibile sotto quale aspetto ricorrerebbe il denunciato vizio di ultrapetizione, posto che del resto tale statuizione non incide sulla "ratio decidendi"; può comunque aggiungersi che colui il quale abbia acquistato un’immobile mediante scrittura privata non autenticata al fine di rendere opponibile tale acquisto ai terzi, deve esperire l’azione di accertamento giudiziale dell’autenticità delle sottoscrizioni trascrivendo la domanda ex art. 2652 c.c., n. 3, e, ottenuta la pronuncia favorevole, la scrittura privata divenuta titolo idoneo ex art. 2657 c.c., presentandola in originale o in copia autentica al Conservatore dei Registri Immobiliari (Cass. 7-11-2000 n. 14486), e tale rilievo conferma che l’eventuale trascrizione di detta scrittura, rimessa alla parte interessata in tal senso, non riguarda il giudice, e dunque configura una questione estranea all’oggetto del presente giudizio.

Quanto poi all’asserita omessa pronuncia sulla domanda di V. G. di attribuzione in proprio favore di una quota in proprietà esclusiva degli immobili cointestati, e quindi di scioglimento della comunione ereditaria sussistente tra le parti, è agevole rilevare che l’accoglimento di tale pretesa è stato precluso dall’accertamento in ordine alla veridicità delle sottoscrizioni apposte in calce alle convenzioni divisionali del 27-6-1952 e 2/5/1953; infatti tale statuizione, che ha accolto la domanda riconvenzionale di V.E. basata sull’assunto che le parti avevano già disposto la divisione negoziale degli immobili costituenti il compendio ereditario con le predette scritture private, ha comportato logicamente l’infondatezza della domanda di divisione giudiziale a suo tempo proposta dall’attuale ricorrente principale in quanto evidentemente incompatibile con la richiamata domanda riconvenzionale; del resto la sentenza impugnata, nel rigettare l’appello e nel confermare la sentenza di primo grado, ha espressamente chiarito in dispositivo che "ogni altra domanda" era "respinta".

Con il quarto motivo V.G., deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2657 c.c., e segg., in relazione all’art. 214 c.p.c., e segg. e art. 2697 c.c., rileva che la domanda di accertamento giudiziale delle sottoscrizioni ai fini della trascrivibilità delle scritture private non autenticate impone alla parte che la propone la produzione integrale in originale delle scritture medesime di cui si chiede l’accertamento e che poi dovranno essere presentate in originale o in copia autenticata al Conservatore dei Registri Immobiliari per la relativa trascrizione; nella specie, invece, per quanto concerne il contratto del 27-6-1952 non risulta mai essere stata prodotta la parte integrante dello stesso rappresentata dal frazionamento n. 8248 dell’Ufficio Tecnico di Treviso redatto dal geometra B. e firmato dalle parti, mentre riguardo al contratto del 2-5-1953 non risultano prodotti i frazionamenti e le quote che avrebbero dovuto essere eseguiti dal geometra B. come da accordi tra le parti.

La censura è inammissibile.

Invero, poichè la questione giuridica prospettata, che implica un accertamento di fatto, non risulta trattata dalla sentenza impugnata, la ricorrente, al fine di evitare una sanzione di inammissibilità per novità della censura, aveva l’onere – in realtà non assolto – non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di appello, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto, per dar modo a questa Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa.

Con il quinto motivo V.G., deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto l’autenticità delle sottoscrizioni apposte in calce alle scritture private sopra menzionate e attribuite all’esponente aderendo alle conclusioni di cui alla prima ed alla terza consulenza grafologica (rispettivamente redatte da D. D.F. e dalla dottoressa C.B.) senza tener conto nè dei rilievi critici dei consulenti di parte attrice (ovvero la dottoressa S. ed il prof. D.M.), nè degli argomenti addotti, a sostegno della falsità delle suddette firme, da parte della seconda CTU dottoressa Fo..

La censura è infondata.

Il giudice di appello ha rilevato che due delle tre consulenze tecniche d’ufficio espletate avevano dato risultati favorevoli in ordine all’autenticità delle sottoscrizioni apposte da V. G. in calce alle due scritture private, e che in particolare la terza consulenza redatta dalla dottoressa C. aveva esaminato e superato anche le indicazioni di segno opposto fornite dalla consulenza della dottoressa Fo. (attribuendo alla diversa penna usata, nell’un caso una penna biro e nell’altro una penna con pennino, le anomalie che quest’ultima consulente aveva indicato come ritocchi, aggiunte e ripassi); inoltre la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione di autenticità delle dette sottoscrizioni anche alla luce della valutazione delle deposizioni dei testi assunti, che avevano consentito di acclarare i fatti come si erano svolti dopo la stipula dei due contratti del 27-6-1952 e del 2-5- 1953, e che presupponevano la volontà delle parti di dare attuazione agli stessi, in particolare evidenziando la circostanza che V. E. si era comportata come unica proprietaria, di fronte ai terzi, dei beni a lei assegnati.

