Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-09-2011) 11-10-2011, n. 36536

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. Con sentenza del 1/12/2010, la Corte di Appello di Bari, in riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Foggia in data 2/12/2002, dichiarava n.d.p. per prescrizione nei confronti di D.M. in ordine ai reati di porto e detenzione di una pistola con matricola abrasa (capo sub b), ricettazione della suddetta arma (capo sub e) e resistenza nei confronti di agenti di P.G. (capo sub d) e rideterminava la pena per il residuo reato di tentata rapina in anni tre di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa. p. 2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, in proprio, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. violazione degli artt. 56 – 628 c.p.: sostiene il ricorrente che la ricostruzione della Corte territoriale sarebbe del tutto illogica e meramente ipotetica essendo "ben lontana dal rappresentare l’unica direzione finalistica degli atti compiuti dal ricorrente e dagli altri imputati". In altri termini, ad avviso del ricorrente, gli atti compiuti non avrebbero nè il requisito dell’idoneità nè quello della univocità rispetto al ritenuto delitto di tentata rapina aggravata, laddove tutto conclamava che, in realtà, era stato perpetrato un semplice furto o, addirittura un semplice danneggiamento come ritenuto dalla sentenza del Tribunale di Foggia – confermata dalla stessa Corte di appello di Bari con sentenza passata in giudicato – nei confronti dei complici giudicati separatamente.

Sul punto, il ricorrente (con il motivo sub e, trattato a pag. 6 del ricorso), deduce anche violazione dell’art. 238 bis c.p.p. per non essersi la Corte territoriale adeguata alla suddetta sentenza passata in giudicato, determinando così un assurdo giuridico per il quale lo stesso fatto è stato ritenuto, nei confronti dei complici come un mero danneggiamento, mentre nei confronti di esso ricorrente come tentativo di rapina aggravata.

2. violazione degli artt. 62 bis – 133 c.p. per non avere la Corte concesso le attenuanti generiche, essendosi limitata a confermare la sentenza di primo grado in ordine alla pena inflitta senza specificare perchè fosse adeguata e senza considerare l’incensuratezza di esso ricorrente.

3. violazione degli artt. 129 – 530 c.p.p. e art. 546 c.p.p., LETT. e):

sostiene il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe dovuto entrare funditus nel merito dei reati dichiarati prescritti, e pronunciare sentenza di assoluzione in quanto non vi era alcuna prova della sua colpevolezza.

4. violazione dell’art. 420 ter c.p.p. per avere la Corte territoriale motivato in modo illogico sulla pretesa intempestività della presentazione della richiesta di differimento dell’udienza del 16/10/2002.

Motivi della decisione

p. 1. violazione dell’art. 420 ter c.p.p.: la Corte territoriale ha disatteso la suddetta doglianza, osservando che: "nel caso di specie non solo il Tribunale diede contezza della intempestività della richiesta di rinvio formulata dal difensore di fiducia e della mancanza di prova dell’impossibilità di farsi sostituire da altro collega di studio, ma vi è in atti la prova che l’avv. Perrone delegò espressamente in sua sostituzione l’avv. Carmela Caputo per l’udienza del 16/10/2002 (v. l’atto di delega allegato al verbale di udienza), mentre l’impedimento di costei per pregressi e più urgenti impegni professionali in altra sede giudiziaria non è in alcun modo documentata".

A fronte di tale perspicua motivazione, il ricorrente, pur non contestando la tardività della richiesta di rinvio, si limita a sostenere che, essendo la medesima pervenuta lo stesso giorno, non gli era stato possibile depositarla tempestivamente. Il che, con tutta evidenza, non costituisce un valido motivo per accogliere la doglianza. Va, infine, osservato che il ricorrente nulla ha dedotto e provato in merito al fatto che l’impedimento in altra sede giudiziaria non era stata documentata. La doglianza, pertanto, va dichiarata inammissibile per genericità ed aspecificità. p. 2. violazione degli artt. 56 – 628 c.p.: il fatto è stato ricostruito dalla Corte territoriale nei seguenti termini: nella notte del 7/6/1995, i C.C. di Cerignola predisposero "un servizio di appostamento ed osservazione dopo che il direttore del locale Ufficio postale aveva denunciato di avere trovato le sbarre della finestra della sua stanza, dove era custodita la cassaforte,segate e riposte in stato da sembrare integre tramite l’apposizione di stucco e nastro adesivo dello stesso colore giallo dell’inferriata. Costoro notavano che la notte del 7/6/95, successiva all’effrazione, tre giovani, riconosciuti poi negli imputati – per gli stessi fatti il D’. ed il M. venivano condannati in separato giudizio – e ben noti alle forze dell’ordine che li avevano controllati più volte mentre erano in reciproca compagnia, arrivavano nei pressi dell’ufficio postale a bordo di un’autovettura Mercedes e, dopo aver aperto un cancello scorrevole e scavalcato un muro alto circa due metri portando con sè due buste di plastica bianche del tipo di quelle usate per la spesa, si avvicinavano alla finestra in questione e cercavano (proprio il D.) di divellerla; in quel momento i C.C. intervenivano e, mentre gli altri due si davano a precipitosa fuga abbandonando le buste di plastica, riuscivano invece a bloccare l’odierno appellante che veniva immediatamente tratto in arresto".

