Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-03-2012, n. 4448 Effetti del fallimento per il fallito

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 2.01.2002 C.I. e le figlie C., L. e L.S., adivano il Tribunale di Napoli, chiedendo di essere reintegrate la prima nel possesso del cantinato di un fabbricato sito in (OMISSIS) e le altre nel possesso del locale terreno ad uso negozio sito al civico n. (OMISSIS) delle stessa via, nonchè del cantinato ubicato all’interno del fabbricato sito alla via (OMISSIS). Deducevano le ricorrenti che la C. era usufruttuaria del bene oggetto del predetto cantinato, mentre le sorelle L. erano nude proprietarie, unitamente all’altra loro sorella, L.R., degli altri cespiti oggetto dello spoglio, di cui iL loro padre L.A. era usufruttario; aggiungevano che L.R. (unitamente al proprio marito La.Al.) occupava i locali in questione nei quali si era arbitrariamente introdotta mediante effrazione delle serrature e dei lucchetti delle porte; precisavano che L.C. era depositaria delle chiavi dei locali ricevute dal custode nominato a seguito dell’esecuzione di una pregressa procedura di sfratto per morosità promossa dall’usufruttuario L.A. contro della soc. Edengelo, di cui L.R. era socia unitamente al proprio marito La.Al.; poichè tali fatti integravano gli estremi di uno spoglio del loro possesso, insistevano le ricorrenti per un provvedimento di reintegra ne possesso di tali locali sia nei riguardi della predetta R. L. sia della nominata soc. Edengelo che ivi svolgeva attività commerciale.

L.R. si costituiva deducendo che si era introdotta in tali locali in quanto versavano in pessime condizioni essendo rimasti chiusi per molto tempo; che li aveva ripuliti agendo quindi anche nell’interesse delle altre comproprietarie; che, nella sua qualità di comunista, in data 21.12.2001 li aveva concessi in locazione alla sopra ricordata soc. Edengelo per il canone di L. 5.000.000 ( La predetta società in precedenza era stata conduttrice dei locali stessi da cui però era stata estromessa a seguito dell’espletata procedura di sfratto per morosità di cui si è fatto cenno). Si costituiva anche la snc Edengelo che negava di aver commesso il denunciato spoglio, avendo solo la detenzione dei locali presi in locazione. Il giudice adito, pronunciava quindi la richiesta ordinanza di reintegra ingiungendo a L.R. ed alla snc Edengelo di reintegrare le ricorrenti nel possesso dei locali in questione. La causa veniva quindi interrotta a seguito del fallimento dell’indicata società e di L.R. quale soda illimitatamente responsabile e veniva successivamente riassunta sia dalle ricorrenti che dalla curatela del fallimento. Il Tribunale quindi, con sentenza depositata il 21 ottobre 2003, rigettava la domanda di reintegrazione proposta dalla C., in quanto usufruttuaria del cespite oggetto della domanda; accoglieva le istanze delle L. ed in parziale modifica dell’ordinanza interdicale, ordinava alle parti resistenti di reintegrarle nei compossesso dei beni sopra indicati, condannando pertanto le ricorrenti a riammettere nel compossesso dei cespiti il fallimento di L.R., così come richiesto dalla curatela fallimentare.

Avverso tale sentenza proponeva appello quest’ultima insistendo per il rigetto della domanda possessoria e chiedendo la condanna delle appellate alla restituzione dei locali in discorso, previa declaratoria di validità ed efficacia del contratto di locazione stipulato tra L.R. e la snc Edengelo. Resistevano le appellate, formulando appello incidentale relativamente alla parte della sentenza che aveva riconosciuto il compossesso di R. L.; all’udienza di precisazione delle conclusioni le medesime producevano copia delle transazioni stipulate il 5.10.2007 e il 20.12.07 con la curatela; da tale atto si evinceva che la curatela aveva ceduto a L.C. la quota di comproprietà di cui era titolare la fallita R., di talchè quest’ultima non poteva più vantare alcun diritto di proprietà o di disponibilità dei beni oggetto della lite, per cui le stesse appellate chiedevano dichiararsi cessata la materia del contendere.

L’adita Corte d’Appello di Napoli, sentenza n. 1024/10 depos. il 22.3.2010 in parziale riforma della sentenza impugnata, dato atto dell’intervenuta transazione, dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda di reintegrazione del possesso proposto da C., L. e L.S. e sulla contrapposta domanda di restituzione proposta dalla curatela fallimentare; ricettava altresì la domanda di risarcimento dei danni formulata dal Fallimento.

