Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 09-08-2011) 11-10-2011, n. 36563

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

– che con l’impugnata sentenza fu confermato il giudizio di penale responsabilità espresso dal giudice di primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti di: LO.Ce.

C., D.G.C., CO.Ca., M. F., in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p.;

G.A., R.G., C.V. e L. G. in ordine al medesimo reato, modificata però l’imputazione, con riguardo al R., al C. ed al L., in quella di cd. concorso esterno, nonchè, per il solo L., in ordine al reato di estorsione aggravata in danno di A.G., titolare di un’impresa di costruzioni; S.V. in ordine al reato di favoreggiamento personale a lui contestato, con l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7; C.F. e B.A. in ordine al medesimo reato, così modificato l’originario addebito di partecipazione ad associazione di tipo mafioso.

– che le condotte attribuite agli imputati consistevano, in sintesi:

– quanto al Lo. (indicato come "consigliere" provinciale di Cosa Nostra per il territorio di Agrigento), al D.G. ed al Co., soprattutto nell’aver curato le comunicazioni (tramite i cd. "pizzini") tra il latitante F.G., indicato come "rappresentante" provinciale, ed i vertici palermitani del sodalizio mafioso, impersonati in particolare da Ro.An., nella latitanza del capo supremo, indicato in P.B., poi arrestato nel mese di aprile del 2006; attività questa, alla quale avrebbe prestato la sua collaborazione, in più riprese, il G., mentre il già nominato Lo. avrebbe altresì svolto funzioni di "paciere" o di mediatore in contrasti nei quali erano coinvolti altri esponenti mafiosi;

– quanto al R., nell’aver egli svolto, in un periodo in cui si era manifestato un vivo contrasto tra Di.Ga.Ma. e F. G., conclusosi poi con l’assunzione da parte di quest’ultimo, in luogo del Di.Ga. (divenuto in seguito "collaboratore di giustizia"), di "rappresentante" di Cosa nostra per la provincia di Agrigento, una "attività di raccordo" tra il detto Di.Ga.

M. ed il Lo., uomo legato al F., in vista di una possibile composizione del suddetto contrasto, e nell’avere poi anche favorito la latitanza del medesimo Di.Ga.;

– quanto al C.V. ed al L., nell’avere anch’essi favorito la latitanza del Di.Ga. oltre che, limitatamente al L., nell’avere costui messo in contatto il Di.Ga. con altro esponente mafioso a nome L.R.F., in vista della realizzazione di attività criminali tra le quali, in particolare, l’estorsione poi posta in essere nei confronti dell’imprenditore A.G.;

– quanto al S. ed al B., nell’avere anch’essi favorito, ma non in modo sistematico e tale da rendere configurabile il concorso esterno, la latitanza del suddetto Di.Ga., procurandogli rifugio in alloggi ritenuti sicuri;

– quanto al C.F. (figlio di V.), nell’aver egli collaborato alla realizzazione di un incontro riservato di natura mafiosa tra il Lo. ed il Co.;

– quanto al M., infine, nell’avere egli essenzialmente svolto funzioni di copertura, quale prestanome del Co., sotto la direzione di costui, in attività controllate dal sodalizio mafioso.

– che gli elementi probatori a carico dei suddetti imputati erano, nell’essenziale, secondo la Corte di merito, i seguenti:

– per LO.. a) dichiarazioni del Di.Ga. e di altro collaborante a nome Ga.Ig., cui si aggiungevano l’avvenuto rinvenimento di due "pizzini" attinenti al ruolo di "paciere" che il Lo. avrebbe potuto svolgere con riferimento ad un contrasto insorto tra il noto esponente mafioso Me.De.Ma. (autore di uno di detti "pizzini" mentre l’altro era del F.) e tale Ca.;

b) intercettazione ambientale del 3 ottobre 2005, dalla quale emergeva il pieno e consapevole coinvolgimento del soggetto, coadiuvato dal cognato Mo.Gi.Gi. (anch’egli condannato, ma non ricorrente) nella cennata attività di collegamento tra il F. ed il Ro.;

c) altre conversazioni dalle quali emergeva poi anche il ruolo attivo che il Lo. avrebbe assunto in vicende attinenti alla vita del sodalizio mafioso, tra cui, in particolare, la cd. vicenda m., nella quale – si afferma – si era manifestato un contrasto tra m.G., gestore di un esercizio commerciale, ed il titolare della relativa licenza, il quale si era rivolto ad esponenti palermitani di Cosa Nostra, mentre il m. si era rivolto proprio al Lo..

– per G.. a) intercettazioni di comunicazioni dalle quali emergeva come il G., ritenuto soggetto insospettabile perchè privo di precedenti di mafiosità e dedito a normale attività lavorativa quale titolare di un laboratorio di falegnameria, avesse posto in essere ripetuti contatti telefonici, anche in presenza del Lo., con il D.G. e con c.c. (indicato come noto esponente mafioso), soprattutto nel periodo 27 settembre – 3 ottobre 2005, in funzione della importante trasferta del Mo. a Palermo per incontrarsi con il Ro. e del successivo incontro tra Lo. e Co., avvenuto appunto il 3 ottobre 2005, a seguito della ricezione del "pizzino" affidato dal Ro., per l’inoltro al destinatario, al nominato Mo.;

b) altre intercettazioni dalle quali emergeva, tra l’altro, come il G. avesse personalmente partecipato, con il Mo., ad altre trasferte a Palermo nei giorni 1 febbraio e 3 marzo 2006, finalizzate ad incontri di esso Mo. con il Ro.

(sottoposto, il precedente 13 gennaio 2006, ad una perquisizione che aveva investito il box di lamiera annesso alla sua abitazione e, fino a quel momento, ritenuto sicuro), avendo modo, in tali occasioni, di rendesi conto, anche a cagione della particolari precauzioni imposte ai partecipanti a tali incontri, del loro carattere di riunioni mafiose.

– per D.G.. a) dichiarazioni di Di.Ga. (che indica come fonte tale V. F.), secondo cui il D.G. "camminava" come uomo d’onore di Canicattì;

b) intercettazioni dalle quali emergeva come il D.G. avesse partecipato ad incontri con il Ro. nel già ricordato box di lamiera e gli avesse presentato un suo nipote, a nome D., e come, l’11 ottobre 2005, si fosse prestato a rendersi latore di un "pizzino" di P.B. diretto al F.;

c) avvenuto accertamento, mediante servizi di osservazione, di altri accessi presso l’abitazione del Ro., in numero di circa venti, avvenuti nel periodo 9 aprile 2004 – 21 marzo 2006 e non spiegabili, secondo la corte di merito, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, con la finalità di lavori che il D.G., quale titolare di una ditta di infissi, avrebbe dovuto effettuare in zona.

– per R.. a) dichiarazioni di Di.Ga., secondo cui il R., da lui definito "un anziano" vicino a Cosa nostra, pur non essendo "uomo d’onore", era tuttavia a capo di una delle cd. "famigliedde", formalmente autonome rispetto a Cosa nostra ma disponibili a fornire, di volta in volta, attività di sostegno ed aveva, in detta qualità, curato, su direttive di tale A.P., la latitanza di esso Di.Ga. nel corso di diversi mesi, facendo in modo di procurargli alloggi ritenuti sicuri, ed lo aveva altresì introdotto presso il Lo., in vista dell’opera di mediazione che costui avrebbe dovuto svolgere nei confronti del F., le cui aspirazioni al predominio nella zona di Agrigento erano contrastate proprio dal Di.

G.;

b) conversazioni intercettate tra cui, in particolare, quella del 9 marzo 2006 tra C.V. e C.M., nelle quali si riferiva della presenza del R. nel luogo in cui si nascondeva il Di.Ga. e del suo disappunto per il fatto che il segreto non sarebbe stato adeguatamente mantenuto.

– per C.V.. a) dichiarazioni di Di.Ga., circa il sostegno che il C., da lui indicato come vecchio "uomo d’onore" (circostanza, però, non confermata da altre fonti) gli avrebbe prestato durante la sua latitanza, dopo essergli stato presentato dal B., genero dello stesso C.;

b) intercettazione ambientale, ritenuta "decisiva" dalla corte di merito, del 3 ottobre 2005 in occasione dell’incontro Lo.

– Co., dopo la trasferta a Palermo da parte del Mo., da cui emergeva come anche per il passato il C. avesse messo a disposizione il medesimo locale per analoghi incontri di tipo mafioso. c) altre conversazioni intercettate, quali, in particolare: – quella del 15 aprile 2006 con il figlio F., in cui il C. si lamenta di aver lavorato per tanto tempo a sostegno della famiglia mafiosa locale, senza ricavarne vantaggi, e riferisce dell’offerta, da lui declinata, fattagli dal Co., da parte del Lo., di entrare ufficialmente nel sodalizio con ruolo dirigenziale; – quella del 26 giugno 2006 con B., in cui il C. dice di aver assicurato comunque al R. la sua disponibilità a continuare, come per il passato, a restare a disposizione del sodalizio.

– per C.F..

– intercettazione ambientale del 3 ottobre 2005, dalla quale, secondo la corte di merito, si rilevava la presenza, oltre che del Lo., del Co. e del C.V., anche del C.F., figlio di V. (e dipendente del Co.), al quale il V. si era rivolto con l’appellativo (già usato in altre conversazioni intercettate tra padre e figlio) di " C.".

– per B.. a) dichiarazioni del Di.Ga., secondo cui era stato B. a presentargli il suocero C.V. come persona in grado di favorire la sua latitanza, procurandogli alloggi sicuri;

b) conversazione intercettata del 9 marzo 2006 tra C.V. e C.M., in cui il primo si riferiva alla ospitalità che ad un latitante era stata data prima dal B. e poi dai cognati di esso C., fratelli Li..

– per CO.. a) dichiarazioni del Di.Ga., secondo cui Co., pur da lui non conosciuto, ma indicato come uno dei soggetti più vicini al F., dal quale sarebbe stato formalmente affiliato, curava la trasmissione dei messaggi diretti a quest’ultimo;

b) intercettazione ambientale da cui emergeva la presenza del Co. all’incontro del 3 ottobre 2005;

c) altre intercettazioni, tra cui: – quella del 15 aprile 2006 tra i due C., in cui V. riferiva della proposta fattagli dal Co. di entrare ufficialmente, con ruolo dirigenziale, nella consorteria mafiosa; – quella del 6 maggio 2006 tra C. V. e tale Pi.Se., in cui si commentava negativamente il fatto che Co., quale alter ego del F., avesse decretato l’esclusione del figlio dello stesso Pi. dall’assegnazione di lavori; – quella del 26 giugno 2006 tra C.V. e B. e la moglie, in cui il primo, commentando l’avvenuto arresto di tale c., esprimeva il timore che anche Co., sottoposto a controlli con "un bordello di microspie", incontrasse la stessa sorte; – quella (ritenuta secondaria) del 12 ottobre 2003, tra tali L.R. F. (a suo tempo condannato per associazione mafiosa) e Ri.Gi., in cui si parlava del "figlio di C. A.", e cioè, sicuramente, dell’attuale ricorrente, come soggetto inviato dal F. a fissare un appuntamento con tale ca.fr., esponente della mafia catanese indicato come vicino al detto L.R..

– per M.. a) dichiarazioni di Di.Ga., secondo cui il M. (la cui famiglia veniva indicata con il nome di "Maranna") era "uomo d’onore" e aveva svolto attività imprenditoriale grazie alla protezione del Co. e, per il tramite di costui, del F.;

b) intercettazioni di conversazioni tra cui, in particolare: – quella (già ricordata) del 15 aprile 2006 tra i due C., in cui si accennava ai numerosi lavori svolti dal M. in virtù di detta protezione come pure all’invito che anch’egli, come il Co., avrebbe rivolto al C.V.di entrare come dirigente nel sodalizio mafioso; – quella (pure già ricordata) del 6 maggio 2006, in lui il Pi. si doleva, come si è visto, dell’esclusione del proprio figlio dai lavori edili, affidati in gran parte, per volontà del Co., al M. (al quale, secondo la corte di merito, esso Pi. si sarebbe riferito indicandolo come " C." che aveva l’"odore dello zio L., a sua volta identificabile in M.C., zio, in effetti, dell’attuale imputato e all’epoca già deceduto); – quella del 9 marzo 2006 tra C.V. e C.M., in cui si parlava del M. come soggetto al quale ci si sarebbe potuti rivolgere per avere utili notizie su di un furto di mezzi agricoli subito da tale Bu.Vi., – quella del 22 luglio 2006 tra C. V. e C.F., in cui ci si lamentava dell’arricchimento del M. avvenuto grazie al sostegno del F..

– per S.. a) dichiarazioni del Di.Ga., che indicava nel S., da lui riconosciuto in fotografia, colui che lo aveva tenuto nascosto in casa per circa un mese;

b) intercettazioni di conversazioni tra C.V. ed altri in cui si parlava dell’aiuto fornito dal S. al detto Di.Ga.;

c) ammissione del fatto materiale da parte dello stesso imputato.

– per L..

– quanto al reato associati vo:

a) dichiarazioni di Di.Ga., secondo cui il L., indicato come mafioso di peso a Catania, lo aveva messo in contatto con il L. R.F., dal che era nata l’idea di "mettere a posto" l’imprenditore A., con l’accordo che le somme da costui versate sarebbero state recepire da esso Di.Ga., che poi le avrebbe smistate ai catanesi proprio per il tramite del L.. b) conversazione intercettata del 5 agosto 2003 tra L.R. e tale Mi.Al., da cui emergeva che il L., indicato come " I.", si era fatto latore di un messaggio diretto all’allora latitante Di.Ga.. c) conversazione intercettata del 28 settembre 2003 tra L.R. e Ri., in cui il primo, riferendo dell’incontro avuto con il Di.Ga., parlava del ruolo svolto, nell’occasione, dal L.. d) servizi di osservazione del 18 agosto 2003 e del 24 settembre, confermativo di incontri tra il L.R. ed il Di.Ga..