Pertanto la sentenza impugnata ha esaurientemente indicato le fonti del proprio convincimento, offrendo adeguata e logica motivazione delle ragioni per le quali ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni della seconda CTU, aderendo invece a quelle espresse dalle altre CTU; quanto poi alla dedotta mancata considerazione dei rilievi formulati dai consulenti di parte appellante, è sufficiente affermare che la consulenza di parte costituisce una semplice allegazione difensiva che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzare ed a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con essa incompatibili e conformi al parere del proprio consulente (Cass. 29/1/2010 n. 2063).

Con il sesto motivo la ricorrente principale, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg., nonchè vizio di motivazione, afferma che la Corte territoriale erroneamente ha confermato la natura di contratti di divisione con effetti reali invece che di contratti preliminari con effetti obbligatori riguardo ai due negozi rispettivamente oggetto delle scritture del 27-6-1952 e del 2-5-1953, considerata la natura precettiva delle asserzioni delle parti in esse contenute, dovendosi escludere l’intento di volersi semplicemente obbligare alla stipula di un futuro contratto di divisione.

Premesso che il giudice di appello non aveva espresso alcuna ragione a conforto di tale pretesa natura precettiva delle espressioni usate dalle parti, V.G. sostiene che la sentenza impugnata ha trascurato e comunque valutato insufficientemente ed illogicamente i seguenti elementi:

la titolazione dei contratti quali preliminari di divisione aventi quindi efficacia obbligatoria; il contenuto degli atti che confermava una volontà comune tendente unicamente ad attribuire agli stessi un’efficacia meramente obbligatoria;

la mancata partecipazione alla stipula di tali contratti di F. M., titolare del diritto di usufrutto su parte del compendio ereditario;

– la previsione che l’usufruttuaria avrebbe dovuto rinunciare all’usufrutto sui terreni in (OMISSIS);

la previsione che imposte ed altri tributi sarebbero rimasti a carico delle singole assegnatarie dal giorno della stipulazione del rogito notarile (vedi preliminare del 27-6-1952) e che "il contratto divisionale seguirà non appena possibile assieme anche olla sorella E. e alla mamma per quanto riguarda la rinuncia dell’usufrutto sui terreni in (OMISSIS)" (vedi preliminare del 2-5-1953);

la mancata compiuta individuazione nel preliminare de 2-5-1953 degli specifici beni oggetto dell’asserita assegnazione;

il comportamento delle parti dopo la pretesa stipulazione dei suddetti preliminari, avendo esse continuato a porre in essere congiuntamente atti pubblici di disposizione dei patrimonio ereditario.

La censura è infondata.

Il giudice di appello ha ritenuto pienamente condivisibile il convincimento del giudice di primo grado "in ordine alla natura di contratti di divisione" delle scritture per cui è causa, avuto riguardo alla natura precettiva delle asserzioni delle parti in essi contenute, in base alle quali doveva escludersi l’intento di volersi semplicemente obbligare alla stipula di un futuro contratto di divisione; pertanto si è in presenza di una motivazione "per relationem", da ritenersi legittima tutte le volte in cui la sentenza impugnata, contenendo espliciti riferimenti alla pronuncia di primo grado facendone proprie le argomentazioni in diritto, sia pur sinteticamente fornisca comunque una risposta alle censure formulate nell’atto di appello e nelle conclusioni dalla parte soccombente, risultando così corretto ed appagante il percorso argomentativo desumibile attraverso l’integrazione della parte motiva delle due sentenze (Cass. 16-2-2007 n. 3636); risponde quindi al modello legale la motivazione "per relationem" in cui il giudice di secondo grado abbia fatto riferimento all’esame degli atti del primo giudizio ed alla conformità ad essi della motivazione estesa dal giudice di primo grado, in tal modo consentendo il controllo sul riesame della questione oggetto della domanda (Cass. 28-10-2009 n. 22801).

Nella specie invece la censura in esame, offrendo una interpretazione delle scritture private suddette favorevole alla ricorrente principale senza esaminare le argomentazioni rese dal giudice di primo grado a sostegno dell’assunto circa gli effetti reali e non obbligatori dei contratti di divisione contenuti in tali scritture (argomentazioni fatte proprie dal giudice di appello), si rivela inidonea in radice a scalfire il convincimento espresso dalla sentenza impugnata al riguardo.