Secondo la Corte l’indicata transazione importava la cessazione della materia del contendere sia con riferimento alla domanda possessoria delle L. che a quella di restituzione degli immobili spiegata dalla curatela, atteso che con l’atto transattivo le parti avevano modificato la titolarità del diritto reale (che non competeva più alla curatela stessa), con conseguente assorbimento dell’azione possessoria; in effetti con l’atto di cessione della quota era stata trasferito a C. il possesso totale dell’immobile.

Per la cassazione della sentenza ricorrono con separato atti ed in proprio L.R. e la soc. Edengelo di Rosa Laurino e C, formulando articolate censure; resistono con controricorso C., L. e L.S., le quali propongono ricorso incidentale. Le parti infine hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione

1- Preliminarmente le controricorrenti eccepiscono inammissibilità dei ricorsi principali per carenza di capacità processuale, di legittimazione attiva e d’interesse. Le ricorrenti in quanto entrambe dichiarate fallite non erano legittimate a proporre l’impugnazione in esame. Nella sentenza impugnata era parte la curatela del fallimento e questa soltanto aveva il potere di chiederne la cassazione. La curatela, invece, come affermano e documentano gli stessi ricorrenti, aveva deciso di non proporre l’impugnativa e di prestare acquiescenza alla decisione de qua, anche se il giudice delegato aveva facoltizzato le fallite di proporre in proprio l’impugnazione.

L’eccezione non è fondata.

Secondo l’attuale orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il fallito può promuovere o proseguire le cause di cui il curatore si disinteressi con esplicita manifestazione ovvero con atteggiamento di totale inerzia. Nella fattispecie è vero che gli organi del fallimento non hanno ritenuto conveniente proseguire la controversia, ma è anche vero che i falliti, peraltro sulla base di un prassi ormai diffusa, sono stati esplicitamente facoltizzati dal giudice delegato a proseguire a loro totale onere il giudizio in corso, attraverso la proposizione del ricorso per cassazione. In analoga fattispecie si è così espressa questa S.C.: "In tema di cosiddetta eccezionale legittimazione processuale suppletiva del fallito relativamente a rapporti patrimoniali compresi nel fallimento per il caso di disinteresse od inerzia degli organi fallimentari, la negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia è sufficiente ad escludere detta legittimazione, allorquando venga espressa con riguardo ad una controversia della quale il fallimento sia stato parte, poichè, in tal caso è inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito, mentre non lo è, allorquando si tratti di uno controversia alla quale il fallimento sia rimasto de tutto estraneo ed in particolare quando alla negativa valutazione si accompagni l’espresso riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere (principio affermato dalla Corte Cass. con riferimento ad un caso in cui il fallito aveva rivolto agli organi fallimentari istanza per la riassunzione di una controversia rimasta interrotta per effetto del fallimento e l’istanza, su conforme parere del curatore, era stata rigettata dal giudice delegato in considerazione dell’alcatorietà del giudizio, ma con salvezza della riassunzione in proprio da parte del fallito ed a sue spese). (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23435 del 16/12/2004).

Non appare altresì fondata l’ulteriore eccezione d’inammissibilità del ricorso per carenza d’interesse perchè i falliti, "nell’improbabile accoglimento del ricorso non potrebbero avere alcun risultato utile giuridicamente apprezzabile", atteso che i beni ritornerebbero pur sempre alla massa fallimentare.

Osserva invece il Collegio che non può escludersi che il fallito conservi anche, in questo caso, un interesse personale, perchè potrebbe pur sempre giovarsi e trarre beneficio, magari indirettamente, dall’eventuale nuovi apporti alla massa fallimentare.

2 – Passando all’esame dei due ricorsi principali formulati rispettivamente della Soc. Edengelo di Rosa Laurino & C. e dalla medesima L.R., occorre dire che le censure sono in parte di identico tenore, trattandosi per io più dei motivi d’appello già formulati ed esaminati dalla Corte napoletana che si è sulle stesse pronunciata anche se in modo non conforme alla aspettative delle esponenti.