– quanto all’estorsione. e) dichiarazioni del Di.Ga., secondo cui il L. era colui al quale l’ A. consegnava il "pizzo";

f) intercettazioni di conversazioni quali, in particolare: – quella dell’8 agosto 2003, ore 17.17, tra il L. e tale Iu., confermativa del ruolo che il primo aveva nella riscossione del "pizzo", lamentandosi del fatto che nell’operazione si sarebbe inserita altra persona; – quella dello stesso 8 agosto 2003, ore 17.50, tra gli stessi soggetti, relativa allo stesso argomento; – quella, ancora, dell’8 agosto 2003, ore 19.15, incentrata anch’essa sulle questioni relative al pagamento del "pizzo" da parte dell’ A..

– che avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gl’imputati denunciando:

LO. (avv. Mormino).

1) Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al confermato giudizio di colpevolezza, sull’assunto, in particolare, che: – 1/a) sarebbe mancata la dimostrazione della effettiva sussistenza del ruolo dirigenziale attribuito al ricorrente nel capo d’imputazione, essendosi posta in luce soltanto la condotta che sarebbe consistita nell’avere il Lo. collaborato alla trasmissione dei messaggi diretti dal Ro. al F.; – 1/b) sarebbe altresì mancata dimostrazione dell’intrinseca attendibilità dei collaboranti, a proposito dei quali si osserva che uno di essi (il Ga.) risultava essere stato in Sud Africa dalla fine degli anni ’90 all’agosto 2004 e l’altro (il Di.Ga.) era mosso da un evidente sentimento di rancore nei confronti del ricorrente, essendo stato quest’ultimo un sostenitore del F., il quale aveva avuto la meglio su esso Di.Ga. nell’acquisizione del ruolo di rappresentante locale di Cosa Nostra; – 1/c) inconsistente sarebbe stato il valore probatorio dei "pizzini" nei quali il Lo. veniva indicato come possibile "paciere" dei contrasti insorti nel sodalizio mafioso, non risultando dimostrato che egli avesse poi in effetti svolto una tale funzione ed avendo anzi l’autore di uno di detti "pizzini" (il Me.De.) espresso perplessità circa l’impiego del Lo. nella funzione anzidetta;

2) erroneità della mancata riduzione della pena, giustificata dalla corte di merito con la considerazione che la stessa sarebbe stata di poco superiore al minimo edittale, laddove si sarebbe dovuto tener presente che il giudice di primo grado aveva inteso fissarla proprio nel minimo edittale, individuandolo però, in anni 12 anzichè, come avrebbe dovuto, in anni 10 di reclusione, avuto riguardo al "tempus commissi delicti", anteriore all’entrata in vigore della norma che aveva inasprito le pene previste dall’art. 416 bis c.p., e, segnatamente, quelle previste per l’ipotesi aggravata (ritenuta nella specie) di cui al comma 4, citato art.;

3) ulteriore errore, in punto di pena, costituito dalla mancata riduzione, ex art. 442 c.p.p., dell’aumento per continuazione operato dalla corte territoriale sulla pena di cui a precedente condanna, divenuta irrevocabile, pronunciata dalla Corte d’assise d’appello di Palermo il 22 marzo 2003; condanna che, secondo quanto affermato nell’impugnata sentenza, sarebbe stata inflitta all’esito di giudizio ordinario laddove risultava invece che il ricorrente aveva comunque fruito, nell’occasione, della riduzione ex art. 442 c.p.p. per la ritenuta ingiustificatezza del mancato consenso al rito abbreviato da parte del pubblico ministero, secondo la disciplina all’epoca vigente; doglianza, questa, poi ripresa nelle note a firma del medesimo difensore depositate all’udienza;

G. (avv. Munzi).

1) ingiustificata attribuzione alle conversazioni intercettate di un significato diverso da quello emergente dal loro testuale tenore, chiaramente riferibile a lavori di falegnameria che il G. doveva eseguire e per i quali aveva bisogno della collaborazione del D.G., esercente attività di fabbro, atteso che detti lavori consistevano nella realizzazione di una porta da realizzare su di un telaio di ferro;

2) erroneità ed arbitrarietà dell’interpretazione data dalla corte di merito ai colloqui, agli incontri ed agli spostamenti del ricorrente, a fronte delle logiche, ma del tutto disattese, spiegazioni offerte dalla difesa, basate sulla documentata esistenza di rapporti di lavoro con il Lo. e suoi familiari nonchè sulla passione, condivisa con il Mo., per automobili e moto d’epoca; ragione, questa, che era stata alla base della trasferta a Palermo, in vista dell’acquisto, poi realizzato, di una Fiat 500 dal macellaio Ma.;

3) erroneità della ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, posto che della eventuale sussistenza delle condizioni che rendevano configuratali tali aggravanti il G., quale concorrente esterno, non necessariamente avrebbe dovuto avere contezza;

4) erroneità della mancata derubricazione dell’imputazione in quella di favoreggiamento, non essendo stata in alcun modo dimostrata l’esistenza, in capo del ricorrente, dell’"affectio societatis", non certo desumibile dai contatti da lui avuti occasionalmente con singoli presunti appartenenti al sodalizio mafioso;

5) eccessività della pena inflitta, a fronte della personalità del ricorrente, dedito ad onesto lavoro e privo di altri precedenti o pendenze penali;

6) mancata giustificazione della confermata condanna del G., in solido cogli altri imputati, al risarcimento dei danni in favore della costituite parti civili, comuni di Canicattì e Agrigento, in assenza di prova circa la sussistenza di uno specifico nesso di causalità tra la condotta addebitata al ricorrente ed il danno risarcibile;

D.G. (avv. Vianello Accorretti).

1) erroneità del mancato accoglimento della proposta eccezione di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali relative al box in lamiera del Ro., sull’assunto che nel relativo Decreto n. 1287 del 2005, emesso in via di urgenza dal pubblico ministero, nello stabilire che le operazioni fossero effettuate con impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, non sarebbe stata fornita alcuna indicazione circa la specifica collocazione di detti impianti presso un determinato ufficio di polizia giudiziaria;

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al confermato giudizio di colpevolezza dell’imputato, sull’assunto che: – 2/a) esso sarebbe basato su meri indizi, tali dovendosi considerare tanto le generiche dichiarazioni "de relato" del Di.Ga. (non basate su conoscenza diretta del ricorrente e non corroborate dall’audizione della fonte di riferimento, oltre che rese inaffidabili dalle ragioni di astio del dichiarante nei confronti dello stesso ricorrente), quanto le risultanze delle intercettazioni, dimostrative di due soli contatti con il Ro., giustificabili con la pregressa, antica conoscenza del personaggio e con la documentata effettuazione di lavori, da parte dell’impresa del ricorrente, da effettuare nella zona in cui il Ro. abitava; – 2/b) non sarebbe stata in alcun modo dimostrata l’effettiva consegna, al ricorrente, del "pizzino" che, secondo l’accusa, egli avrebbe dovuto far pervenire al F. da parte del nominato Ro.; incarico, questo, che, peraltro, non sarebbe affatto rientrato in una prassi consolidata ma sarebbe stato il frutto di una particolare situazione contingente legata all’avvenuto arresto di tale " Sa.", precedentemente incaricato delle funzioni di corriere; 2/c) i contenuti delle conversazioni intercettate, quali riportati nell’atto di gravame, non sarebbero stati comunque tali da giustificare l’interpretazione in chiave colpevolista datane dai giudici di merito, specie considerando come in un "pizzino" inviato dal F. al P. ci si riferisse al ricorrente come soggetto che non faceva parte della "società" ed andava tuttavia mettendo in cattiva luce esso F. presso il Ro.; elemento, questo, che, secondo la difesa, i giudici avrebbero indebitamente neutralizzato sulla base del semplice rilievo che la non appartenenza del soggetto alla "societas sceleris" sarebbe stata da intendere solo come difetto della rituale "punciuta", omettendo altresì di considerare come il D.G. traesse i suoi mezzi di sussistenza da lecita e riconosciuta attività di lavoro quale titolare di un’impresa di infissi metallici;

3) violazione di legge e vizio di motivazione, sempre con riferimento al confermato giudizio di colpevolezza, sull’assunto che del tutto ingiustificata sarebbe stata l’esclusione, da parte dei giudici di merito, della possibilità che, a tutto concedere, il D.G. potesse essere considerato responsabile soltanto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso o, addirittura, di semplice favoreggiamento, avuto riguardo, in particolare, alla sporadicità dell’episodio costituito dal preteso affidamento dell’incarico di provvedere alla trasmissione del "pizzino" diretto al F.;

4) violazione di legge ( art. 192 c.p.p., comma 1 e art. 603 c.p.p.) in ordine al diniego opposto dalla corte di merito alla richiesta di riapertura del dibattimento per l’espletamento di una perizia sulla trascrizione delle conversazioni intercettate l’11 maggio 2005, a fronte del fatto che, secondo la consulenza di parte versata in atti, da esse, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, non sarebbe stata chiaramente percepibile nè la provenienza del "pizzino" dal P. nè la sua destinazione al F.;

5) violazione di legge ( art. 2 c.p., art. 11 preleggi e L. n. 251 del 2005) con riguardo all’applicazione del più severo regime sanzionatorio introdotto dalla L. n. 251 del 2005, sulla sola base dell’indimostrato assunto che la permanenza del reato associativo si sarebbe protratta fino alla data del decreto che disponeva il giudizio;

6) violazione di legge (artt. 416 bis, 132 e 133 c.p. e art. 533 c.p.p., comma 2), con riguardo alla determinazione della pena inflitta (anni sei di reclusione) in misura prossima – si afferma – ai massimi edittali;

7) violazione di legge (artt. 199 ss. c.p.) in ordine alla conferma della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anni due, in assenza di elementi effettivamente dimostrativi della pericolosità del soggetto;

8) violazione di legge ( art. 538 c.p.p.) con riguardo alla conferma delle statuizioni civili in assenza – si afferma – di qualsivoglia rapporto "di causa effetto tra i danni lamentati dalle parti civili costituite e la condotta ascritta all’imputato".

R. (avv. Tricoli).

1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del concorso esterno in associazione di tipo mafioso, sull’assunto che non sarebbero state tratte le debite conseguenze dall’avvenuta assoluzione dal reato associativo di Pi.

S., la cui posizione, alla stregua delle dichiarazioni del Di.

G., sarebbe stata assimilabile a quella del R., e sarebbe stata inoltre indebitamente attribuita ad alcune conversazioni intercettate valenza di riscontro alle affermazioni del Di.Ga. circa il ruolo di raccordo che, a dire del medesimo, il R. avrebbe svolto tra il medesimo Di.Ga. ed il Lo.;

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

C.V. (avv. Di Gregorio).

1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità del ricorrente a titolo di concorso esterno nel reato di cui all’art. 416 bis c.p., sull’assunto che non sarebbero state tratte le debite conseguenze dal fatto che il C. aveva rifiutato la proposta di entrare a far parte, con ruolo dirigenziale, del sodalizio mafioso, come pure dal fatto che non si aveva contezza del contenuto del colloquio tra Co. e Lo., in occasione dell’incontro del 3 ottobre 2005 alla cui realizzazione il C. avrebbe collaborato ed ancora dal fatto che lo stesso ricorrente aveva mostrato preoccupazione e fastidio per quanto si era visto indotto a fare in vista di detto incontro, dal quale temeva potessero derivare accuse di carattere penale a suo carico (come, in effetti, avvenuto).

2) difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, non essendosi neppure chiarito se il preteso concorso esterno fosse riferito a Cosa nostra o ad una delle "famigliedde" autonomamente operanti in Favara, con riguardo alle quali le dette aggravanti non sarebbero state certamente configurabili;

3) erronea applicazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta applicabilità del più severo trattamento sanzionatorio previsto dalla L. n. 252 del 2005, non essendo risultato in alcun modo dimostrato che il preteso concorso esterno si fosse protratto dopo la data del 3 ottobre 2005 e fino a dopo l’entrata in vigore di detta legge;

C.F. (avv. Bonsignore).

1) violazione di legge e vizio di motivazione relativamente all’ordinanza in data 28 settembre 2009 con la quale era stata respinta la richiesta di rinnovazione parziale dell’istruzione probatoria (prevista anche nel caso di giudizio abbreviato) onde acquisire la relazione di consulenza tecnica di parte dalla quale emergeva – si sostiene – come non fossero attribuibili al ricorrente le parole che egli, secondo l’accusa, avrebbe pronunciato in occasione dell’incontro del 3 ottobre 2005 al quale aveva sempre negato, in effetti, di essere stato presente; richiesta, quella anzidetta, cui si accompagnava, in via subordinata, quella di disporre perizia fonica sui risultati dell’intercettazione, nella parte in cui conteneva le frasi attribuite al ricorrente;

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta prova della presenza del ricorrente al suddetto incontro, sulla sola base del fatto che a lui il C.V. si sarebbe rivolto con l’appellativo " C.", laddove risultava che era stato invece lo stesso ricorrente, in altre occasioni, ad usare il medesimo appellativo per rivolgersi ad altra persona e che con quell’appellativo era stato talvolta indicato il M. F.; e ciò senza contare che, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte di merito, appariva inverosimile – si afferma – che se il " C." fosse stato davvero il C.F. il padre sarebbe stato costretto ad indicargli dov’era l’interruttore della luce, la cui ubicazione egli, come pratico della casa in quanto figlio del proprietario, ben avrebbe dovuto conoscere;

3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, sull’assunto che non sarebbe stato in alcun modo dimostrato che il preteso favoreggiamento dell’incontro tra Co. e L. fosse stato posto in essere con la consapevole finalità di giovare non ad essi personalmente ma all’intera organizzazione della quale gli stessi sarebbero stati partecipi;

4) violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla conferma della misura di sicurezza della libertà vigilata, non essendosi considerato che, a seguito della derubricazione dell’imputazione dall’art. 416 bis a 378 c.p., non poteva più trovare applicazione il disposto di cui all’art. 417 c.p. che rende detta misura obbligatoria in caso di condanna per il primo di detti reati;

B. (avv. Marasà).

1) ingiustificatezza della ritenuta responsabilità del ricorrente in ordine al reato di favoreggiamento, sull’assunto che, esclusa la sua appartenenza tanto a "Cosa nostra" quanto ad una delle locali "famigliedde", ed essendo quindi risultato, sulla scorta sia delle dichiarazioni del Di.Ga. che delle conversazioni intercettate, che egli si era limitato ad accogliere la richiesta di trovare una provvisoria sistemazione per il detto Di.Ga., non si sarebbe in alcun modo potuto dare per certo che vi fosse in lui la consapevolezza di quale fosse la caratura mafiosa del personaggio e meno ancora la volontà di favorire in tal modo anche gli interessi del sodalizio mafioso del quale lo stesso faceva parte; e ciò tanto più in quanto era stato messo in luce – si afferma – negli atti difensivi che il B. aveva respinto le proposte che gli erano state fatte di entrare in detto sodalizio ed aveva addirittura mostrato avversione nei confronti del Di.Ga., quando aveva avuto occasione di rivederlo;

2) ingiustificatezza della esclusione delle attenuanti generiche e del diniego di una riduzione della pena determinata – si afferma – in misura corrispondente al massimo edittale;

CO. (avv.ti Restivo e Modica).

Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta equivalenza tra le riconosciute attenuanti generiche e le aggravanti, nonostante che dette attenuanti fossero state, di fatto, ritenute prevalenti dal giudice di primo grado, essendo stato operato, in forza delle stesse, una riduzione di pena nella misura di un anno di reclusione.

M..

1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al confermato giudizio di colpevolezza, sull’assunto che: – 1/a) esso ricorrente, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, non sarebbe stato identificabile in alcuno dei tre fratelli ma. (uno dei quali a nome g.) che, secondo il Di.Ga., avrebbero favorito la latitanza del F. (non avendo egli alcun fratello a nome g.) e non sarebbe stato identificabile nel " C. il tubercoloso", menzionato in talune delle conversazioni intercettate, nè avrebbe partecipato alla riunione del 5 ottobre 2005 (partecipazione erroneamente desunta – si afferma – da una conversazione intercorsa tra C.V. e C. F.); – 1/b) lo stesso ricorrente, inoltre – si afferma ancora – non avrebbe mai esercitato attività imprenditoriali, essendo un semplice camionista, e non avrebbe potuto essere favorito nella sua ascesa economica dal di lui padre, a nome g., essendo questi persona alla quale i C. si riferivano come ad uomo dappoco;

elementi tutti questi che – si sostiene – la difesa avrebbe rappresentato, senza ottenere valida risposta, nell’atto di appello avverso la sentenza di primo grado;

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata esclusione delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, pur nella segnalata assenza di elementi dai quali si potesse desumere la consapevolezza, da parte del ricorrente, della ipotetica sussistenza delle condizioni atte a rendere configurabili le dette aggravanti;

3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento, con carattere di prevalenza, delle attenuanti generiche, concesse invece al coimputato Co. al cui trattamento sanzionatorio la stessa corte di merito, nell’impugnata sentenza, aveva affermato che dovesse equipararsi quello del M..

S. (avv. Nicotra – motivi originali).

1) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al confermato giudizio di colpevolezza per il reato di favoreggiamento, sull’assunto che non sarebbe stato adeguatamente considerato, in relazione all’elemento psicologico del reato ed alla ritenuta aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, come il ricorrente non avesse ospitato il Di.Ga. a casa sua, ma in una casa di campagna da lui non abitata e come il Di.Ga., all’epoca, non fosse ancora stato condannato per mafia e non potesse neppure essere considerato, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito, il più importante personaggio mafioso della zona, attesa la preminenza che già all’epoca aveva acquistato il F.; nè elementi a sostegno della tesi d’accusa si sarebbero potuti ricavare, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di merito, dalla conversazione intercettata del 26 giugno 2006 tra C.V. ed altro soggetto, in cui ci si riferiva ad un impiegato statale dai capelli rossi che avrebbe "portato spesso a questo M. (cioè il Di.Ga.) per andarlo a nascondere", atteso che – si afferma – il ricorrente non ha i capelli rossi e non conosce i soggetti tra i quali intercorreva la suddetta conversazione;

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla quantificazione della pena, determinata in misura corrispondente ai massimi edittali, nonostante l’incensuratezza del soggetto e la confessione da lui resa sul fatto.

(avv. Nicotra – note di udienza).

– intervenuta prescrizione del reato, atteso l’avvenuto decorso, dall’epoca della sua commissione, di un tempo superiore al termine massimo da individuarsi in quello di anni sette e mesi sei;

(avv. Gaito – motivi originari).

1) erronea applicazione della legge penale ed illogicità di motivazione circa la ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato e dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, sulla base di argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle poste a sostegno del corrispondente motivo del ricorso a firma dell’altro difensore, con accentuazione delle critiche relativamente all’aggravante, la cui sussistenza – si afferma – sarebbe stata indebitamente desunta dal solo fatto che il soggetto favorito sarebbe stato un esponente di spicco del sodalizio criminoso;

2) violazione delle regole di valutazione della prova derivante da intercettazioni, unitamente a vizio di motivazione, sull’assunto che sarebbe da riguardarsi come contrario alle regole del giusto processo l’indirizzo interpretativo, pur dominate, secondo il quale con riguardo alla utilizzabilità, a fini probatori, di affermazioni contenute in conversazioni intercettate non troverebbero applicazione le regole dettate dagli artt. 62 e 63 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3. 3) errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione in ordine alla quantificazione della pena, per ragioni analoghe a quelle di cui al motivo n. 2 del ricorso a firma dell’avv. Nicotra;

(avv. Gaito – motivi nuovi).

– erroneità della ritenuta sufficienza, secondo quanto si legge nell’impugnata sentenza, del solo dolo generico ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, seconda ipotesi;

L. (avv. Nicotra).

1) inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per la già a suo tempo denunciata assenza, in atti, dei decreti di autorizzazione contrassegnati dal n. 20/03 del pubblico ministero di Catania;

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza dell’imputato a titolo di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, sull’assunto che il periodo nel quale il L. avrebbe, in concreto, svolto un ruolo attivo sarebbe limitato al solo secondo semestre dell’anno 2003 e le dichiarazioni del Di.Ga., già di per sè contraddittorie circa la composizione della società Calcestruzzi, facente capo al L. ed alla quale anche il Di.Ga. sarebbe stato interessato, non troverebbero neppure riscontri esterni, tali non potendosi considerare le dichiarazioni del Ga., e sarebbero inoltre in contrasto con il fatto che detta società aveva subito un grave furto di automezzi ed era stata in seguito dichiarata fallita a causa del cattivo andamento degli affari;

3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza del ricorrente in ordine al reato di estorsione, sull’assunto che, stando alle acquisite risultanze, il L. avrebbe ricevuto il danaro non dall’ A. ma dal Di.Ga., per poi passarlo ai "catanesi", senza aver quindi contatti con il detto A. (contrariamente a quanto ricostruito dai giudici di merito), o addirittura non vi sarebbe stata proprio alcuna estorsione, atteso quanto dichiarato dallo stesso A., con il quale, peraltro, il L. aveva – si afferma – regolari rapporti commerciali, come documentato dalle fatture prodotte in atti; argomentazioni, queste, cui se ne aggiungono altre volte a dimostrare come dal raffronto tra le dichiarazioni del Di.Ga. in data 20 aprile 2007 e quelle successivamente rese il 13 ottobre 2008 davanti al tribunale di Agrigento emergessero contraddizioni ed incertezze tali da escludere la oggettiva attendibilità del "collaborante" e come dette dichiarazioni non trovassero comunque alcun valido riscontro nel contenuto delle conversazioni intercettate, potendo da esse soltanto desumersi, a tutto concedere, che sarebbe stato il solo Iu. ad avere rapporti diretti con l’ A., onde ottenere da quest’ultimo somme di danaro;

4) violazione di legge per il diniego delle attenuanti generiche, sulla sola base della pretesa esistenza di precedenti penali, in realtà costituiti solo da reati depenalizzati;

5) violazione di legge in ordine alla determinazione della pena, siccome avvenuta – si afferma – applicando i massimi edittali, nonostante le "correzioni apportate alla sentenza di primo grado" da parte dei giudici d’appello e nonostante che la condotta di ritenuto concorso esterno si fosse limitata all’arco di pochi giorni nel corso dell’anno 2003;

(avv. Gaito – motivi originari).

1) inutilizzabilità: – 1/a) delle intercettazioni disposte dalla procura della repubblica di Catania (con i decreti indicati nella nota a pag. 4 dell’atto di ricorso), sull’assunto che gli stessi non sarebbero stati adeguatamente motivati nè con riguardo al requisito dell’urgenza nè con riguardo a quello della indisponibilità o inidoneità degli impianti della suddetta procura della Repubblica; – 1/b) delle intercettazioni disposte con altri decreti (nn. 60/00 del 23 maggio, 10 agosto e 28 dicembre 2002) indicati a pag. 7 dell’atto di ricorso, in quanto dichiarate già inutilizzabili, nell’ambito del procedimento originario, con sentenza della Cassazione, sez. 2, 24 ottobre-8 novembre 2006 e poi con sentenza della Corte d’assise di Catania in data 4 aprile 2007; – 1/c) dell’intercettazione ambientale disposta sull’autovettura di Iu. (indicata come quella essenzialmente posta a base del giudizio di penale responsabilità dell’imputato), attesa la mancanza in atti dei relativi decreti autorizzativi e dei verbali e l’assenza di risposta alla eccezione che al riguardo era stata formulata dalla difesa;

2) censurabilità, avuto riguardo ai principi del "giusto processo", della corrente interpretazione giurisprudenziale secondo la quale alle dichiarazioni contenute in conversazioni intercettate non sarebbero applicabili le regole dettate dagli artt. 62 e 63 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3;

3) vizio di motivazione circa la ritenuta responsabilità del ricorrente in ordine al reato associativo, posto che – si afferma – all’epoca dei fatti il Di.Ga. era già "in disgrazia" e, d’altra parte, nessuna risposta era stata fornita all’avvenuta rappresentazione, nell’atto di appello, degli elementi a favore del L., quali richiamati poi anche nel ricorso;

4) "infedeltà agli atti del processo" e omessa risposta alle censure difensive con riguardo al reato di estorsione; censure richiamate nell’atto di ricorso ed attinenti, in particolare, all’interpretazione che i giudici di merito avevano dato alla conversazione intercettata dell’8 agosto 2003 ed alla mancata considerazione, da parte degli stessi giudici, della smentita che alle dichiarazioni del Di.Ga. sarebbe venuta dal fatto che il L. R. e tale Mi.Al. erano stati entrambi arrestati in esecuzione di ordinanza cautelare emessa il 7 luglio 2005, per cui sarebbe stato smentito quanto affermato dal Di.Ga. secondo cui il L. avrebbe dapprima consegnato le somme versategli dall’estorto al Mi. e, successivamente all’arresto di costui, al L. R.;

5) violazione di legge in ordine alla ritenuta compatibilità fra l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e quella di cui all’art. 628 c.p., comma 3, n. 3;

6) "elusione dei canoni di valutazione della prova indiziaria" unitamente ad illogicità di motivazione con riguardo alla mantenuta confisca della soc. Calcestruzzi, sull’assunto che le dichiarazioni del Di.Ga. circa la interessenza di costui nella società Calcestruzzi non avrebbero trovato idoneo riscontro in quelle del Ga. e sarebbero state anzi smentite, come già rilevato nel motivo n. 4, dal fatto costituito dal contemporaneo arresto, nel 2005, del Mi. e del L.R.;

7) inutilizzabilità, ai fini del giudizio di colpevolezza, dell’elemento di prova costituito dalle dichiarazioni rese dal Di.

G. in sede di esame davanti al tribunale di Agrigento il 3 novembre 2008, nell’ambito di altro procedimento, essendo state acquisito – si afferma – il relativo verbale senza il consenso delle parti, in violazione del disposto di cui all’art. 238 c.p.p.;

8) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena nella misura (che si assume eccessiva) di anni otto e mesi otto di reclusione nonchè in ordine al diniego delle attenuanti generiche sulla sola base dell’asserita assenza di alcun elemento positivo valutabile a favore dell’imputato;

(avv. Gaito – motivi nuovi).

– illogicità (a conferma ed ulteriore illustrazione di quanto già rappresentato, in particolare, nel motivo indicato come n. 3 dell’originario atto di ricorso), del giudizio di penale responsabilità del ricorrente a titolo di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, atteso che la condotta costitutiva di detto concorso, essenzialmente consistita nell’aver posto in contatto il L.R. con il Di.Ga., si collocava in epoca successiva alla perdita, da parte di quest’ultimo, del ruolo dirigenziale nell’ambito del sodalizio criminoso, in favore del F..

Motivi della decisione

quanto al L.:

a) che non appare meritevole di accoglimento il primo motivo di ricorso, in quanto l’assunto secondo il quale non risulterebbe adeguatamente dimostrata la partecipazione del ricorrente, con ruolo dirigenziale, al sodalizio di tipo mafioso (della cui obiettiva esistenza la stessa difesa non mostra in alcun modo di dubitare), si appalesa del tutto privo di consistenza, ove si consideri che nell’impugnata sentenza risultano attribuiti al Lo., indicato come "consigliere provinciale" di "Cosa nostra" per il territorio di Agrigento, oltre all’attività di collegamento tra i vertici del sodalizio mafioso, a Palermo, ed il "rappresentante" locale, indicato nel F. (attività comprovata, al di là di ogni ragionevole dubbio, dal contenuto delle intercettazioni richiamate nell’impugnata sentenza, dimostrative dell’incontro tra il Lo. e il Co. seguito alla missione del Mo. a Palermo), anche lo svolgimento di un ruolo attivo (scarsamente compatibile con una posizione che non fosse di rilievo, rispetto a quella di un semplice partecipe del medesimo sodalizio) nella cd.