Con il settimo motivo V.G., deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver condannato l’esponente al pagamento delle spese del giudizio di appello e per aver confermato la condanna dell’appellante principale alla rifusione anche delle spese del giudizio di primo grado non tenendo conto nè della natura divisionale del giudizio, nè della reciproca soccombenza (essendo stata respinta la domanda di risarcimento danni ex art. 96 c.p.c., proposta da V.E.), nè del fatto che l’istante non aveva formulato alcuna domanda nei confronti di V. A., cosicchè al riguardo non sussisteva alcuna soccombenza.

La censura è infondata.

Premesso che la Corte territoriale, confermata integralmente la sentenza di primo grado, ha condannato V.G. al pagamento in favore delle controparti delle spese del secondo grado di giudizio in applicazione del criterio della soccombenza, si osserva, sotto un primo profilo, che nella specie non si era in presenza di una divisione giudiziale (in ordine alla quale si applica il principio secondo il quale le spese di giudizio devono essere poste a carico della massa) ma, come già esposto, di un giudizio di accertamento dell’autenticità delle sottoscrizioni apposte in calce a delle scritture private, giudizio per il quale valgono le regole generali in ordine ai criteri di ripartizione dell’onere delle spese di lite; inoltre la affermata soccombenza della attuale ricorrente principale, oltre che nei confronti di V.E., anche nei confronti di V.A., essendo stata rigettata la domanda di rendiconto proposta in grado di appello anche nei confronti di quest’ultima, esclude qualsiasi violazione dell’art. 91 c.p.c.; nè tali conclusioni possono essere infirmate dal rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., formulata da V.E. nei confronti di V.G., essendo evidente, nell’ambito delle natura e della complessità delle questioni oggetto di controversia, la maggiore rilevanza della soccombenza di quest’ultima.

Il ricorso principale deve pertanto essere rigettato.

Venendo ora all’esame del ricorso incidentale introdotto da V. E., si rileva che quest’ultima con il primo motivo, denunciando omessa ed insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata per aver confermato il rigetto della domanda di risarcimento danni proposta dall’esponente ex art. 96 c.p.c., per non essere stata fornita la prova del danno; invero il giudice di appello non ha offerto alcun elemento al fine di ricostruire l’"iter" logico seguito in proposito, mentre per altro verso l’esponente aveva prodotto idonea documentazione relativa al pagamento di tributi ed oneri consortili afferenti agli immobili assegnati alla sorella G. in sede di divisione che, stante la formale contestazione degli immobili in capo alle tre sorelle, erano stati addebitati dagli enti creditori anche ad V.E..

La censura è infondata.

Invero, a fronte del rigetto della suddetta domanda ex art. 96 c.p.c., per la mancata prova del danno da parte delle appellate, la ricorrente incidentale, a supporto del suo assunto, deduce l’omessa valutazione di elementi che, se in ipotesi possono semmai essere idonei a legittimare una domanda di ripetizione nei confronti di V.G. di somme di denaro versate da parte di V. E. per causali ascrivibili all’attuale ricorrente principale, non rivestono alcuna rilevanza al fine di provare la sussistenza della responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

Con il secondo motivo di ricorso, definito condizionato, V. E., premesso di avere svolto in via subordinata domanda di accertamento di intervenuta usucapione ventennale, dichiarata assorbita dal giudice di primo grado, assume che invece il giudice di secondo grado ha respinto ogni altra domanda, ivi compresa, sembrerebbe, anche quella di usucapione; pertanto la ricorrente incidentale censura tale statuizione per difetto assoluto di motivazione.

La censura resta assorbita all’esito del rigetto del ricorso principale. Il ricorso incidentale di V.E. deve quindi essere rigettato.

Con un unico motivo di ricorso incidentale definito condizionato V.A., deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., ed omessa motivazione, premesso che V. G. aveva svolto per la prima volta nel giudizio di appello una domanda di rendiconto nei propri confronti di cui l’esponente aveva prontamente eccepito la novità, sostiene che erroneamente la sentenza impugnata, avendo respinto ogni altra domanda, ha rigettato nel merito detta domanda di rendiconto invece che dichiararla inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c..

La censura resta assorbita all’esito del rigetto del ricorso principale.

In definitiva quindi devono essere rigettati il ricorso principale ed il ricorso incidentale di V.E., e deve essere dichiarato assorbito il ricorso incidentale proposto da V. A..

La ricorrente principale deve essere condannata in base al principio della soccombenza al rimborso delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, nei confronti di entrambe le ricorrenti incidentali, e dunque anche nei confronti di V. E., attesa la modesta incidenza, nell’economia del giudizio, della soccombenza di quest’ultima in ordine al primo motivo del ricorso incidentale.

P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale ed il ricorso il ricorso incidentale di V.E., dichiara assorbito il ricorso incidentale di V.A., e condanna la ricorrente principale al rimborso delle spese del presente giudizio in favore di entrambe le controparti, liquidate in Euro 200,00 per spese ed Euro 5000,00 per onorari di avvocato, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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