La Corte territoriale ha ritenuto che, nella suddetta condotta fossero ravvisabili gli estremi del tentativo di rapina aggravata sulla base della seguente motivazione: "Ed invero, il possesso delle due pistole, di cui una giocattolo ma priva del tappo rosso, dei due passamontagna, della scatola di vernice gialla (del medesimo colore dell’inferriata) e dello stucco, unitamente alle due spatole per posarlo, non trova altra diversa spiegazione se non nella ricostruzione dell’accaduto operata dal Tribunale. I tre si recarono sul posto in piena notte e procedettero a tirare l’inferriata, che essi stessi in precedenza avevano segato, in modo che due di loro potessero penetrare all’interno della stanza del direttore dove, all’apertura dell’Ufficio postale, travisati con i passamontagna ed armi in mano, lo avrebbero costretto ad aprire la cassaforte ed a consegnare loro il denaro ivi contenuto; lo stucco colorato, gli arnesi necessari ad applicarlo e la vernice dello stesso colore giallo dell’inferriata dovevano servire all’altro complice a richiuderla dall’esterno per dare ai condomini che si affacciavano in quel cortile l’apparenza che tutto fosse in ordine. Tutta l’operazione era stata congegnata nei termini suesposti, perchè altrimenti non si spiegherebbe logicamente perchè tre noti malviventi si fossero avvicinati all’ufficio postale tutti insieme muniti dell’armamentario che fu sequestrato loro ed il D. stesso avesse tirato (o tentato di tirare quando intervennero i CC) l’inferriata della stanza del direttore. La condotta dell’imputato, quindi, non solo era idonea ma altresì era univocamente orientata a commettere la rapina, che l’intervento dei C.C. valse ad impedire". p. 2.1. Il ricorrente censura la suddetta motivazione osservando che:

"in realtà, tali osservazioni sono del tutto illogiche e non danno atto delle possibili ricostruzioni alternative, molto più plausibili, degli accadimenti svoltisi nella notte del 7 giugno ’95.

Innanzitutto, va rilevato che è stato accertato che le sbarre della finestra della stanza del direttore dell’ufficio postale furono tagliate la notte precedente a quella in cui avvenne l’arresto del sottoscritto e dei propri correi. Non si comprende, pertanto, perchè l’odierno ricorrente e i propri complici non avrebbero dovuto effettuare l’ipotizzata rapina il giorno precedente ma, nell’impostazione accusatoria accolta dall’impugnata sentenza, abbiano aspettato non una ma ben due notti per tentare di porre in essere l’ipotizzata rapina. E’, invece, logicamente infinitamente più plausibile che il sottoscritto e i propri correi si siano recati la mezzanotte del 7 giugno 1995 presso l’ufficio postale di Cerignola al fine di effettuare un furto, anzichè attendere otto ore l’arrivo del direttore dell’ufficio postale per rapinarlo. E’ davvero incredibile, inoltre, ipotizzare che dei rapinatori, dopo aver posto in essere il contestato reato, possano perdere tempo a richiudere le sbarre segate della finestra e a riverniciarle, invece di fuggire a gambe levate E’, invece, di evidenza lampante che lo stucco colorato, gli arnesi necessari ad applicarlo e le vernice dello stesso colore giallo dell’inferriata dovessero servire sì a richiudere la finestra dall’esterno, ma dopo che il sottoscritto e i propri complici avessero posto in essere il furto in tutta tranquillità nella notte del 7 giugno". Aggiunge il ricorrente che il possesso delle armi e di strumenti di camuffamento non erano sufficienti a connotare l’azione come diretta al compimento di una rapina in presenza di quegli evidenziati elementi fattuali che deponevano nel senso del furto. p. 2.2. In via di stretto diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo, va affermato quanto segue.