"vicenda m."; elemento, questo, che risulta del tutto ignorato nel ricorso; e ciò a prescindere dalla ulteriore, ma non certo secondaria, considerazione che, dandosi per acquisito dalla stessa difesa (in funzione, come si è visto, dell’obiettivo di gettare discredito sull’attendibilità intrinseca del Di.Ga.) che il Lo. avrebbe avuto voce in capitolo nell’attribuzione al F. anzichè al Di.Ga. della carica di "rappresentante provinciale", risulta per ciò stesso implicitamente ammesso che lo stesso Lo. svolgeva un ruolo di rilievo nel sodalizio mafioso (il che è quanto basta a giustificare il giudizio di penale responsabilità in ordine al reato a lui attribuito) giacchè, altrimenti, egli, all’evidenza, non avrebbe avuto possibilità alcuna di influire sull’esito del confronto tra i due aspiranti alla suddetta carica; nè, d’altra parte, può valere ad escludere la rilevanza del compito di possibile mediatore attribuito al ricorrente nei "pizzini" di cui è menzione nell’impugnata sentenza il fatto che, secondo quanto si afferma nel ricorso, non vi sarebbe prova dell’effettivo svolgimento di detto compito da parte del ricorrente e che sulla idoneità di quest’ultimo a condurlo a termine sarebbero state espresse, da parte del Me.De., delle "perplessità", dal momento che la significanza dell’elemento in questione, in funzione della prova circa il ruolo di prestigio attribuito dall’accusa al Lo. nell’ambito del sodalizio mafioso di cui egli faceva parte, riposa in primo luogo proprio sull’ovvia considerazione che nessuno avrebbe comunque pensato di attribuire (sia pure con qualche riserva come quella che si assume manifestata dal Me.De.), un ruolo delicato come quello di "paciere" in contrasti interni tra mafiosi ad un soggetto che, oltre ad essere partecipe della consorteria criminosa, non fosse anche investito di una posizione di preminenza rispetto a quella di un semplice sodale;

b) che parimenti non appare meritevole di accoglimento in secondo motivo di ricorso, dal momento che l’errore nel quale il giudice di primo grado sarebbe caduto nell’individuare come pena minima da applicare nella specie quella di anni dodici e non quella di anni dieci di reclusione, avuto riguardo al "tempus commissi delicti", avrebbe dovuto formare oggetto di specifica doglianza nei motivi d’appello (del che, nel ricorso, non si fa cenno alcuno), per cui non può dirsi che il giudice d’appello fosse tenuto a ridurre detta pena (comunque compresa nell’ambito della legalità) al minimo edittale, ben potendo esso ritenerla in concreto congrua, con riferimento agli ordinari criteri di cui all’art. 133 c.p.;

c) che appare invece fondato, per quanto di ragione, il terzo motivo di ricorso, atteso che, risultando documentato in atti che la pena inflitta al ricorrente con la sentenza divenuta irrevocabile pronunciata dalla corte d’assise d’appello di Palermo in data 22 marzo 2003 era stata in effetti determinata applicando la riduzione di cui all’art. 442 c.p.p., in considerazione della ritenuta ingiustificatezza del diniego opposto dal pubblico ministero alla richiesta di giudizio abbreviato, analoga riduzione avrebbe dovuto essere operata sull’aumento per continuazione stabilito nell’impugnata sentenza nella misura di anni quattro e mesi quattro di reclusione; aumento che va quindi rideterminato in questa stessa sede (ciò essendo possibile ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. L), in anni due, mesi dieci e giorni venti di reclusione, derivanti dalla decurtazione di anni uno, mesi cinque e giorni dieci, di tal che la pena complessiva già determinata dalla corte territoriale in anni 15 di reclusione viene ad essere ridotta ad anni 13, mesi 6 e giorni 10 di reclusione;

quanto al G.:

– che il ricorso non appare, nel suo complesso, meritevole di accoglimento, in quanto:

a) con riguardo ai due primi motivi di ricorso (esaminabili congiuntamente, siccome entrambi afferenti al giudizio di penale responsabilità del ricorrente), pur potendosi ammettere l’opinabilità dell’interpretazione data dalla corte territoriale alla singola conversazione intercorsa tra il G. ed il D. G. nella quale si parlava di un lavoro di falegnameria avente ad oggetto la realizzazione di una porta alla quale avrebbe dovuto collaborare, per la parte costituita da un telaio in ferro, il D. G. (conversazione che, secondo quanto si afferma nella sentenza impugnata, avrebbe avuto il solo scopo recondito di fissare un appuntamento tra il D.G. ed il Lo., presente, nell’occasione, accanto al G.), ciò non può certo valere ad inficiare il valore probatorio della massa davvero cospicua degli altri elementi puntualmente e diffusamente illustrati nella stessa sentenza a sostegno del confermato giudizio di colpevolezza; elementi costituiti da una serie di altre telefonate intercorse tra il ricorrente, che chiamava da cabine pubbliche pur disponendo di proprie utenze telefoniche, ad esponenti mafiosi quali il Mo. e c.c. in vista di trasferte a Palermo per contatti con il detto Mo. doveva avere con il Ro., venendo in tali occasioni accompagnato dallo stesso G., il quale non solo aveva modo di rendersi conto delle particolari precauzioni dalle quali erano circondati gli incontri in questione ma, (come specificato a pag. 94 dell’impugnata sentenza) svolgeva talvolta anche "servizio di osservazione"; ed è, al riguardo, del tutto inane il tentativo, nel quale si compendiano i motivi di ricorso in esame, di riproporre in questa sede la lettura alternativa delle risultanze di fatto già valutate dai giudici di merito, per tornare ad accreditare la tesi che i contatti e le trasferte a Palermo sarebbero stati correlati soltanto a rapporti di lavoro del G. con il Lo. ed alla passione, condivisa con il Mo., per le autovetture e le moto d’epoca, a fronte, peraltro, non solo delle ragioni, ampiamente illustrate dalla corte di merito (ed in larga parte ignorate dalla difesa) per le quali detta tesi non poteva riguardarsi come credibile, ma anche del fatto, opportunamente posto in luce a pag. 92 dell’impugnata sentenza (ed anch’esso ignorato nel ricorso), che lo stesso ricorrente, avendo affermato, in occasione delle dichiarazioni spontanee rese il 21 febbraio 2008, di essere stato "una vittima" e di essere stato "usato contro la sua volontà", aveva per ciò stesso implicitamente reso una sorta di implicita confessione, posto che detta affermazione non avrebbe avuto alcun senso se le finalità dei contatti telefonici e delle trasferte a Palermo fossero state effettivamente quelle, rispondenti ad interessi propri del ricorrente, che questi aveva inteso rappresentare;

b) con riguardo al terzo motivo, appare sufficiente osservare che la qualità di "concorrente esterno" in un sodalizio di tipo mafioso implica comunque la conoscenza quanto meno delle connotazioni essenziali di tale sodalizio, tra le quali, trattandosi di "cosa nostra", ben a ragione i giudici di merito hanno ritenuto che non potessero non annoverarsi quelle che danno luogo alla configurabilità delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6; e ciò tanto più in quanto gli immediati referenti del concorrente esterno erano, nella specie, soggetti a lui ben noti per rapporti di intensa frequentazione, oltre che di parentela o affinità;

c) con riguardo al quarto motivo, il richiamo al requisito dell’"affectio societatis", di cui si assume la mancanza, appare del tutto pretestuoso, ove si consideri che la sussistenza di detto requisito non può che essere verificata sulla base di "facta concludenza", e tale è appunto la verifica incensurabilmente operata dai giudici di merito;

d) con riguardo al quinto motivo, la denuncia di pretesa eccessività della pena appare frutto di una valutazione puramente soggettiva della difesa, a fronte, peraltro, di una motivazione più che adeguata offerta dalla corte di merito, la quale, previo giudizio di equivalenza delle riconosciute attenuanti generiche rispetto alle aggravanti, ha determinato la pena base in una misura intermedia tra il minimo ed il massimo, operando quindi la riduzione prevista dall’art. 442 c.p.p.;

e) con riguardo al sesto motivo, il denunciato difetto di prova circa il nesso causale tra la specifica condotta addebitata al ricorrente e la produzione del danno lamentato dalle parti civili appare del tutto privo di rilievo, atteso che, una volta riconosciuta la responsabilità concorsuale di taluno in un determinato reato dal quale si assume siano derivati danni risarcibili, ne deriva automaticamente che anch’egli non possa non rispondere, in solido con gli altri concorrenti, di detti danni;

quanto al D.G.: – che il ricorso non appare meritevole di accoglimento, in quanto:

a) con riguardo al primo motivo, appare sufficiente osservare che nè l’art. 268 c.p.p., comma 3, nè altre norme impongono al pubblico ministero di indicare, nello stesso decreto con il quale dispone che le operazioni di intercettazione siano effettuate con impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, oltre alle ragioni per le quali esse non possono essere effettuate con gli impianti in dotazione alla procura della Repubblica, anche l’indicazione dello specifico ufficio o comando di polizia cui l’incombenza in questione viene delegata;

b) con riguardo al secondo motivo, lo stesso si riduce, in buona sostanza, nella riproposizione delle stesse argomentazioni difensive già compiutamente esaminate e motivatamente disattese dalla corte di merito, la quale, pur richiamando le dichiarazioni accusatorie del Di.Ga. (peraltro assai specifiche, ancorchè "de relato"), ha poi basato la propria decisione anche e soprattutto su di una serie di altri elementi probatori, costituiti essenzialmente da una cospicua serie di intercettazioni ambientali effettuate all’interno del noto box di lamiera annesso all’abitazione del Ro., nel quale costui teneva, per ritenuta maggiore sicurezza, le riunioni con altri esponenti mafiosi; intercettazioni ampiamente riportate nel testo dell’impugnata sentenza e dalle quali chiaramente emergeva come il D.G. fosse stato ammesso più volte a partecipare a dette riunioni e come, in almeno una occasione, egli fosse stato individuato come soggetto al quale affidare il delicatissimo compito di ricevere un "pizzino" da far poi pervenire al F. (il che già di per sè costituiva sintomo inequivocabile di una affidabilità che non poteva non derivare dalla ritenuta appartenenza del soggetto, "de facto", al sodalizio mafioso, a prescindere dall’opinione in proposito nutrita dallo stesso F., quale manifestata nel "pizzino" da questi inviato al P., cui si fa riferimento nel motivo di ricorso in esame); nè si vede, in tale contesto, quale decisivo rilievo potesse avere, in favore del ricorrente, la circostanza che non vi sarebbe prova dell’avvenuta, effettiva consegna di detto "pizzino" e che l’incarico dato al D. G. non rientrasse in una prassi consolidata ma fosse dipeso dalla sopravvenuta indisponibilità della persona normalmente incaricata di analoghe incombenze (avendo, peraltro, a tale ultimo riguardo la corte di merito posto in luce, a pag. 113 dell’impugnata sentenza – senza che, al proposito, risulti dedotto, nel ricorso, alcunchè di decisivo in senso contrario – che il D.G. aveva comunque mostrato di "conoscere perfettamente il sistema di trasmissione di notizie riservate tramite i "pizzini" ed aveva "già manifestato al Ro. ed al c. la sua piena disponibilità al coinvolgimento in siffatti servigi"); e, sempre avuto riguardo al suindicato contesto (nel quale si collocava anche, secondo quanto si legge alle pagg. 107 e 108 dell’impugnata sentenza, l’avvenuta presentazione, al Ro., da parte del ricorrente, del nipote di costui, a nome D., successivamente indicato come colui del quale lo stesso ricorrente si sarebbe potuto servire per far materialmente pervenire al F. il "pizzino" a lui destinato), neppure si vede quale credito potesse attribuirsi alla tesi difensiva secondo cui gli incontri del D.G. con il Ro. sarebbe stati correlati all’effettuazione di non meglio precisati "lavori" che il ricorrente avrebbe dovuto effettuare nella zona ed ai quali (come opportunamente osservato nell’impugnata sentenza senza che, al riguardo, nulla risulti specificamente obiettato nel ricorso), non si faceva riferimento alcuno nelle conversazioni intercettate;

e) con riguardo al terzo motivo, le suesposte considerazioni valgono anche a giustificare la ritenuta esclusione della possibilità che il ricorrente venisse dichiarato responsabile di solo concorso esterno in associazione mafiosa o, addirittura, di solo favoreggiamento, posta la già illustrata presenza di elementi dimostrativi di contatti diuturni e sistematici dello stesso ricorrente con i vertici del sodalizio criminoso, all’interno del luogo stesso destinato alle riunioni di massimo livello; contatti non spiegabili con altre ragioni che non fossero quelle, riconosciute dai giudici di merito, di una effettiva e non sporadica partecipazione del soggetto alla vita del suddetto sodalizio, nulla rilevando in contrario la mancata individuazione di specifici ruoli o di specifiche attività (fatta eccezione per il solo incarico di consegna del noto "pizzino") nelle quali la medesima partecipazione si fosse estrinsecata;

d) con riguardo al quarto motivo, basterebbe richiamare, accanto al noto e consolidato orientamento giurisprudenziale che esclude la possibilità di riconoscere carattere di decisività, ai fini di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), alla perizia di cui si lamenti la mancata assunzione, atteso il carattere di prova cd.