Ciò posto, passando al ricorso principale della Soc. Edengelo, con un 1^ autonomo motivo la società denuncia la violazione dell’art. 1169 c.c. nonchè la violazione dell’art. 12 preleggi. Secondo l’esponente l’art. 1169 c.c. si riferisce solo a chi ha il possesso e non anche a colui che ha la detenzione della res, come nel caso del conduttore. Per l’art. 1169 c.c. invero, l’azione di reintegrazione può essere promossa anche contro colui il quale, in virtù di un acquisto a titolo particolare, è nel possesso del bene, con la coscienza dell’avvenuto spoglio. Ciò premesso, la società ricorrente, in quanto mera conduttrice del locale, era carente di legittimazione passiva, nè tale norma può essere estensivamente interpretata – come ha fatto la Corte distrettuale – nel senso di comprendere nel concetto di "possesso" anche quello di "detenzione" della res in base ad un contratto stipulato con lo spoliator.

La doglianza non è fondata.

L’interpretazione estensiva della norma in questione proposta dalla Corte napoletana può essere condivisa, perchè la nozione di possesso nella ratio della normativa che regola l’azione di spoglio, va assunta in senso lato siccome comprensiva della detenzione. In tal senso si sono espresse dottrina e giurisprudenza, rilevando che "….sul piano sostanziale, non v’è ragione perchè l’azione de qua per la sa natura reale e per il suo carattere recuperatorio, non sia data anche contro colui che abbia acquistata la detenzione in virtù di un rapporto giuridico e nella consapevolezza dello spoglio, con salvaguardia, quindi del detentore in buona fede." (Cass. n. 1555 del 17.05 1968).

Non v’è dubbio peraltro che la società riscorrente si fosse comunque giovata del lamentato spoglio, traendo così profitto dell’atto lesivo, essendo stata riammessa nella detenzione di quegli stessi locali da cui era stata in precedenza legittimamente estromessa a seguito della menzionata procedura di sfratto. Deve peraltro rilevarsi che sempre questa S.C. ha ritenuto al riguardo:

"Lo spoglio e la turbativa costituiscono fatti illeciti e determinano la responsabilità individuale dei singoli autori degli stessi; ne segue che nei giudizi possessori enunciatori, quando il fatto lesivo de possesso sia riferibile a diversi soggetti, l’uno quale esecutore materiale e l’altro quale autore morale (ed è tale anche il soggetto che dell’atto lesivo si giovi), sussiste la legittimazione passiva di entrambi…." (Cass., n. 7748 del 05/04/2011; Cass. n. 3941 del 26.4.1994). Non v’è dubbio alcuno che nella fattispecie, la soc. esponente si fosse giovata dello spoglio dei locali perpetrato dalla socia L.R..

La Soc. Edengelo ha quindi proposto ulteriori motivi subordinati al mancato accoglimento della prima doglianza. Con un primo motivo l’esponente denunzia la violazione dell’art. 112 c.p.c., evidenziando e riproponendo la censura relativa al vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il tribunale, che, nella sua sentenza, aveva "parlato di compossesso", riconoscendo la qualifica di compossessore anche a L.R., autrice del lamentato spoglio, mentre le allora ricorrenti avevano chiesto soltanto di essere immesse nel possesso pieno e non anche nel compossesso del bene di cui si assumevano spogliate; in tal modo il giudice di merito aveva mutato la domanda sostituendo la causa petendi (il possesso acquisito attraverso le chiavi dell’immobile invece di possesso derivante dall’essere nude proprietarie) con una situazione di compossesso (con lo spoliator), disponendo pertanto la reintegra del compossesso della res. La doglianza è infondata. Osserva il Collegio che – a parte l’evidente carenza d’interesse dell’esponente – la Corte distrettuale ha rigettato tale specifica censura con motivazione, logica, corretta e condivisibile, osservando che il tribunale aveva svolto una legittimila attività ermeneutica " …. d’interpretazione della domanda e di valutazione delle risultanze istruttorie senza travalicare i limiti del thema decidendum"; in sostanza si è trattato di un accoglimento parziale della domanda stessa in relazione al fatto che le emergenze istruttorie avevano dimostrato sussumibile nell’ambito di una situazione di compossesso, per cui era evidente "che la tutela accordata costituiva un minus" rispetto alla richiesta, senza alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c. anche con riferimento al titolo del possesso ritenuto dal giudice (possesso per disponibilità delle chiavi dell’immobile, ovvero per diritto di proprietà).

Passando all’ulteriore censura ( n. 2), con essa si denunzia la violazione dell’art. 1168 c.c. e art. 1146 c.c. e della norma sull’usufrutto (art. 978 c.c.); deduce l’esponente che l’usufruttuario mentre nei rapporti con i terzi è possessore è semplice detentore nei confronti del nudo proprietario. Non condivide la tesi della Corte secondo cui gli eredi dell’usufruttuario non succedono nella posizione di quest’ultimo: "alla morte dell’usufruttuario il diritto si estingue e anche il potere sulla cosa (possesso) viene a cessare ed il diritto del nudo proprietario di espande automaticamente, riacquistando il possesso esercitato in precedenza proprio attraverso l’usufruttuario.".

