Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-03-2012, n. 4263 Mansioni e funzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 9559 del 11-5-2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma, in parziale accoglimento delle domande proposte da Z.A. nei confronti dell’INPDAP, condannava quest’ultimo al pagamento in favore dell’attrice delle seguenti somme: Euro 5.075,77 a titolo di danno biologico (I.P. 6%); Euro 2.500,00 a titolo di danno morale; 2.500,00 a titolo di danno esistenziale per la lesione della personalità e della dignità professionale della ricorrente; Euro 127.400,00 a titolo di danno patrimoniale conseguente all’anticipato collocamento a riposo", oltre accessori e spese. Ciò con riferimento alle "sole vicende successive al 30/6/1998". ritenendo il difetto di giurisdizione del l’AGO per il periodo precedente.

L’INPDAP proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendo la riforma con il rigetto delle domande di controparte.

La appellata si costituiva e resisteva al gravame.

Ammessa ed espletata prova testimoniale, la Corte d’Appello di Roma con sentenza depositata il 12-10-2009, in accoglimento dell’appello respingeva anche le domande proposte dalla Z. accolte dal primo giudice e compensava le spese del doppio grado.

In sintesi la Corte di merito riteneva che il dedotto "totale e assoluto" demansionamento, erroneamente ritenuto non contestato dal primo giudice, all’esito della prova testimoniale ammessa ed espletata in appello, era risultato in effetti chiaramente smentito.

Per la cassazione di tale sentenza la Z. ha proposto ricorso con cinque motivi.

L’INPDAP ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2103, 2087, 1218 c.c., in sostanza lamenta che la domanda, riguardante la dequalificazione dal luglio 1998 (allorquando "fu trasferita all’Ufficio 3^ per essere sostanzialmente dimenticata in una stanzetta senza alcuna reale mansione e senza alcuna possibilità di aggiornamento professionale"), "doveva essere esaminata alla luce dell’art. 2103 c.c. applicabile al pubblico impiego privatizzato circa l’implicito divieto di privazione di mansioni, dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 1218 c.c.".

In particolare la ricorrente sostiene che in violazione di dette norme la Corte territoriale ha richiamato da un lato gli incarichi ("che nulla rilevano ai fini della prova della sottrazione delle mansioni assegnate") e dall’altro la prova contraria richiesta dall’ente datore di lavoro ("richiesta di prova contraria che non assolve all’onere probatorio direttamente imposto al datore di lavoro dalle norme citate").

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando un vizio di motivazione, lamenta che la sentenza impugnata "non offre alcuna motivazione in ordine alla mancata applicazione delle norme citate", fondando la decisione sui due ordini di servizio richiamati relativi al conferimento di specifici incarichi, senza spiegarne la rilevanza in concreto, ed attribuendo rilievo al fatto che l’INPDAP avesse dedotto prova contraria sui capitoli già oggetto di prova da parte della ricorrente, laddove il diretto onere probatorio era a carico del datore di lavoro.

Tali motivi, strettamente connessi, risultano infondati.

La Corte territoriale, in effetti, ha respinto la domanda relativa al lamentato demansionamento in fatto, rilevando in effetti che "l’esame complessivo delle risultanze istruttorie, compresa la prova testimoniale ammessa ed assunta" in grado d’appello, ha smentito il dedotto demansionamento.

A tale conclusione la Corte di merito è pervenuta non soltanto sulla base degli incarichi di cui agli ordini di servizio 4/98 e 12/2000. bensì anche sulla scorta delle risultanze testimoniali, ed in specie della deposizione P., dalla quale è emerso che la Z. "svolse anche in concreto i compiti inerenti all’incarico affidatole, in particolare mantenendo i contatti con i responsabili della società esterna e con i capi progetto informatici", rilevando, nel contempo, che i testi L. e M. "nulla hanno saputo sostanzialmente riferire in merito a cosa facesse o non facesse la Z. nel periodo in esame, ricordando solo di "lamentele" ad essi rivolte dalla medesima circa la "mancanza di lavoro" ed affermando peraltro che la stanza ad essa assegnata era "normale" ovvero "adeguatamente attrezzata".

Tale accertamento di fatto risulta non solo congruamente motivato, bensì anche rispettoso del principio affermato da questa Corte secondo cui "in materia di pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 1, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito – attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell’organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse – un concetto di equivalenza "formale", ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice. Ove, tuttavia, vi sia stato, con la destinazione ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressochè integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiegò" (v.

Cass. 21-5-2009 n. 11835).