"neutra" che ad essa va riconosciuto (ved. per tutte, Cass. 4, 22 gennaio – 5 aprile 2007 n. 14130, Pastorelli ed altro, RV 236191 e, con specifico riferimento alla trascrizione di conversazioni intercettate, Cass. 1, 8 giugno – 31 agosto 1994 n. 9370, Morabito ed altri, RV 199913), anche l’altrettanto noto e consolidato orientamento giurisprudenziale (tanto più valido in quanto si verta, come nella specie, in ipotesi di giudizio abbreviato) che attribuisce carattere di eccezionalità alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale prevista dall’art. 603 c.p.p. (ved. per tutte, fra le più recenti, Cass. 5, 10 dicembre 2009 – 21 aprile 2010 n. 15320, Pacini, RV 246859); al che può comunque aggiungersi che, non ponendosi comunque in dubbio, nel ricorso, che lo scritto della cui trasmissione il D.G. avrebbe dovuto occuparsi fosse un "pizzino", e cioè un messaggio tipicamente ed esclusivamente in uso in ambiente mafioso, non si vede quale decisiva rilevanza potesse avere la circostanza che esso provenisse o meno dal P. e fosse o meno diretto al F.;

e) con riguardo al quinto motivo, appare sufficiente osservare che, trattandosi, nella specie, di reato tipicamente permanente ed essendo stata formulata la relativa imputazione in termini cd. "aperti", con l’espressione "fino alla data odierna", che si legge nel capo d’imputazione riportato nell’impugnata sentenza, ben a ragione il momento consumativo di detto reato, nella rilevata assenza di elementi positivamente dimostrativi di una sopravvenuta dissociazione del soggetto dal sodalizio mafioso (ved. pag. 145 dell’impugnata sentenza) poteva farsi coincidere, così come ha fatto la corte di merito, con la data del decreto che disponeva il giudizio, se non addirittura (come pur sarebbe stato possibile, sempre in assenza di sopravvenuta, dimostrata dissociazione) fino alla data della sentenza di primo grado ovvero a quella di privazione della libertà a seguito dell’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare, avvenuta, secondo quanto è dato rilevare dagli atti, il 6 marzo 2007;

f) con riguardo al sesto motivo, lo stesso si riduce, nella sostanza, alla manifestazione di un puro e semplice dissenso rispetto alla valutazione operata dal giudice di merito in punto di determinazione della pena da ritenere congrua nel caso di specie; valutazione che non presenta profili di censurabilità in questa sede, avendo in particolare la corte di merito giustificato la scelta di orientarsi "verso il limite alto", per stabile la pena base fissata in anni nove di reclusione (poi ridotta a anni sei per effetto dell’art. 442 c.p.p.), con la considerazione, di per sè ineccepibile ed esaustiva, della "notevole durata della condotta di supporto del D.G. svolta a favore dei vertici di Cosa nostra";

g) con riguardo al settimo motivo, anch’esso si riduce, nella sostanza, ad una generica e sterile contestazione della valutazione operata, nell’ambito del largo margine di discrezionalità conferitogli dalla legge, dal giudice di merito, il quale, in presenza della norma ( art. 417 c.p.) che rende obbligatoria la misura di sicurezza, ha ritenuto che la durata della stessa potesse essere determinata in anni due, considerando l’"ampia pericolosità sociale" del soggetto (sicuramente identificabile nel D.G., pur se indicato, per mero, evidente errore materiale, con il nome del G.), quale desumibile dal fatto che egli non aveva "mai dimostrato alcuna intenzione di recidere i legami con il potere mafioso"; considerazione, questa, che non può certamente essere oggetto di censura per il solo fatto che, secondo quanto si obietta nel ricorso, non si sarebbe potuta pretendere alcuna dichiarazione di dissociazione da chi, come il D.G., si fosse sempre professato innocente, quasi che la dissociazione, se in effetti vi fosse stata, non avesse potuto manifestarsi che con formali dichiarazioni rese nell’ambito del processo e non anche (e meglio) con pregresse condotte fattuali dalle quali, indipendentemente dalla linea difensiva scelta dall’imputato, potesse comunque desumersi il suo abbandono dell’ambiente mafioso;

h) con riguardo all’ottavo motivo, lo stesso appare del tutto analogo al sesto motivo del ricorso proposto nell’interesse del G., per cui vale quanto già osservato nella trattazione di detto motivo;

quanto al R.:

– che il ricorso non appare meritevole di accoglimento, in quanto:

a) con riguardo al primo motivo: – a/1) non risulta in alcun modo chiarita la specifica ragione per la quale l’avvenuta assoluzione del Pi. avrebbe dovuto comportare anche quella del R., non potendosi certo considerare sufficiente, al riguardo, il semplice richiamo, contenuto nell’atto di ricorso, al brano delle dichiarazioni del Di.Ga. secondo cui, durante la latitanza di costui, il R. gli avrebbe prospettato la possibilità di "arrivare" al Lo. tramite appunto il Pi.; e ciò a prescindere dall’osservazione che, comunque (come questa Corte ha più volte avuto occasione di puntualizzare), non può denunciarsi come vizio di motivazione la pretesa contraddittorietà tra la decisione oggetto di gravame ed altra decisione avente ad oggetto una posizione che si assume analoga (in tal senso, fra le altre: Cass. 1, 6 luglio – 9 novembre 1994 n. 11185, Marchetti, RV 199608; Cass. 1, 30 novembre 1995-21 febbraio 1996 n. 6194, Romeo ed altri, RV 203811;

Cass. 5, 8 maggio – 4 settembre 2008 n. 34643, PG e De Carlo con altri, RV 240996); – 2/b) il fatto che, secondo quanto si assume nel ricorso, il contenuto delle conversazioni intercettate non sarebbe stato tale da costituire specifica conferma di quanto riferito dal Di.Ga. circa l’"attività di raccordo" tra esso Di.Ga. ed il Lo., svolta dal R. non significa affatto che dette conversazioni non potessero assumere valenza di valido riscontro alle dichiarazioni del "collaborante", atteso il noto e consolidato principio giurisprudenziale secondo cui è necessario e sufficiente che gli elementi di riscontro richiesti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, siano dotati di significanza tale da corroborare la credibilità delle dichiarazioni provenienti da coimputati o soggetti equiparati, senza giungere al punto di assumere autonoma valenza probatoria o indiziaria in ordine ai fatti specifici da essi riferiti; e che, nella specie, tale condizione ben fosse riconoscibile appare di assoluta evidenza, non contestandosi neppure nel ricorso che, come ampiamente posto in luce nell’impugnata sentenza, dalle conversazioni in questione emergesse, oltre che la conferma dell’aiuto prestato dal R. al Di.Ga. durante la latitanza di costui, anche, più genericamente, la non estraneità dello stesso R. a rapporti e vicende di natura mafiosa interessanti, tra gli altri, lo stesso Di.

G. ed il L.;

b) con riguardo al secondo motivo, attinente al diniego delle attenuanti generiche, pur non potendosi disconoscere che la corte di merito abbia adottato, sul punto in questione, un criterio di notevole severità, ciò non può tuttavia costituire motivo di valida censura in questa sede, atteso che l’adozione di detto criterio risulta comunque adeguatamente giustificata dal richiamo, operato nell’impugnata sentenza, al non contestato ruolo di potere svolto dal R., a favore di Cosa nostra, nell’ambito della "famigliedda" che a lui faceva capo, senza che, al riguardo, fosse risultato di ostacolo il fatto costituito dalla sua età avanzata, invocata invece dalla difesa, unitamente alla pressochè totale assenza di precedenti penali, a sostegno della richiesta di concessione delle attenuanti in questione; nè, in proposito (atteso il principio già richiamato, ad altro proposito, al precedente punto a/1), può attribuirsi rilievo alta pretesa disparità di trattamento, pure segnalata nell’atto di ricorso, rispetto alla posizione di altri imputati, ritenuti meritevoli delle attenuanti generiche in considerazione della loro incensuratezza;

quanto al C.V.:

– che il ricorso non appare meritevole di accoglimento, in quanto:

a) con riguardo al primo motivo: – a/1) il fatto che il C. avesse rifiutato la proposta di entrare a far parte, con ruolo dirigenziale, del sodalizio mafioso non può certo ritenersi incompatibile, sotto il profilo logico, con la ritenuta attribuibilità, al medesimo ricorrente, del ruolo di cd.

"concorrente esterno", dovendosi semmai ritenere il contrario, posto che la suddetta proposta ben difficilmente avrebbe potuto essere avanzata ad un soggetto che, con una qualche ragione, non fosse già stato ritenuto "vicino" al suddetto sodalizio; il che trova, del resto, inequivocabile conferma nella circostanza, opportunamente messa in luce nell’impugnata sentenza (pag. 158) ma del tutto ignorata nel ricorso, che lo stesso ricorrente, nella conversazione intercettata del 15 aprile 2006 con il figlio F., aveva ricordato di essersi adoperato per lunghi anni a prò della "famiglia mafiosa" senza poi trame alcun particolare vantaggio, come pure nell’altra circostanza, parimenti messa in luce nell’impugnata sentenza (pag. 161) ma ignorata nel ricorso, che nella successiva conversazione del 26 giugno 2006 il ricorrente, parlando con il B., aveva affermato di aver assicurato al R. che avrebbe continuato a ritenersi a disposizione di detta famiglia, con ciò evidentemente ammettendo di aver fatto lo stesso anche per il passato; – a/2) il fatto che non sia stato possibile acquisire contezza dello specifico contenuto del colloquio avvenuto il 3 ottobre 2005 tra Co. e Lo. non vale certo ad escludere che, come ampiamente dimostrato nell’impugnata sentenza (e, di fatto, non contestato neppure nel ricorso), il Co. ed il Lo. fossero esponenti mafiosi e che dovessero incontrarsi per ragioni inerenti ad interessi della sodalizio di cui essi facevano parte; il che è quanto basta a far assumere a tale elemento la rilevanza accusatoria attribuitagli dai giudici di merito, posto che neppure si revoca in dubbio che delle connotazioni dei suddetti personaggi e della finalità del loro incontro il C. fosse perfettamente consapevole, assumendosi anzi implicitamente, da parte della stessa difesa, come dato acquisito quello costituito da siffatta consapevolezza, laddove si pone in luce la riluttanza che il ricorrente avrebbe mostrato a favorire l’incontro in questione proprio per il timore (rivelatosi fondato) che da ciò potessero derivare pregiudizievoli conseguenze giudiziarie a suo carico; nè, d’altra parte, la suddetta riluttanza e addirittura il fastidio che il C. avrebbe provato a fronte della collaborazione che gli veniva richiesta possono valere ad escludere la volontarietà della condotta oggettivamente funzionale ad interessi di tipo mafioso da lui consapevolmente posta in essere e, quindi, la sua idoneità ad assumere la ritenuta valenza di "concorso esterno";

b) con riguardo al secondo motivo, basterebbe osservare che in esso non si contesta quanto affermato nell’impugnata sentenza, a sostegno del mancato accoglimento di analoga doglianza contenuta nei motivi d’appello, circa l’assoluta genericità dei termini nei quali tale doglianza era stata avanzata; al che può comunque aggiungersi che, avuto riguardo al testuale tenore del capo d’imputazione, in cui si postulava soltanto la partecipazione degl’imputati, compreso il C., a "Cosa nostra", il ritenuto concorso esterno non può che riferirsi, in difetto di contrarie indicazioni, a tale sodalizio e che, ciò posto, del tutto incensurabile appare, in questa sede, l’affermazione della corte territoriale (peraltro totalmente ignorata nel ricorso) secondo cui non potevano esservi dubbi sul fatto che il ricorrente fosse "consapevole di aver recato un significativo e continuativo contributo ad una consorteria mafiosa dotata di armi" (avuto riguardo, tra l’altro, all’avvenuta uccisione, nell’anno 2003, in occasione di faide interne, di tale mi., sodale del D. G., il quale ultimo era anch’egli in pericolo di fare la stessa fine), come pure della finalità di illecito finanziamento di attività economiche perseguita da detta consorteria mediante la commissione di delitti, ricordandosi al riguardo "il ruolo del Co. quale imprenditore al servizio del rappresentante provinciale F.G.";

c) con riguardo al terzo motivo, vale quanto già osservato a proposito di analogo motivo (il quinto) prospettato nel ricorso proposto nell’interesse del Di.Gi.;

quanto a C.F.:

– che non appare meritevole di accoglimento il primo motivo di ricorso, in quanto, in primo luogo, non risulta in alcun modo dimostrata la pretesa decisività della consulenza di parte asseritamente dimostrativa della non attribuibilità al ricorrente delle frasi che egli, stando alla registrazione della conversazione intercettata il 3 ottobre 2005, avrebbe, nell’occasione, secondo la ricostruzione accusatoria, pronunciato, essendosi la difesa limitata a richiamare quelle che sarebbero state le conclusioni alle quali era giunto il consulente, senza in alcun modo illustrare le ragioni per le quali esse sarebbero state dotate di una sicura, maggiore attendibilità rispetto a quelle assunte come valide dai giudici di merito; in secondo luogo, con riguardo alla mancata disposizione della richiesta perizia fonica, vale quanto già osservato nel quarto motivo del ricorso proposto nell’interesse del D.G. a proposito della non riconoscibilità, in ogni caso, del carattere di prova decisiva alla perizia di cui si lamenti il mancato espletamento ed a proposito del carattere eccezionale della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, tanto più in quanto si verta, come nella specie, in ipotesi di giudizio abbreviato;

