Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-03-2012, n. 4445 Risoluzione del contratto per inadempimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 5-3-2003 T.S. e C.C.B. esponevano di avere stipulato con F. E.R., in data 4-12-2001, un preliminare di compravendita relativo ad un appartamento sito in (OMISSIS), e di aver ricevuto dalla promittente compratrice la somma di Euro 77.468,56 a titolo di caparra confirmatoria. Gli attori deducevano che per la stipula del contratto definitivo e per il versamento del saldo di Euro 92.962,24 era stata prevista la data del 4-12-2002, e che la F. era rimasta inadempiente, continuando ad occupare l’immobile fin dalla data del preliminare. Ciò posto, essi convenivano la F. dinanzi al Tribunale di Pistoia, Sezione Distaccata di Monsummano Terme, chiedendo che venisse dichiarata la risoluzione del contratto preliminare ai sensi dell’art. 1457 c.c., accertata la legittimità della ritenzione della somma versata dalla convenuta a titolo di caparra confirmatoria e pronunciata la condanna della resistente al pagamento, a titolo di risarcimento danni, dell’equivalente pecuniario del godimento dell’immobile dal tempo della consegna a quello dell’effettivo rilascio.

La convenuta, costituitasi tardivamente, contestava la fondatezza della domanda, sostenendo che il termine previsto non era essenziale, ed eccependo l’inadempimento degli attori, per non essere l’immobile commerciabile e per essere il medesimo gravatoda un’iscrizione ipotecaria nonostante l’impegno dei promittenti venditori a cederlo libero da vincoli.

Con sentenza depositata l’8-7-2005 il Tribunale adito rigettava la domanda di risoluzione del preliminare ex art. 1457 c.c.; dichiarava legittimo, a far data dal 5-3-2003, il recesso degli attori da tale contratto; accertava il diritto dei promittenti venditori alla ritenzione della caparra confirmatoria ricevuta nei limiti di Euro 16.000,00 (importo pari alla indennità dovuta per 26 mesi di occupazione dell’immobile), da maggiorare di Euro 650,00 per ogni mese di ulteriore occupazione fino al rilascio; condannava la convenuta al rilascio dell’immobile.

Avverso tale sentenza proponevano appello principale il T. e la C. e appello incidentale la F..

Con sentenza depositata il 9-12-2009 la Corte di Appello di Firenze rigettava l’appello principale; in accoglimento dell’appello incidentale e in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava le domanda attrici dirette alla declaratoria di legittimità della ritenzione della caparra e di condanna della promittente acquirente al risarcimento danni. In motivazione, la Corte territoriale rilevava, in particolare, che con l’atto introduttivo gli attori si erano limitati a chiedere la risoluzione di diritto del contratto preliminare ai sensi dell’art. 1457 c.c., sul presupposto – rivelatosi erroneo – del carattere essenziale del termine fissato per il versamento del saldo del prezzo; che i medesimi non avevano esercitato nemmeno implicitamente il recesso ex art. 1385 c.c., comma 2 e non avevano, pertanto, diritto a trattenere la caparra; che, non avendo gli attori proposto domanda di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c., in loro favore non poteva essere riconosciuto il chiesto risarcimento danni per l’occupazione dell’immobile, rientrando tale occupazione nell’assetto contrattuale voluto dalle parti e potendo il relativo danno venire in evidenza solo in caso di scioglimento del vincolo contrattuale.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono il T. e la C., sulla base di due motivi.