L’art. 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv 220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell’elemento soggettivo che oggettivo.

L’elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere.

L’elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti:

– l’idoneità degli atti;

– l’univocità degli atti;

– il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento.

La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda proprio attraverso l’esatta comprensione dei suddetti principi.

Una premessa di natura sistematica: sebbene l’art. 56 c.p. sia l’unica norma che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono trarre, ai fini sistematici, anche dall’art. 115 c.p. a norma del quale "qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto dell’accordo".

La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a fortiori, il semplice averlo pensato) non è punibile (salva l’applicazione della misura di sicurezza) ponendosi all’estremo opposto del delitto consumato.

Ma è proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo (non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, dev’essere ugualmente punibile.

Il codice penale del 1889 (cd. codice Zanardelli), influenzato dal codice napoleonico, all’art. 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione", poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l’agente avesse cominciato l’esecuzione dell’azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili.

La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il legislatore del 1930 – peraltro anche per precise ragioni ideologiche – abbandonò espressamente il suddetto criterio, introducendo l’attuale art. 56 c.p. che ruota intorno a due criteri:

l’idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall’agente, nel senso che solo ove l’azione presenti le suddette caratteristiche, l’agente può essere punito a titolo di tentativo.

Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si è riacutizzato perchè, mentre prima, la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la questione consiste nell’individuare la linea di confine che separa il semplice accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili. In ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il codice Zanardelli), l’opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa giurisprudenza di questa Corte, è alquanto compatta nel ritenere che un atto si può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (cd. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino, rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell’uomo medio, possa ritenere che quegli atti – indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei – erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv 241649 (in motivazione) – Cass. 43255/2009 riv 245721 – Cass. 27323/2008 riv 240736 – Cass. 34242/2009 riv 244915.

Tanto risulta confermato anche dall’art. 49 c.p., comma 2 che è la norma speculare dell’art. 56 c.p. nella parte in cui dispone la non punibilità per l’inidoneità dell’azione. Più controversa è la nozione di univocità degli atti. Secondo una prima tesi "anche gli atti preparatori possono configurare l’ipotesi del tentativo, allorquando essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei, l’adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto nel quale s’inseriscono, l’intenzione dell’agente di commettere il delitto":

Cass. 27323/2008 riv. 240736 – Cass. 43255/2009 Rv. 245720 "L’atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto" – Cass. 40702/2009 Rv. 245123.

E’ la cd. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito dell’univocità dell’atto può essere raggiunta non solo sulla base dell’atto in sè considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti preparatori qualora rivelino la finalità che l’agente intendeva perseguire.

Ad avviso, invece, di un’altra tesi, "gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori": Cass. 9411/2010 Rv. 246620 – Cass. 40058/2008 cit. – Cass. 36283/2003 riv 228310 – Cass. 43406/2001 riv 220144.

"Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell’epoca, aveva ritenuto di allargare l’area del tentativo punibile redigendo il testo dell’art. 56 c.p., non è men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l’illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perchè atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l’idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell’atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall’inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente": Corte Cost. 177/1980.

E’ la cd. tesi oggettiva secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta, valutati in quel singolo contesto, rivelano, in sè e per sè considerati, l’intenzione dell’agente (ed criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la "direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sè rivelare l’intenzione dell’agente.

L’univocità, intesa come criterio di "essenza", non esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e l’id quod plerumque accidit, l’intenzione, il fine perseguito dall’agente": Cass. 40058/2008 cit..

E’ evidente il punto di frizione fra le due tesi.

Infatti, mentre per la tesi soggettiva, l’univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sè preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al contrario per la tesi oggettiva, l’univocità coincide con l’inizio degli atti tipici di un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di punibilità, escludendosi l’univocità degli atti meramente preparatori).

Questa Corte ritiene che la tesi ed oggettiva non sia condivisibile perchè, riproponendo, di fatto, l’antica problematica di cui si discuteva sotto il codice Zanardelli, opera un’interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l’intera normativa.

Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto: "innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo, sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".

Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per i motivi di seguito indicati.

Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell’art. 56 c.p., non può che essere il dato storico: come si è detto, fu proprio per evitare le incertezze interpretative derivanti dall’individuare quali fossero i mezzi che potevano essere considerati inizio dell’esecuzione criminosa (problema che diventava quasi irresolubile per i reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s’indusse ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi" "esecuzione". Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in contrapposizione agli atti inidonei di cui all’art. 49 c.p., comma 2) e di azione che non si compie o di evento che non si verifica. La terminologia adoperata dal legislatore è molto importante: una cosa è parlare di cominciamento dell’esecuzione con mezzi idonei, altro è parlare di azione non compiuta e di atti idonei a commettere il delitto.

E’ evidente, infatti, l’arretramento della soglia di punibilità, laddove si consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico, una maggiore estensione rispetto alla più ristretta categoria degli atti esecutivi.

In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo sull’esecuzione ma anche sull’azione.

Ora, siccome l’azione è quell’attività umana composta da uno o più atti, ne deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile non solo quando l’esecuzione è compiuta ma anche quando l’agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto. Sul punto, è lo stesso art. 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l’azione non si compie (cd. tentativo non compiuto); 2) quando l’evento non si verifica (cd. tentativo compiuto). Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra "delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il dato di fatto lessicalmente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi.

Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica.

Infatti, quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che ipotizza il caso dell’agente che ha compiuto l’esecuzione degli atti tipici del delitto programmato, che, però, non si è verificato per un fatto indipendente dalla sua volontà (ad es. l’agente ha sparato a Tizio ma questi, all’ultimo momento, casualmente, si è spostato, facendo, quindi, fallire l’attentato).

Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell’esecuzione degli atti di un delitto, quando prevede la punibilità anche dell’azione, necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede l’esecuzione vera e propria, ossia quell’insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l’astratta attitudine a produrre il delitto programmato. L’azione, lo si ripete, è un termine molto ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e contiene, in sè, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex post, che quell’azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a perpetrare il delitto programmato.

Ciò, quindi, permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l’agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e quarto dell’art. 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell’azione nel senso sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l’agente risponde degli atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l’impedimento, da parte dell’agente, dell’evento determinato dal compimento degli atti esecutivi veri e propri, nel quale caso, l’agente risponde pur sempre del tentativo, sebbene con una diminuzione della pena.

E’ evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, vengono puniti allo stesso modo (primo comma), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell’agente, vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l’azione che non si compie (o dalla quale l’agente desiste) è un qualcosa che precede l’evento che non si verifica (o compie).

Ed ulteriore conferma può trarsi dall’art. 49 c.p., comma 2 (che rappresenta, per così dire, il lato speculare e contrario dell’art. 56 c.p.) che esclude la punibilità per "l’inidoneità dell’azione" non degli atti esecutivi: il che significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a parte l’ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi considerata espressamente, come si è detto, dall’art. 56 c.p., comma 1, ultima parte)" occorre aver riguardo più che all’idoneità dei singoli atti, all’idoneità dell’azione valutata nel suo complesso così come appare cristallizzata in un determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed interni, conosciuti e conoscibili.

Solo se l’azione viene valutata unitariamente, può aversi un quadro d’insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente, possono anche sembrare in sè inidonei, ma che se inseriti in un più ampio contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più complessa ed unica catena, l’uno funzionale all’altro per il compimento dell’azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto programmato.

Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930, arretrando la soglia di punibilità del tentativo, ha completamente ribaltato l’impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori, a condizione però che posseggano quelle caratteristiche di cui si è detto.

Si deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo – di tempo – di mezzi ecc.) fanno fondatamente ritenere che l’azione – considerata come l’insieme dei suddetti atti – abbia la rilevante probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che l’agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall’imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità, dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)". p. 2.3. Tanto premesso in diritto, richiamata l’incontestata dinamica dei fatti così come accertata dalla Corte territoriale, la censura, nei termini in cui è stata proposta, va disattesa.

Il ricorrente non contesta, in punto di fatto, quanto accertato dal Tribunale, ma sostiene che il tentativo non sarebbe configurabile perchè potevano essere ipotizzati i diversi reati di danneggiamento o di tentato furto, non essendo l’azione caratterizzata dall’univocità degli atti.

Il caso di specie" è emblematico della problematica di cui si è parlato.