Con il 3 motivo, si denuncia la violazione dell’art. 1140 c.c. e dell’art. 978 c.c. nonchè vizio di motivazione: il tribunale avrebbe errato nel ritenere che le ricorrenti sorelle L., dopo la morte del loro padre usufruttuario, fossero rimaste nel compossesso del bene. In realtà secondo l’esponente il possesso dei beni esercitato dall’usufruttuario ( L.A.) continuava poi nella sua unica erede ( L.R.) come espressamente previsto dall’art. 1146 c.c..

Con l’ulteriore censura (n. 4) l’esponente eccepisce la violazione dell’art. 1146 c.c. e delle norme in tema di usufrutto. Deduce che "il nudo proprietario al momento della morte dell’usufruttuario non acquista il possesso del bene, che ai sensi dell’art. 1146 c.c., continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione".

L.R., come si è detto, era diventata l’unico possessore in quanto unica erede del padre che possedeva quale usufruttuario. La predetta L.R. aveva acquisito tale qualifica di erede in quanto le sorelle avevano rinunciato all’eredità paterna; essa dunque attraverso l’illegittima ordinanza interdicale sollecitata dalle proprie sorelle , era stata di fatto spogliata del possesso della res che all’epoca a lei sole competeva; ciò giustifica la sua domanda di essere reintegrata nei locali da cui sarebbe stata arbitrariamente estromessa, assieme alla sua società.

Le suddette censure, sono strettamente connesse e possono essere congiuntamente trattate.

Appare opportuno, secondo il Collegio , in premessa ricordare – anche per sgomberare il campo da inutili complicazioni e da inammissibili argomenti di natura petitoria – che ai sensi dell’art. 1168 c.c., commi 1 e 2 l’azione di reintegrazione del possesso, può essere proposta anche da chi abbia soltanto la detenzione della cosa, tranne il caso che l’abbia per ragioni si di servizio o di ospitalità. Nel giudizio possessorio – com’è noto – assume rilievo esclusivo la situazione di fatto esistente al momento dello spoglio, con la conseguenza che l’azione di reintegrazione non postula un titolo giustificativo del possesso, ed è sufficiente per la sua proposizione un possesso qualsiasi, anche se illegittimo o abusivo o di mala fede, purchè abbia i caratteri esteriori della proprietà (Cass. n. 4625 del 21/05/1987; Cass. n. 5299 del 7.12.1977). "Il detentore qualificato del bene, ovvero chi detenga la cosa nell’interesse proprio in forza di un titolo contrattuale anche atipico, è legittimato a proporre l’azione di reintegra nel possesso anche nei confronti dello stesso possessore, dovendosi escludere per contro che la legittimazione attiva sia estesa a qualsiasi detentore, purchè non sia tale per ragioni di servizio o di ospitalità." (Cass. Sez. 2, n. 10676 del 22/07/2002). Nel caso in esame non è in discussione che le sorelle L. – all’epoca dello spoglio nude proprietarie ed in possesso delle chiavi dei locali – avessero quautomeno la detenzione qualificata e nel loro interesse dei locali, circostanza che di per sè sola, le legittimava a chiedere al giudice l’azione di reintegra, a prescindere quindi dalla speciosa, vexata quaestio se esse avessero o meno il possesso vero e proprio, in relazione alla loro qualifica di nude proprietarie dei locali. A parte tali considerazioni, si osserva che l’indirizzo seguito sul punto dalla corte partenopea è pienamente conforme alla giurisprudenza di questa S.C. secondo cui l’usufruttuario, ancorchè possessore rispetto ai terzi, è, nel rapporto con il nudo proprietario, mero detentore del bene (Cass. n. 10453 del 12.5.11;

Cass. n. 355 de 10/01/2011). Ne discende che alla morte dell’usufruttuario non vi è alcuna successione del possesso in favore del suo erede, come ritengono i ricorrenti, possesso che per effetto del consolidamento della proprietà, ritorna ai nudi proprietari come naturale espansione del loro diritto.