– che parimenti non appare meritevole di accoglimento il secondo motivo di ricorso, costituendo esso, in sostanza, null’altro se non la riproposizione delle stesse argomentazioni difensive già sottoposte con l’atto di appello all’attenzione del giudice di secondo grado, il quale ha fornito al riguardo più che logiche e adeguate risposte, ponendo in luce come fosse del tutto improponibile l’ipotesi che il soggetto al quale il C.V. si era rivolto con l’appellativo di " C." (per " C.", noto e comune diminutivo di " F."), potesse identificarsi in persona diversa dal di lui figlio F. e, in particolare, nel M.F. (nonostante che anche costui, in altra conversazione, tenutasi però in tutt’altro contesto ed avente tutt’altro oggetto, come ben si rileva tra trascrizione contenuta nell’impugnata sentenza, fosse stato indicato con analogo appellativo), e come non fosse affatto incompatibile con la suddetta identificazione il fatto che, ad un certo punto, il C. V., nell’invitare il " C." ad accendere la luce, gli avesse indicato il punto in cui si trovava l’interruttore, non potendosi certo bollare di manifesta illogicità (come invece si fa, del tutto apoditticamente, nel ricorso) l’ipotesi formulata nell’impugnata sentenza che il C.F. non ricordasse, al momento, dove si trovasse il detto punto, a cagione della sua ubicazione in una parte della casa da lui poco frequentata (alla quale ipotesi, peraltro, come appare del tutto ovvio, se ne potrebbero aggiungere infinite altre, ivi compresa quella che l’indicazione in questione fosse stata data senza effettiva necessità, avendo il C. V. soltanto immaginato che il figlio potesse non aver presente alla mente, nell’immediato, la collocazione dell’interruttore); e tutto ciò senza contare gli ulteriori elementi circostanziali (del tutto ignorati nel ricorso) ragionevolmente ritenuti come indicativi della identificabilità nel C.F. del "quarto uomo" sicuramente intervenuto sul luogo sul luogo dell’incontro del 3 ottobre 2005, quali costituiti, in particolare: -a) dalla riscontrata presenza, in detto luogo, oltre alle due vetture con le quali erano giunti rispettivamente, ciascuno da solo, il Lo. ed il Co., soltanto di una terza vettura, appartenente al C. V., necessariamente utilizzata, quindi, anche dal "quarto uomo", che non vi è ragione alcuna di pensare che potesse essere soggetto diverso dal C.F.; – b) dall’avere il Lo., conversando con il Ci.Vi. prima dell’arrivo del Co., accennato al fatto che l’invito al Co. per presentarsi all’incontro sarebbe dovuto pervenire al destinatario per il tramite del " F.", facilmente identificabile appunto nel C.F., essendo questi dipendente del medesimo Co. ed avendo anche in altre occasioni fatto da tramite per messaggi a lui diretti;

– che, ancora, non appare meritevole di accoglimento neppure il terzo motivo di ricorso, atteso che, una volta dato per acquisito, sulla base degli elementi già ricordati, che il ricorrente avesse consapevolmente cooperato alla realizzazione di un incontro riservato tra esponenti mafiosi per ragioni attinenti alla vita dell’organizzazione cui essi aderivano, non si vede come potesse escludersi che una tale condotta fosse oggettivamente finalizzata a produrre un apprezzabile giovamento proprio alla suddetta organizzazione e non soltanto alle persone che a quell’incontro dovevano partecipare;

– che appare invece fondato il quarto motivo di ricorso, dal momento che, in effetti, essendo stato derubricato l’originario addebito di partecipazione ad associazione di tipo mafioso in quello di favoreggiamento e non potendo quindi più trovare applicazione il disposto di cui all’art 417 c.p., la corte di merito, confermando "nel resto" e, quindi, anche con riguardo all’applicazione della misura di sicurezza, la decisione di primo grado, avrebbe dovuto fornire, sul punto, adeguata motivazione, risultata, invece, tutto assente; ragion per cui la medesima sentenza non può che essere annullata con rinvio, per nuovo esame sul punto anzidetto, ad altra sezione della corte d’appello di Palermo, la quale, ove intenda mantenere la misura di sicurezza in questione, sulla base della disciplina generale di cui all’art. 229 c.p., dovrà indicare le specifiche ragioni a sostegno di tale statuizione;

quanto a B.A.:

– che appare fondato, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso giacchè, mentre non può in realtà sussistere dubbio alcuno circa la penale responsabilità del ricorrente in ordine al reato di favoreggiamento dell’allora latitante Di.Ga., risultando sostanzialmente incontestato, da parte della stessa difesa, che egli si era adoperato per assicurare una sistemazione al detto Di.Ga., nella piena consapevolezza del fatto che costui era ricercato dalla giustizia, risulta in effetti, per converso, del tutto deficitaria la motivazione sulla base della quale è stato ritenuto che detto reato fosse aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, conv.con modif. in L. n. 203 del 1991, siccome "indirizzato ad agevolare l’associazione Cosa nostra", essendosi la corte di merito limitata all’apodittica asserzione che il B. "era proprio animato dalla volontà di favorire il raggiungimento dei fini di tale consorteria, cosa del tutto in linea con il fatto che la sua opera si poneva al servizio del rappresentante provinciale", senza neppure curarsi di verificare, come invece, per ovvie ragioni, sarebbe stato necessario, se a quell’epoca il Di.Ga. potesse considerarsi ancora investito di detta carica o fosse già stato, di fatto, soppiantato dal F. e se e per quali ragioni, nella prima di tali ipotesi, del suo ruolo apicale nell’ambito del sodalizio mafioso il ricorrente fosse da ritenere consapevole;

– che, pertanto (assorbito, allo stato, il secondo motivo di ricorso), non può che darsi luogo ad annullamento dell’impugnata sentenza, limitatamente alla ritenuta sussistenza della suddetta aggravante, con rinvio, per nuovo esame sul punto, ad altra sezione della corte d’appello di Palermo, la quale, ove giunga alla conclusione di confermare la precedente decisione, dovrà fornire tuttavia adeguata motivazione, previa verifica degli elementi di fatto dianzi menzionati, salvo altri di cui appaia comunque ravvisabile la rilevanza;

quanto al CO.:

– che il ricorso non appare meritevole di accoglimento, atteso che (a parte il fatto che dalla non contestata sintesi dei motivi d’appello contenuta nella sentenza impugnata risulta, per quanto qui ancora d’interesse, che la stessa difesa aveva chiesto la dichiarazione di prevalenza delle già riconosciute attenuanti generiche, così dimostrando di dare per acquisito che detta prevalenza, contrariamente a quanto poi sostenuto nel ricorso, non era stata, neppure di fatto, ritenuta dal giudice di prime cure), vale comunque osservare che, secondo quanto si legge nel ricorso, il detto giudice, aveva "preso le mosse, nel suo errato processo motivazionale, da una pena di anni dodici, in essa incluso il computo per la prima delle due contestate aggravanti" (cioè quella di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4), per cui doveva ritenersi che egli avesse assunto come pena base quella compresa "nella forbice sanzionatoria oscillante tra gli otto e i nove anni"; il che significa, però, che, essendo stata determinata la pena finale in anni dieci di reclusione, previa applicazione anche della riduzione di cui all’art. 442 c.p.p., l’effetto delle aggravanti non poteva certo dirsi neutralizzato dalla pretesa prevalenza delle riconosciute attenuanti generiche giacchè, se così fosse stato, la suddetta riduzione avrebbe dovuto essere operata, con effetti di gran lunga più favorevoli, sulla pena base come sopra individuata, previa decurtazione, quanto meno, di un giorno di reclusione in virtù, appunto, delle attenuanti in questione; ragion per cui può soltanto ritenersi che il giudice di primo grado abbia semplicemente commesso un errore, come esattamente rilevato dal giudice d’appello nell’impugnata sentenza, applicando le attenuanti generiche senza dar luogo al necessario giudizio di comparazione ma semplicemente operando una riduzione, nella misura ritenuta congrua, sulla pena già determinata tenendo conto anche dell’aumento per le aggravanti; errore che la corte territoriale ha quindi correttamente eliminato, senza pregiudizio alcuno per l’imputato ma anzi con suo notevole vantaggio, atteso che il risultato finale è stato quello di una riduzione della pena a lui inflitta ad anni sei di reclusione;

quanto al M.:

– che il ricorso non appare meritevole di accoglimento, in quanto: a) con riguardo al primo motivo, lo stesso, in buona sostanza, altro non contiene se non la riproposizione degli argomenti volti a contestare la identificabilità del ricorrente nel soggetto al quale il Di.

G. si era riferito indicandolo come "uomo d’onore", particolarmente legato al Co. ed al quale pure ci si riferiva nelle conversazioni intercettate, indicandolo come " C. il tubercoloso", la cui attività imprenditoriale sarebbe stata particolarmente favorita dal medesimo Co.; argomenti, quelli anzidetti, che, contrariamente a quanto si assume nel ricorso, risultano puntualmente esaminati e confutati dalla corte territoriale, la quale ha ampiamente posto in luce le ragioni (pressochè totalmente ignorate, invece, nell’atto di gravame) per le quali la suddetta identificabilità non appariva dubbia, osservando, in particolare: – a/1) che il Di.Ga., avendo avuto conoscenza diretta solo del M.S., cugino dell’attuale ricorrente, ben avrebbe potuto cadere in equivoco nell’affermare che quest’ultimo aveva un fratello di nome G., quando invece si trattava del figlio; – a/2) che dalle conversazioni intercettate emergeva chiaramente come i colloquianti fossero perfettamente a conoscenza dell’esistenza di un altro M.F., cugino dell’attuale ricorrente, al quale ultimo però si riferivano, nelle parti di dette conversazioni ritenute rilevanti dall’accusa, esattamente indicandolo come fratello di G., figlio di G. e nipote di M.C.S. (lo "zio L. "del quale, secondo il C.V., egli avrebbe "avuto l’odore"); – a/3) che non all’attuale ricorrente ma appunto all’omonimo cugino, indicato come figlio di tale T., ci si riferiva invece, in una delle conversazioni intercettate tra C.V. e C. F., come a "cosa punita e fradicia"; il che toglie ogni valore al rilievo critico formulato nell’atto di ricorso, secondo cui vi sarebbe contraddittorietà tra la detta, dispregiativa qualificazione e la connotazione di "uomo affidabile" attribuita nella stessa conversazione a " C. il tubercoloso"; – a/4) che non poteva escludersi che la madre dell’attuale ricorrente, pur avendo difficoltà di deambulazione, fosse comunque in grado di ricevere messaggi o di rispondere al citofono; ciò a fronte dell’obiezione difensiva (poi riproposta nel ricorso, senza alcun cenno alla risposta fornita dalla corte di merito) volta a contestare la identificabilità del medesimo ricorrente nel M.F. al quale, nella conversazione intercettata del 9 marzo 2006, il C.M. si era riferito, dicendo che, se non lo avesse trovato in casa, avrebbe lasciato un messaggio alla di lui madre; – a/5) che, a fronte di quanto riferito dai coimputati, secondo cui il M.F. aveva di fatto svolto attività imprenditoriale grazie all’appoggio del Co. e sotto le direttive del rappresentante provinciale di Cosa nostra, F.G., non poteva valere ad escludere lo svolgimento di detta attività (come invece sostenuto dalla difesa e riproposto, ancora una volta, nell’atto di ricorso senza riferimento alcuno alla risposta contenuta nell’impugnata sentenza), il solo fatto che egli non fosse mai stato formalmente titolare di alcuna impresa edile, avendo invece svolto presso alcune ditte operanti nel campo dell’edilizia mansioni di autista di mezzi pesanti; ed è, al riguardo, anche da notare che nell’impugnata sentenza, ove si fa riferimento alle dichiarazioni di tale C.C., indicato come "conducente di "caterpillar", si precisa che costui "asseriva di essere dipendente di M. F."; circostanza, quest’ultima, che risulta anch’essa del tutto ignorata nel ricorso;

b) con riguardo al secondo motivo, lo stesso appare connotato da assoluta genericità, non specificandosi in alcun modo come, una volta ritenuta la piena partecipazione del ricorrente ad un sodalizio mafioso quale Cosa nostra, potesse dubitarsi che egli fosse consapevole della disponibilità di armi da parte di detto sodalizio e della sua finalità di acquisire il controllo di attività economiche mediante il provento di delitti; e ciò tanto più in quanto, nello specifico, come opportunamente osservato dalla corte di merito nella trattazione della posizione del Co. (e cioè la più vicina a quella del M. e pertanto da ritenersi compresa, più di ogni altra, tra quelle richiamate, sul punto in questione, dalla stessa corte nella trattazione di detta ultima posizione, ove si rimanda ai "motivi già esposti in relazione a vari coimputati), la concreta disponibilità di armi anche da parte della locale articolazione di Cosa nostra era stata dimostrata, se non altro, dall’avvenuto omicidio del mi., come pure di quello del padre dello stesso Co., anch’esso dovuto, al pari dell’altro, a contrasti interni, ed era lo stesso Co., (all’ombra del quale, come si è visto, operava il M.) a gestire, d’intesa con il "rappresentante provinciale" F., beni ed attività economiche avvalendosi di proventi derivanti dalla commissione di delitti;

c) con riguardo al terzo motivo, i denunciati vizi di legittimità si rivelano del tutto insussistenti ove si consideri (cosa che la difesa si è ben guardata dal fare) che le attenuanti generiche, negate dalla corte d’appello al M., erano state concesse al Co. non dalla stessa corte, ma dal giudice di primo grado (ved. pag. 205 dell’impugnata sentenza), per cui esse non potevano più essere escluse, in difetto di impugnazione sul punto da parte del pubblico ministero; nè, d’altra parte, la loro avvenuta concessione al Co. avrebbe dovuto necessariamente indurre il giudice d’appello a concederle anche all’attuale ricorrente, pur nel dichiarato intento dello stesso giudice di raggiungere una sostanziale equiparazione fra il trattamento sanzionatorio riservato all’uno ed all’altro dei detti imputati; risultato che, in effetti, può dirsi conseguito, atteso che la pena finale inflitta al M. all’esito del giudizio d’appello è stata determinata in anni sei, mesi due e giorni venti di reclusione, differenziandosi quindi di soli mesi due e giorni venti da quella di anni sei di reclusione inflitta al Co., pur con il riconoscimento, in favore di quest’ultimo, delle attenuanti generiche;

quanto al S.:

– che va preliminarmente esclusa la fondatezza di quanto rappresentato nelle note d’udienza a firma dell’avv. Nicotra circa la pretesa estinzione del reato per intervenuta prescrizione, atteso che, dovendosi applicare, ai sensi della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, la disciplina più favorevole, essa va, nella specie, individuata in quella previgente, sulla base della quale il termine di prescrizione massimo è di anni quindici (avuto riguardo alla pena edittale massima di anni quattro di reclusione ed all’aumento massimo della metà applicabile per effetto della ritenuta e, allo stato, operante circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, per cui si giunge ad un massimo di anni sei, sul quale va operata, ai sensi del citato art. 7, comma 2, la riduzione nella misura minima di un giorno per effetto della riconosciute attenuanti generiche), mentre, qualora si applicasse la nuova disciplina, pur operando il termine massimo di anni sei (corrispondente alla pena edittale massima, sempre tenendo conto della citata aggravante, compresa tra quelle ad effetto speciale), esso, per effetto dell’art. 161, comma 2, prima ipotesi, del novellato art. 161 c.p., in relazione all’art. 51 c.p.p., comma 3 bis, (nella parte in cui si riferisce ai delitti commessi al fine di agevolare l’attività della associazioni di tipo mafioso), decorrerebbe "ex novo" dall’ultimo atto interruttivo, costituito dalla pronuncia della sentenza d’appello, e quindi, dal 14 dicembre 2009;

– che, ciò premesso, appaiono fondati, per quanto di ragione, il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. Nicotra ed il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. Gaito (poi ripreso ed ulteriormente illustrato nel motivo nuovo prodotto dallo stesso difensore), atteso che, analogamente a quanto già osservato nella trattazione del ricorso proposto nell’interesse del B., mentre non può ragionevolmente dubitarsi della piena configurabilità, a carico del ricorrente, del reato di favoreggiamento del Di.Ga., non essendo contestato neppure dalla difesa il fatto che egli avesse offerto ospitalità al detto Di.Ga., nella piena consapevolezza della sua qualità di latitante (senza che, al riguardo, possa, ovviamente, attribuirsi alcuna rilevanza al fatto che tale ospitalità fosse stata offerta in una casa di campagna e non nell’abitazione normalmente in uso al S.), deve invece riconoscersi che risulta priva di adeguata motivazione la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. con modif. in L. n. 203 del 1991, essendosi anche in questo caso la corte territoriale limitata, sul punto in questione, ad affermazioni del tutto apodittiche e generiche, senza in alcun modo prendere in considerazione, come invece sarebbe stato necessario, gli elementi di cui si è già fatta menzione a proposito della posizione del B., la cui potenziale rilevanza non può che essere affermata anche con riguardo alla posizione del S.; al che va peraltro aggiunto che non appare invece sussistente l’errore di diritto nel quale la corte di merito sarebbe incorsa, secondo quanto sostenuto nel motivo nuovo a firma dell’avv. Gaito, nell’affermare la sufficienza del solo dolo generico ai fini della riconoscibilità dell’aggravante in questione, atteso che, stando al testuale tenore del passaggio motivazionale al quale il detto difensore si è riferito ("Tutte queste argomentazioni connotano la sussistenza del dolo generico, e sono ampiamente rilevanti per confermare la sussistenza della finalità specifica di recare un aiuto a Cosa nostra"), sembra potersi ritenere che la detta corte, pur con espressione non troppo felice, abbia semplicemente inteso affermare che sussistevano tanto il dolo generico, richiesto (come appare pacifico) per la configurabilità del favoreggiamento personale, quanto il dolo specifico, richiesto invece per la configurabilità dell’aggravante;

– che rimangono, allo stato, assorbiti il secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. Nicotra ed il terzo motivo del ricorso a firma dell’avv. Gaito, entrambi concernenti il trattamento sanzionatorio mentre va ritenuto privo di fondamento il secondo motivo dell’avv. Gaito, non ravvisandosi ragione alcuna che possa indurre a rimettere in discussione il consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte circa l’inapplicabilità, con riguardo al contenuto di conversazioni intercettate, degli artt. 62 e 63 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3, (in tal senso, fra le altre: Cass. 6, 22 maggio – 28 luglio 2003 n. 31739, Corteggiano ed altro, RV 226202; Cass. 5, 14 ottobre 2003 – 13 gennaio 2004 n. 603, Grande Aracri, RV 227815; Cass. 4, 28 settembre – 26 ottobre 2006 n. 35860, Della Ventura, RV 235020; Cass. 4, 2 luglio – 27 settembre 2010 n. 34807, Basile ed altri, RV 248089);

– che va quindi disposto l’annullamento dell’impugnata sentenza limitatamente alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. con modif. in L. n. 203 del 1991, con rinvio, per nuovo esame sul punto, analogamente a quanto già indicato con riguardo alla posizione del B., ad altra sezione della corte d’appello di Palermo;

quanto al L.:

– che i ricorsi non appaiono meritevoli di accoglimento, in quanto:

a) con riguardo alla denunciata inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, di cui al primo motivo dell’avv. Nicotra ed al primo motivo dell’avv. Gaito: – a/1) trattandosi di intercettazioni disposte nell’ambito di altri procedimenti, vale anzitutto richiamare il principio, già affermato dalle S.U. di questa Corte con la sentenza 17-23 novembre 2004 n. 45189, PM in proc. Esposito, RV 229244, secondo cui: "Ai fini dell’utilizzabilità degli esiti di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni in procedimento diverso da quello nel quale esse furono disposte, non occorre la produzione del relativo decreto autorizzativo, essendo sufficiente il deposito, presso l’Autorità giudiziaria competente per il diverso procedimento, dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni medesime"; il che comporta l’ovvia conseguenza che quand’anche fosse stata riscontrata la mancanza, in atti, dei suddetti decreti, ciò non avrebbe potuto costituire, di per sè, motivo di inutilizzabilità e che neppure si sarebbe potuto pretendere che i giudici del merito, nell’ambito del presente procedimento, si ponessero il problema della eventuale assenza o illegittimità di detti decreti, in difetto di specifiche e dettagliante deduzioni al riguardo; – a/2) trattandosi, inoltre, secondo quanto si legge a pag.

4 del ricorso a firma dell’avv. Gaito, di decreti emessi in via di urgenza dal pubblico ministero, ogni doglianza circa le eventuali carenze motivazionali dalle quali essi fossero stati affetti, con riguardo tanto alle ragioni di urgenza quanto alla ritenuta necessità del ricorso ad impianti diversi da quelli in dotazione alla procura della Repubblica, sarebbe stata preclusa dalla successiva convalida da parte del giudice per le indagini preliminari (in tal senso, fra le altre, da: Cass. 6, 19 maggio – 25 agosto 2005 n. 32469, Roveto, RV 232220; Cass. 6, 21 novembre 2006 – 16 gennaio 2007 n. 775, Attolino ed altri, RV 236803; Cass. 4, 22 ottobre – 10 dicembre 2008 n. 45700, Sinopoli, RV 242001; Cass. 5, 17 luglio – 3 ottobre 2008 n. 37699, Vottari, RV 241949); ragion per cui le critiche espresse nel ricorso a proposito della motivazione sulla base della quale la corte di merito, in dichiarata adesione a quanto già argomentato dal giudice di prime cure, ha ritenuto che i decreti in questione contenessero adeguata giustificazione in ordine al requisito dell’urgenza ed alle condizioni di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, oltre ad apparire del tutto pretestuose, a fronte del corretto richiamo operato dalla suddetta corte all’avvenuta rappresentazione, in detti provvedimenti, dell’insufficienza numerica delle apparecchiature in dotazione alla procura e dell’esigenza di assicurare la possibilità di interventi immediati, in presenza di reati aventi carattere permanente, risultano anche (ed in via pregiudiziale) prive di rilevanza, non facendosi in esse il benchè minimo cenno all’eventuale mancanza della tempestiva convalida da parte del giudice per le indagini preliminari, della cui esistenza, quindi, non vi è ragione alcuna di dubitare; – a/3) non risulta in alcun modo specificato, nel ricorso, se e quali tra le conversazioni intercettate acquisite agli atti del presente procedimento e delle quali sia stata riscontrata la rilevanza ai fini del decidere fossero ricomprese tra quelle delle quali, nell’ambito dei procedimenti di provenienza, sarebbe stata dichiarata l’inutilizzabilità; il che si traduce in un palese difetto dell’indispensabile requisito della cd.

"autosufficienza" dell’atto di gravame; – a/4) parimenti incorre nel difetto di autosufficienza la doglianza relativa alla mancata risposta, da parte della corte d’appello, ad una corposa nota d’udienza nella quale – si afferma – erano state espresse puntuali critiche alla ritenuta utilizzabilità delle intercettazioni all’interno della vettura di Iu.Pi., essendosi la difesa limitata a sollecitare la lettura di detta nota, senza riportarne il contenuto, salvo qualche generico accenno al fatto che con essa sarebbe stata denunciata la mancata allegazione al fascicolo processuale delle "registrazioni (decreti di autorizzazione e di proroga) trasmigrate dal diverso procedimento a quello odierno";

denuncia, questa, che (a parte i termini alquanto equivoci in cui risulta formulata, sembrando essa postulare una sorta di identificazione tra atti sicuramente diversi tra loro, quali le registrazioni, da una parte, ed i decreti, dall’altra), non consente, comunque, di riconoscere le condizioni che dovrebbero dar luogo alla pretesa inutilizzabilità, dal momento che la mancata allegazione tanto delle registrazioni quanto dei decreti non sembra rientrare tra le violazioni di legge cui si fa riferimento nell’art. 271 c.p.p. e vale comunque, per i decreti, il principio affermato dalle S.U. di questa Corte con la sentenza già richiamata al precedente punto a/1); b) con riguardo all’altra denuncia di inutilizzabilità, avente ad oggetto le dichiarazioni contenute nel verbale dell’esame al quale il Di.Ga. era stato sottoposto nell’ambito di altro procedimento davanti al tribunale di Agrigento (motivo n. 7 del ricorso a firma dell’avv. Gaito), vale osservare che l’art. 238 c.p.p., non subordina affatto al consenso delle parti la semplice acquisizione dei verbali di prove assunte in altro procedimento in sede di incidente probatorio o (come si verifica nella specie) in sede dibattimentale, per cui, sotto questo profilo, la proposta doglianza appare del tutto priva di fondamento; nè, d’altra parte, può valere, in sua sostituzione, quanto dedotto, soltanto in sede di discussione orale, dal medesimo difensore, circa il difetto della condizione prevista, per la utilizzabilità dell’atto acquisito, dall’art. 238 c.p.p., comma 2 bis, e cioè che trattisi di atto alla cui assunzione il difensore dell’imputato abbia assistito, giacchè, a parte la non verificabilità, in questa sede, dell’effettiva mancanza di detta condizione, essa, ai sensi dello stesso art. 238 c.p.p., comma 4, lascia comunque aperta la possibilità dell’utilizzazione quando vi sia il consenso dell’imputato; consenso che, peraltro, nulla impone che debba essere esplicito ed espresso con formule sacramentali, per cui esso ben può essere ritenuto sussistente anche quando, come sì verifica nella specie, l’imputato sia stato presente (secondo quanto risulta indicato nell’intestazione dell’impugnata sentenza) e nè egli nè il suo difensore (per quanto è dato sapere) abbiano manifestato opposizione alcuna; ciò in linea, del resto, con quanto questa Corte ha già avuto occasione di affermare con riguardo al caso in cui si sia stato un mutamente nella composizione del collegio giudicante, escludendo che sussista nullità della sentenza deliberata dal nuovo collegio "qualora le parti presenti non si siano opposte alla lettura degli atti precedentemente assunti e non abbiano esplicitamente richiesto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in quanto, in tal caso, si deve intendere che esse abbiano prestato consenso, sia pure implicitamente, alla lettura degli atti suddetti" (Cass. 5, 16 maggio – 19 settembre 2008 n. 35975, La Porta, RV 241583);

c) con riguardo al secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. Gaito vale quanto già osservato a proposito dell’analoga doglianza contenuta nel secondo motivo del ricorso proposto dallo stesso difensore nell’interesse del S.;

d) con riguardo alla ritenuta responsabilità del ricorrente a titolo di "concorso esterno" nel sodalizio mafioso ( motivo n. 2 del ricorso a firma dell’avv. Nicotra e motivo n. 3, più il motivo nuovo di quello a firma dell’avv. Gaito): – d/1) pur volendosi dare per ammesso che la condotta attiva del L. a sostegno del sodalizio mafioso avesse avuto, come si sostiene da parte delle difese, una durata limitata a pochi mesi nel corso della seconda metà dell’anno 2003, non si vede come tale limitazione potesse o dovesse escludere la responsabilità del ricorrente in ordine al reato a lui addebitato, posto che tra le caratteristiche del cd. "concorso esterno"rientra, semmai, proprio la temporaneità dell’appoggio prestato all’organizzazione criminosa; – d/2) la pretesa contraddittorietà delle dichiarazioni del Di.Ga. circa la cointeressenza di costui nella società "calcestruzzi" si basa essenzialmente solo sul fatto che esso Di.Ga. avrebbe, in una occasione, indicato come altri soci di fatto tali Ve.Gi., A.P. e V.F., mentre in altra occasione non avrebbe più fatto menzione degli ultimi due e avrebbe invece inserito tra i soci di fatto tale V.F.; dissonanza, questa, dalla quale, in verità, non sembra potesse o doversi trarre un giudizio di complessiva inattendibilità del dichiarante, avendo essa attinenza ad un aspetto marginale del narrato e potendo, all’evidenza, trovare spiegazione in meri difetti di attenzione o di memoria, per cui sarebbe stato onere delle difese indicare le specifiche ragioni per le quali ad essa sarebbe stato da attribuire un diverso e più pregnante significato; – d/3) la pretesa inidoneità delle dichiarazioni del Ga. a costituire, sul punto in questione, valido riscontro alle dichiarazioni del Di.