La F. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo i ricorrenti, denunciando la violazione e falsa interpretazione dell’art. 1385 c.c., sostengono che nelle conclusioni formulate con l’atto di citazione gli attori avevano chiesto in via principale la risoluzione del contratto e il conseguente risarcimento danni e, in via subordinata, il recesso e, dunque, l’accertamento della legittima ritenzione della caparra; e che, pertanto, erroneamente la Corte di Appello ha preso in considerazione solo la domanda di risoluzione ex art. 1457 c.c., comma 2, omettendo di valutare la domanda di recesso. Rilevano che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, il diritto di recesso è stato esercitato, sia pure in maniera implicita, attraverso la richiesta di accertamento della legittimità della ritenzione della caparra. Deducono, inoltre, che il diritto all’incameramento della caparra confirmatoria, assolvendo la funzione di preventiva liquidazione del danno per il mancato pagamento del prezzo, non esclude il diritto del promittente venditore ad ottenere il risarcimento del danno per l’ulteriore occupazione dell’immobile nel frattempo consegnato alla controparte.

Il motivo è infondato.

E’ esatta la premessa secondo cui la domanda di ritenzione della caparra è legittimamente proponibile, nell’incipit del processo, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla parte nell’introdurre l’azione "caducatoria" degli effetti del contratto: se quest’azione dovesse essere definita "di risoluzione contrattuale" in sede di domanda introduttiva, sarà compito del giudice, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e qualificazione in iure della domanda stessa, convertirla formalmente in azione di recesso, mentre la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l’ulteriore corredo di qualsivoglia domanda "risarcitoria", non potrà essere legittimamente integrata, nell’ulteriore sviluppo del processo, con domande "complementari", nè di risarcimento vero e proprio nè di ritenzione della caparra, entrambe inammissibili perchè nuove (Cass. Sez. Un. 14-1-2009 n. 553).

Senonchè, nel caso in esame la Corte di Appello si è interrogata se, pur avendo chiesto che venisse accertata l’intervenuta risoluzione del contratto preliminare ai sensi dell’art. 1457 c.c., gli attori, nel chiedere di trattenere la caparra confirmatoria, avessero inteso recedere dal contratto ex art. 1385 c.c. E, procedendo all’interpretazione della domanda giudiziale, ha escluso che con essa gli istanti abbiano manifestato, sia pure implicitamente, una simile volontà di recesso.

E’ noto che l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza e del suo contenuto costituiscono espressione di una tipica indagine di fatto riservata al giudice del merito, censurabile in cassazione solo sotto il profilo della congruità e logicità della motivazione (Cass. 11-3-2011 n. 5876; Cass. 22-7-2009 n. 17109;

Cass. 24-7-2008 n. 20373; Cass. 26-2-2006 n. 2467).

Nella specie, la valutazione espressa dal giudice di merito risulta sorretta da una motivazione esauriente e congrua, che muove dall’esatto rilievo secondo cui una volontà di recesso può essere individuata solo ove il contraente adempiente abbia manifestato la volontà di contenere la pretesa risarcitoria nei limiti della caparra confirmatoria ricevuta (ovvero del doppio di quella data);

laddove gli attori, con l’atto introduttivo, non hanno limitato la loro pretesa al trattenimento della caparra confirmatoria, ma hanno chiesto il risarcimento di somme ulteriori per l’occupazione dell’immobile protrattasi dalla data del preliminare. Il tutto in linea con il principio, affermato dalla giurisprudenza più recente, secondo cui i rapporti tra l’azione di risoluzione e di risarcimento integrale del danno e l’azione di recesso e di ritenzione della caparra si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale, venendo la finalità di liquidazione anticipata, forfetaria e stragiudiziale, tipica della richiesta di ritenzione della caparra, irredimibilmente esclusa dalla pretesa giudiziale di un maggior danno da risarcire, conseguibile secondo le normali regole probatorie (v. Cass. Sez. Un. 14-1-2009 n. 553).

Priva di consistenza, di conseguenza, si palesa la tesi dei ricorrenti, secondo cui il promittente venditore che receda dal contratto preliminare per inadempimento della controparte, oltre a trattenere la caparra, potrebbe pretendere un’ulteriore somma di danaro a titolo di risarcimento del danno derivante dall’abusiva occupazione dell’immobile. Un simile assunto stride inevitabilmente con il chiaro tenore dell’art. 1385 c.c., comma 2, che attribuisce alla parte non inadempiente che intenda recedere dal contratto il solo diritto di ritenere la caparra (o di esigere il doppio della caparra data). Deve aggiungersi che l’affermazione, contenuta a pag.