Orbene nella fattispecie la Corte di merito ha accertato che tale sottrazione non si è affatto verificata, e ciò non solo sulla base della formale assegnazione di nuovi compiti, bensì soprattutto sulla verifica dello svolgimento in concreto di detti compiti, sulla base delle risultanze della prova testimoniale, con accertamento di fatto congruamente motivato, insindacabile in questa sede.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando errar in procedendo, lamenta che, avendo l’INPDAP in primo grado richiesto soltanto la prova testimoniale contraria, subordinata all’ammissione della prova richiesta dalla lavoratrice, erroneamente la Corte d’Appello, ammessa l’escussione di due testi per parte, sull’eccezione di inammissibilità di tale prova contraria non dedotta dall’Istituto nell’appello, ha ritenuto che nell’atto di appello ci fosse "una implicita richiesta di prova contraria".

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha più volte affermato, "la presunzione di rinuncia delle domande ed eccezioni non accolte in primo grado e non riproposte espressamente nell’atto di appello, di cui all’art. 346 c.p.c., non trova applicazione con riguardo alle istanze istruttorie, quando sia stata impugnata in toto la sentenza." (v. Cass. 28-8-2002 n. 12629, cfr. Cass. 22-8-2003 n. 12366, Cass. 11-2-2011 n. 3376).

Legittimamente, quindi, nella specie la Corte d’Appello ha ritenuto che l’Inpdap. soccombente in primo grado (in relazione alle vicende successive al 30-6-1998, per le quali il primo giudice aveva affermato la propria giurisdizione), avendo chiesto il riesame della sentenza, ha riproposto implicitamente anche le istanze istruttorie già avanzate in primo grado.

Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando errar in procedendo, in sostanza lamenta che la Corte di merito, nonostante la eccezione avanzata all’udienza del 27-5-2007 di incapacità ex art. 246 c.p.c. dei testi indicati dall’Inpdap, ha escusso il teste P. (sulla cui deposizione ha poi fondato la decisione), nei confronti del quale – come del resto dallo stesso riferito si poteva anche profilare, in caso di soccombenza dell’Istituto, una responsabilità patrimoniale personale.

Con il quinto motivo la ricorrente, lamenta, poi, un vizio di motivazione al riguardo da parte della Corte territoriale.

Anche tali ultimi motivi non meritano accoglimento.

La ricorrente, infatti, si limita a ribadire di aver sollevato la preventiva eccezione di incapacità dei testi Inpdap "in quanto coinvolti nella responsabilità per i fatti di cui è causa", ma non indica in che modo e con quale atto abbia poi eccepito la nullità della testimonianza P. (che andava opposta tempestivamente ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2 – v. fra le altre Cass. 25-9-2009 n. 20652).

Tale indicazione risulta infatti necessaria ai fini della autosufficienza del ricorso ed è imposta pure con riguardo alla denuncia di violazione (come nella specie) di una norma processuale, dovendo il ricorrente comunque indicare "anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione" (v. Cass. 28-7-2005 n. 15910. Cass. 4-4-2006 n. 7846).

Peraltro, come pure è stato precisato da questa Corte, "la nullità della testimonianza resa da persona incapace deve essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2 (salvo il caso in cui il procuratore della parte interessata non sia stato presente all’assunzione del mezzo istruttorìo, nel qual caso la nullità può essere eccepita nell’udienza successiva), sicchè, in mancanza di tempestiva eccezione, deve intendersi sanata, senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare, prevista a norma dell’art. 246 c.p.c., possa ritenersi comprensiva dell’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa, ed assunta nonostante la previa opposizione" (v. Cass. 3-4-2007 n. 8358).

Non può quindi ritenersi sufficiente la semplice indicazione nel ricorso della avvenuta proposizione della eccezione preventiva di incapacità a testimoniare del teste, poi escusso.

Del resto nella specie la Corte di merito ha affermato che la incapacità a testimoniare del teste P. "in ragione di quanto dallo stesso riferito circa una ventilata sua responsabilità nel caso di finale accertamento della fondatezza delle domande della Z." (comunque ritenuta non integrante la fattispecie di cui all’art. 246 c.p.c.) è stata sostenuta "dall’appellata con le note difensive finali".

In relazione, quindi, alla effettiva tempestività dell’eccezione di nullità della testimonianza P., il ricorso risulta privo di autosufficienza.

In tali sensi vanno quindi respinti anche gli ultimi due motivi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare all’INPDAP le spese liquidate in Euro 50,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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