Poste tali premesse appare chiaramente infondata anche la successiva censura con la quale esponente ripropone la domanda di restituzione del possesso degli immobili "che sono stati sottratti con la forza esecutiva del provvedimento interdicale e la domanda di condanna delle attrici al risarcimento dei danni". Lo stesso discorso deve farsi per l’ultima censura relativa alle spese processuali, poste correttamente a carico degli esponenti per il principio della soccombenza.

Passando all’esame del ricorso principale formulato da R. L., osserva il Collegio che a parte il primo motivo, le altre censure sono identiche a quelle ora esaminate contenute nel ricorso della soc. Edengelo. L.R. eccepisce autonomamente la violaz. art. 100 c.p.c. in relazione alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere pronunciata dalla Corte per effetto dell’avvenuta transazione intervenuta tra la curatela fallimentare e le L.; secondo l’esponente la Corte ha errato in quanto non sarebbe venuta meno la ragione sostanziale del contendere; ed inoltre le stesse parti avevano espressamente escluso dalla transazione questa lite e si erano espressamente opposte aita suddetta pronuncia.

D’altra parte, la cessione da parte del Fallimento a L.C. della quota di proprietà di L.R. non equivaleva al trasferimento ad essa della totale disponibilità dell’immobile.

La doglianza non può essere condivisa. E’ vero infatti che dalla transazione era stata esclusa la presente lite, ma è pur vero che – come ha osservato la Corte – L.C., ricevute le chiavi su incarico de padre, non aveva posto in essere atti idonei ad escludere dal compossesso la sorella R.; d’altra parte a seguito degli eventi verificatisi nel corso del giudizio, non sarebbe stato più possibile, nella sostanza, la restituzione dei locali a R., di cui essa stessa si era spogliata, cedendo la sua quota di proprietà alla sorella C., a seguito del noto atto di transazione e vendita intercorso con curatela del fallimento. Dunque non v’è dubbio che si poteva parlare di cessazione della materia del contendere quantomeno in relazione alla perdita d’interesse da parte di R. di rientrare nei locali; tuttavia astrattamente l’interesse poteva permanere in relazione alla domanda risarcitoria, che però la stessa corte distrettuale ha esaminato ritenendola infondata, con appropriata e congrua motivazione.

Per quanto riguarda i residui motivi n. 2 (violazione art. 112 c.p.c.) e 3 ( violaz. art. 1168 c.c. e art. 1146 c.c. e della norma sull’usufrutto): si rinvia a quanto considerato a proposito delle analoghe censure del ricorso principale.

Per quanto concerne infine i ricorsi incidentali, di uguale contenuto, formulati dalle controricorrenti nei riguardi di R. L. e della snc Edengelo, gli stessi sono parimenti infondati.

Con essi le esponenti lamentano che il tribunale avesse nella fase di merito reintegrato L.R. nel compossesso per 1/4, sostenendo che la medesima non avesse in precedenza tale possesso, pronunciandosi peraltro oltre i limiti della domanda da lei proposta.

Ciò dunque avrebbe dovuto comportare la piena soccombenza del fallimento per cui non appariva giustificata la dichiarata compensazione delle spese nella misura del 20% per entrambi i gradi del giudizio.

La censura non ha pregio. La corte d’appello ha infatti dichiarato – come si è visto in precedenza – la cessazione della materia del contendere sulla domanda di reintegra, ma si è anche pronunciata sul punto in questione solo per disciplinare le spese di lite, secondo il principio della soccombenza virtuale. In tal modo il giudice a quo aveva correttamente ritenuto di condividere la censurata impostazione del primo giudice che aveva affermato che tutte le sorelle L. avevano il compossesso dei locali in quanto comproprietarie, nè poteva ritenersi che L.R. fosse stata esclusa dal compossesso a causa del comportamento incompatibile delle sue sorelle (v. art. 1102 c.c., comma 2); correttamente ha quindi ritenuto la Corte di merito di compensare in parte le spese di entrambi i gradi.

In conclusione deve pronunciarsi il rigetto dei ricorsi principali e di quelli incidentali. Le spese processuali per il principio della soccombenza sono poste a carico di ciascuno dei ricorrenti principali nella misura del 50%, ma si ritiene di compensare per la restante parte attesa la parziale soccombenza delle controricorrenti.

P.Q.M.

la Corte rigetta i ricorsi principali e quelli incidentali; condanna ciascuno dei ricorrenti principali al pagamento di 1/2 delle spese processuali che liquida per l’intero in Euro 3.200,00, di cui 200,00 per spese vive, oltre spese generali ed accessori come per legge, compensando la restante metà.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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