25 del ricorso, secondo cui gli attori, in citazione, avrebbero chiesto, "in caso di rigetto della domanda di risoluzione formulata ex art. 1457 c.c.", sia "l’accertamento del recesso operato dagli odierni ricorrenti e il conseguente diritto degli stessi a trattenere la caparra" versata dalla F., sia la condanna di quest’ultima "al pagamento in loro favore di un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno derivante dall’abusiva occupazione dell’immobile", si pone in contraddizione con quanto affermato a pag.

20 dello stesso ricorso, secondo cui in primo grado gli attori avevano chiesto, "in via principale, la risoluzione del contratto e il conseguente risarcimento del danno" e, "in denegata ipotesi, il recesso e dunque l’accertamento della legittima ritenzione della caparra".

Ciò posto, si osserva che la Corte di Appello, nell’escludere che con la citazione introduttiva gli attori abbiano manifestato la volontà di recedere dal preliminare e nel dare atto del giudicato formatosi sul capo della sentenza di primo grado con cui era stata disattesa la domanda di risoluzione di diritto del contratto ex art. 1457 c.c., ha legittimamente rigettato sia la richiesta di ritenzione della caparra (parzialmente accolta dal Tribunale sul presupposto, rivelatosi erroneo, dell’esercizio del recesso da parte dei promittenti venditori) che quella di risarcimento del danno da occupazione illegittima dell’immobile. Con motivazione esente da vizi logici e, quindi, non censurabile in questa sede, la Corte territoriale ha infatti spiegato che, rientrando l’occupazione del bene da parte della promittente acquirente nell’assetto contrattuale voluto dalle parti, la detta pretesa risarcitoria potrebbe venire in evidenza solo in caso di scioglimento del contratto e potrebbe, pertanto, essere fatta valere solo contestualmente alla proposizione di una domanda di inadempimento ex art. 1453 c.c., nella specie non azionata.

2) Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 184 c.p.c. Nel far presente che la convenuta si è costituita in giudizio tardivamente, sostengono che la Corte di Appello non poteva porre a fondamento della decisione la scrittura privata del 23-5-2003, prodotta dalla F. quando era già decorso il termine assegnato alle parti dal Tribunale ex 184 c.p.c. per l’articolazione dei mezzi istruttori.

Il motivo è inammissibile per carenza d’interesse.

La Corte di Appello, dopo avere escluso che gli attori, con l’atto introduttivo del giudizio (notificato il 5-3-2003), abbiano esercitato, sia pure implicitamente, il diritto di recesso ex art. 1385 c.c., ha rilevato che in ogni caso, anche a voler opinare diversamente, dovrebbe ritenersi che successivamente gli istanti hanno rinunciato a tale recesso, per effetto della scrittura privata stipulata dalle parti il 23-5-2003, con la quale è stata confermata la persistente efficacia del preliminare alla condizione del versamento del saldo da parte della F. e della stipula del definitivo entro il 20-6-2003.

Appare evidente che il contenuto della scrittura privata del 23-5- 2003 è stato preso in considerazione ad abundantiam, per dimostrare che, anche a voler ritenere esercitato il recesso con l’atto di citazione, l’esito della lite non poteva che essere sfavorevole per gli attori. Le argomentazioni svolte al riguardo, pertanto, non incidono sull’effettiva ratio decidendi, costituita dall’accertato mancato esercizio del diritto di recesso.

Orbene, costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censuri una argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam e che, pertanto, non costituisce una ratio decidendi della medesima. Una affermazione, infatti, contenuta nella motivazione della sentenza di appello, che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse (tra le tante v. Cass. 19-2-2009 n. 4053;

Cass. 5-6-2007 n. 13068; 14-11- 2006, n. 24209).

3) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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