In punto di fatto, la doglianza secondo la quale sarebbero ipotizzabili i diversi reati di danneggiamento o tentato furto, non è accoglibile in quanto la Corte territoriale – sulla base di precisi riscontri fattuali – ha coerentemente e logicamente concluso che il ricorrente, insieme agli altri complici, aveva intenzione di perpetrare la rapina.

Peraltro, sul punto, il motivo è generico perchè il ricorrente si è semplicemente limitato ad affermare, in modo assertorio ed ipotetico, che sarebbero ipotizzabili ipotesi alternative.

Al contrario, gli elementi fattuali indicati dalla Corte, unita alla considerazione che lo stesso ricorrente non spiega che cosa avrebbe dovuto rubare in un ufficio nel quale l’unico bene che giustificasse tutta quell’accurata preparazione era costituito dal denaro custodito nella cassaforte. l’anno ritenere la conclusione della Corte Territoriale del tutto logica e, quindi, immune da vizi di legittimità.

In punto di diritto, va, invece, rilevato quanto segue.

Si è chiarito che l’art. 56 c.p. prevede e sanziona due ipotesi di tentativo: quello in cui l’azione non si verifica e quello in cui l’evento non si compie, per cause indipendenti dalla volontà dell’agente (nel qual caso le due ipotesi, ai fini sanzionatoli, vengono assimilate) ovvero per resipiscenza dell’agente (nel qual caso, ai sensi dei commi 3 e 4, la sanzione varia).

Si è anche chiarito che l’azione può essere considerata idonea quando, sulla base degli elementi fattuali in atti, può affermarsi che il programma criminoso dell’agente si è ormai concluso e l’agente sta per passare alla fase operativa vera e propria.

Nel caso di specie, da quanto emerge dalla sentenza impugnata, il piano operativo era stato completamente esaurito: la sera precedente erano state segate le sbarre della finestra; erano stati predisposti i mezzi per eseguire il piano; l’imputato aveva la disponibilità di tutto l’armamentario necessario per perpetrare materialmente la rapina che, al momento in cui intervennero i C.C., in pratica era passata alla fase esecutiva vera e propria in quanto l’imputato, con i complici, stava per entrare nell’ufficio postale.

Si verte, pertanto, nella prima delle ipotesi considerate: infatti, l’imputato non fu sorpreso ed arrestato mentre, ad es. eseguiva i sopralluoghi: in tale ipotesi, invero, sarebbe stato configurabile il reato impossibile per inidoneità dell’azione ex art. 49, comma 2.

Al contrario, venne arrestato quando tutte le suddette operazioni prodromiche erano già state eseguite e, quindi, l’azione, in sè e per sè considerata, come correttamente ha rilevato la Corte territoriale, era ormai potenzialmente idonea al compimento della progettata rapina. In conclusione, poichè la Corte territoriale si è correttamente adeguata al principio di diritto supra enunciato, la censura va disattesa. Infine, è appena il caso di rilevare che il servizio di appostamento predisposto dai C.C., non ha rilevanza ai fini dell’inquadramento giuridico della vicenda, per pacifica giurisprudenza di questa Corte: ex plurimis Cass. 36699/2008 riv 241400.

Quanto, infine, alla pretesa violazione dell’art. 238 bis c.p.p. è appena il caso di osservare che la suddetta norma prevede l’acquisizione della sentenza passata in giudicato "ai fini della prova di fatto in essa accertato". Nella fattispecie non è in discussione la materialità del fatto ma solo la diversa qualificazione giuridica del medesimo sulla quale la Corte territoriale non era di certo vincolata a quanto deciso nel diverso processo celebrato a carico dei complici dell’imputato. p. 3. violazione degli artt. 62 bis – 133 c.p.: sul punto, la censura va ritenuta manifestamente infondata in quanto la Corte, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ha motivato in modo amplissimo sia in diritto che in fatto: cfr par. 5 della sentenza impugnata. p. 4. violazione degli artt. 129 – 530 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. e): anche la suddetta doglianza è manifestamente infondata.

Invero, posto che il ricorrente, per i reati sub b-c-d-, era stato condannato, in primo grado, correttamente la Corte ne ha dichiarato la prescrizione mancando, per assioma, l’evidenza della prova dell’innocenza: ex plurimis Cass. Sez. 2, 11/3 – 12/6/giugno 2009 n. 24495. p. 5. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi infondata, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

RIGETTA il ricorso e CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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