G. non appare, in realtà, riconoscibile, basandosi essa soltanto sull’assunto che il Ga. si sarebbe limitato a riferire quanto appreso da altri circa il fatto che il Di.Ga. si sarebbe "appoggiato" all’"impianto di contrada Scintilla", gestito appunto dalla soc. Calcestruzzi; dal che non possono affatto trarsi le conseguenze prospettate dalle difese, ove si consideri che (come già ricordato nella trattazione del ricorso proposto nell’interesse del R.), i cd. "riscontri esterni" non debbono essere dotati di autonoma valenza probatoria, per cui ben possono essere costituiti, come nella specie, da notizie di per sè dotate di adeguata significanza (sul che, nella specie, non si fa questione) le quali siano riferite da soggetto che le abbia apprese da fonte diversa dal dichiarante; – d/4) il fatto che la soc. Calcestruzzi avesse subito un furto di automezzi nello stesso periodo in cui ad essa sarebbe stato interessato il Di.Ga. non può certo essere considerato elemento che dovesse valere a screditare quanto dichiarato dal "collaborante" in ordine alla effettività di detta sua cointeressenza, trattandosi di elemento sostanzialmente "neutro" e potendosi quindi tutt’al più convenire con la difesa nel rilievo che neppure potesse dirsi comprovata la tesi espressa nella sentenza di primo grado secondo cui detto furto sarebbe stato "manifestazione dell’inizio di una guerra intestina a Cosa nostra"; – d/5) parimenti "neutro" e, pertanto, ininfluente ai fini della dimostrazione dell’assunto difensivo appare il fatto che la società "calcestruzzi", nonostante l’interesse che in essa avrebbe avuto il Di.Ga., non avrebbe da ciò tratto vantaggio economico, tanto da essere da ultimo sottoposta a procedura fallimentare; e ciò tanto più in quanto non si specifica, nel ricorso, se e sulla base di quali elementi potesse affermarsi che le difficoltà economiche dell’impresa si fossero manifestate già all’epoca il cui il Di.

G. svolgeva ancora le funzioni di "rappresentante" locale di Cosa nostra, prima di essere scalzato dal F.; – d/6) il fatto che, all’epoca in cui il L. si era, in più riprese (come risulta incontestato), adoperato per mettere tra loro in contatto il L. R. ed il Di.Ga., quest’ultimo fosse già – secondo quanto si afferma nel terzo motivo del ricorso a firma dell’avv. Gaito – "caduto in disgrazia" non inficia, di per sè, la correttezza della ritenuta rilevanza penale di detta condotta, non risultando affatto che lo stesso Di.Ga., benchè rimosso dalla carica di "rappresentante provinciale", avesse per ciò solo cessato di far parte del sodalizio mafioso, di tal che, in assenza di qualsivoglia indizio che potesse valere a far inquadrare i contatti in questione nell’ambito di finalità diverse da quella "lato sensu", mafiose, ben a ragione poteva ritenersi che essi fossero comunque funzionali agli interessi del suddetto sodalizio, quali presumibilmente ravvisati dallo stesso Di.Ga., anche in funzione di quella che, per quanto è dato sapere, avrebbe ancora potuto essere una ripresa della sua autorità, essendo, al riguardo, appena il caso di osservare che, in linea di principio, possono costituire aiuto e sostegno ad una consorteria criminosa anche quelle condotte che vengano poste in essere in favore di un determinato soggetto che aspiri a mantenere o riprendere una funzione di guida nell’ambito della medesima consorteria di cui già faccia parte, in vista (secondo logica) dell’obiettivo non certo di ridurne ma, semmai, di rafforzarne la capacità operativa;

e) con riguardo alla ritenuta responsabilità del ricorrente in ordine al reato di estorsione (motivo n. 3 del ricorso a firma dell’avv. Nicotra e motivo n. 4 di quello a firma dell’avv. Gaito): – e/1) il fatto che il L. fosse stato incaricato di passare "ai catanesi" parte del danaro costituente provento dell’estorsione in danno dell’imprenditore A.G., secondo quanto si segnala come emergente da talune, richiamate dichiarazioni del Di.Ga., non implica affatto, sul piano logico, che egli (come invece apoditticamente sembra darsi per scontato nel terzo motivo del ricorso a firma dell’avv. Nicotra) non avesse avuto in precedenza alcun contatto con lo stesso A. (in contrasto, quindi, con la ricostruzione dei fatti operata dai giudici e/4) L. avrebbe curato la riscossione del "pizzo" per poi consegnare a lui il relativo importo), nulla impedendo di ritenere che, una volta effettuata la consegna del danaro al Di.Ga., questi desse poi al medesimo L. l’incarico di smistare ai "catanesi" la parte di loro pertinenza; – e/2) la documentata esistenza di rapporti commerciali tra la società Calcestruzzi, facente capo al L., e l’impresa dell’ A.G. non presenta, di per sè, alcun profilo di incompatibilità con la tesi d’accusa secondo cui la detta impresa sarebbe stata anche oggetto di pretese estorsive ad opera dello stesso L. e dei soggetti a lui collegati, dovendosi anzi al riguardo condividere l’osservazione contenuta nell’impugnata sentenza (ma del tutto ignorata nei ricorsi) che proprio in considerazione dell’esistenza dei suddetti rapporti commerciali risultava logico incaricare il L. di gestire anche il "rapporto "esattoriale" di tipo estorsivo, "nascente dal fatto specifico di svolgimento di lavori di un agrigentino in territorio catanese"; – e/3) le segnalate incertezze e contraddizioni in cui sarebbe caduto il Di.Ga. nel riferire in ordine all’estorsione di cui è causa non appaiono tali per cui se ne dovesse necessariamente trarre un giudizio di inattendibilità totale del collaborante sulla vicenda in discorso, riguardando esse soltanto, per quanto si rappresenta nel ricorso, l’importo totale delle somme versate dall’ A. (70-80 mila Euro secondo le dichiarazioni del 20 aprile 2007 e 20-30 mila Euro secondo quelle del 13 ottobre 2008), nonchè l’epoca precisa in cui sarebbero state trasmesse ai "catanesi" le somme di loro pertinenza; elementi, questi, di natura evidentemente circostanziale e relativamente ai quali appare quindi ben possibile che, avuto riguardo al lungo tempo trascorso ed alla mole delle vicende criminali di vario genere nelle quali il collaborante era stato coinvolto o delle quali aveva avuto notizia, i ricordi del medesimo fossero incerti e sfumati (come, del resto, appare chiaramente desumibile dalla stessa trascrizione, contenuta nel ricorso a firma dell’avv. Nicotra, del brano ritenuto interessante delle dichiarazioni in data 13 ottobre 2008, in cui il Di.Ga. affermava di "non ricordare" in termini di precisione quanto gli veniva richiesto); – e/4) analoghe considerazioni valgono con riguardo al particolare (anch’esso, di per sè, privo di decisiva rilevanza) concernente la riferita successione del L.R. al Mi., dopo l’arresto di costui, nella funzione di soggetto cui venivano consegnate le somme destinate ai "catanesi"; e ciò a prescindere dalla considerazione che la vicenda estortiva risulta collocata, secondo il capo d’imputazione, negli anni dal 2002 al 2004 mentre, secondo la difesa, il contemporaneo arresto del Mi. e del L. R. sarebbe avvenuto nell’anno 2005, e nulla si dice, nel ricorso, che valga ad escludere la possibilità che il primo dei due avesse subito, in precedenza, altri periodi di privazione della libertà; – e/5) l’assunto circa la pretesa inidoneità delle conversazioni intercettate a costituire valido riscontro alle dichiarazioni del Di.Ga. concernenti l’estorsione in danno dell’ A. e le relative responsabilità, oltre a basarsi sul frammentario richiamo a singoli brani di dette conversazioni, onde prospettarne una diversa interpretazione rispetto a quella fornita dai giudici di merito (il che già è poco compatibile con le caratteristiche del giudizio di cassazione), mostra tutta la propria fallacia laddove, nel tentativo di accreditare la tesi secondo cui il L. sarebbe stato del tutto estraneo a rapporti di tipo estortivo con l’ A., essendo stato il solo Iu. ad avere contatti con costui ed a dover quindi fronteggiare problemi di mancato pagamento, passa del tutto sotto silenzio, a tacer d’altro, due fatti, chiaramente messi in luce, invece, dalla corte di merito (sulla base dell’inequivocabile contenuto, "in parte qua", delle conversazioni in questione, quali riportate nell’impugnata sentenza), e cioè, in primo luogo, il fatto che, essendosi presentato a riscuotere alcune rate del "pizzo", senza averne titolo, un soggetto non nominato, era stato proprio il L. a vantarsi, con lo Iu. (conversazione del 5 agosto 2003 riportata a pag. 241 dell’impugnata sentenza) di essere andato a prendere a schiaffi l’intruso; in secondo luogo il fatto, emergente dalla conversazione n. 472 dell’8 agosto 2003 riportata a pag. 243 dell’impugnata sentenza, che, essendosi manifestata qualche "defaillance" nei pagamenti da parte dell’ A., era stato sempre il L. a manifestare l’intenzione di andare da lui la sera stessa a dargli "due schiaffi"; dal che appare evidente che, contatti diretti o meno, il L. era comunque pienamente ed attivamente compartecipe dell’attività estortiva, per cui bene a ragione poteva e doveva essere affermata, al riguardo, la sua penale responsabilità;

f) con riguardo alla ritenuta compatibilità tra l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. con modif. in L. n. 203 del 1991, e quella di cui all’art. 628 c.p., comma 2, n. 3, quale richiamata dall’art. 629 c.p., comma 2, (motivo n. 5 del ricorso a firma dell’avv. Gaito), appare sufficiente osservare che la relativa doglianza si basa soltanto sul richiamo ad un remoto precedente di questa Corte, costituito da Cass. 6, 23 gennaio – 21 marzo 1997 n. 2724, Falcone, RV 207531, ignorando totalmente che l’orientamento espresso in tale decisione risulta poi del tutto e definitivamente abbandonato da quello di segno contrario espresso, a composizione del contrasto allora manifestatosi, da Cass. S.U. 28 marzo – 27 aprile 2001 n. 10, Cinalli ed altro, RV 218378, e da allora costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità (ved., in particolare:

Cass. 2, 27 febbraio – 30 aprile 2003 n. 19943, Miano ed altri, RV 224638; Cass. 2, 16 dicembre 2002 – 19 marzo 2003 n. 12838, Bellofiore ed altri, RV 224878; Cass. 2, 23 maggio – 13 giugno 2006 n. 20228, Rescigno ed altri, RV 234651; Cass. 1, 18 ottobre – 23 novembre 2007 n. 43663, Colletti, RV 238419; Cass. 6, 22 gennaio – 3 luglio 2008 n. 27040, Aparo ed altri, RV 241008);

g) con riguardo al trattamento sanzionatorio (motivi nn. 4 e 5 del ricorso a firma dell’avv. Nicotra e motivo n. 8 di quello a firma dell’avv. Gaito), per un verso, le relative doglianze appaiono del tutto destituite di fondamento, con riguardo, in particolare, all’affermazione, contenuta nel ricorso a firma dell’avv. Nicotra, secondo cui i giudici d’appello, pur correggendo in parte la sentenza di primo grado, avrebbero applicato "le pene massime edittali", quando, come risulta dalla lettura dell’impugnata sentenza, la pena base per il reato di estorsione, ritenuto il più grave, risulta fissata nella misura, ben lontana dai massimi, di anni sette di reclusione ed Euro 1100 di multa; per altro verso, le stesse doglianze altro non esprimono se non un legittimo ma del tutto soggettivo ed opinabile dissenso rispetto alla mancata concessione delle attenuanti generiche (più che adeguatamente giustificata, peraltro, dalla corte di merito sulla base non solo della riscontrata assenza di "comportamenti positivi da valutare al riguardo" ma anche della non contestata affermazione che, sul punto, la difesa non aveva neanche insistito nella formulazione dei motivi d’appello), come pure rispetto al mancato contenimento della pena nei minimi edittali, a proposito della quale appare sufficiente ricordare il noto e consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, anche quando la pena si discosti dai detti minimi senza tuttavia superare una misura media (come si verifica appunto nella specie) non è necessaria una specifica ed analitica motivazione;

h) con riguardo alla mantenuta confisca della soc. Calcestruzzi, essendo le relative doglianze basate sull’assunto che non sarebbe stata adeguatamente comprovata la cointeressenza del Di.Ga. in detta società, appare sufficiente rimandare a quanto già osservato, a confutazione di detto assunto, ai punti d/2, d/3, d/4 e d/5; e ciò senza contare che, comunque, trattandosi di società di cui, secondo quanto sostenuto dalla stessa difesa, è stato a suo tempo dichiarato il fallimento, appare assai discutibile che permanga in capo al ricorrente un interesse giuridicamente apprezzabile ad opporsi alla confisca;

quanto alla posizione delle costituite PARTI CIVILI. – che, essendosi verificata, rispetto ad esse, la soccombenza di tutti i ricorrenti, questi vanno condannati alla rifusione, in loro favore, delle spese sostenute nel presente grado di giudizio, che si liquidano come da dispositivo, distinguendo quelle sostenute dai comuni di Agrigento e Canicattì, costituitisi nei confronti di tutti gl’imputati, e quelle sostenute dal comune di Favara, costituitosi solo nei confronti di alcuni.

P.Q.M.

La Corte:

– annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Lo. limitatamente alla misura della pena, che ridetermina in anni 13, mesi 6 e giorni dieci di reclusione;

– rigetta nel resto il ricorso di Lo.;

– annulla la sentenza impugnata nei confronti di C.F., limitatamente alla libertà vigilata, e nei confronti di B. A. e S.V., limitatamente all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, con rinvio per nuovo giudizio su tali punti ad altra sezione della corte d’appello di Palermo;

– rigetta nel resto i ricorsi di B., di S. e di C. F.;

– rigetta gli altri ricorsi e condanna i relativi ricorrenti al pagamento delle spese processuali;

– condanna altresì tutti i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali in favore delle parti civili comune di Agrigento e comune di Canicattì, che liquida per ciascuno di essi comuni in Euro cinquemila, oltre a spese generali ed accessori, come per legge;

– condanna inoltre B., C.F., C. V., Co., L., M., R. e S., in solido, alla rifusione delle spese della parte civile comune di Favara, che liquida in complessivi Euro tremilaottocento, oltre a spese generali e accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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