Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-03-2011) 11-10-2011, n. 36636 Giudizio abbreviato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 29.1.2009 il Gup del Tribunale di Ancona – all’esito del giudizio abbreviato condizionato all’espletamento di perizia psichiatrica – dichiarava M.M. colpevole del delitto di omicidio volontario, aggravato ai sensi dell’art. 61 cod. pen., n. 5, commesso il (OMISSIS), in danno di C. M., immobilizzata a terra e colpita al collo ed al volto con un coltello, condannandolo alla pena di anni venti di reclusione. Il giudice assolveva, invece, l’imputato dal reato di rapina aggravata in danno della vittima ed escludeva la sussistenza delle aggravanti contestate della premeditazione e del nesso teleologia).

2. Il 17.3.2010 la Corte d’assise d’appello di Ancona, sull’impugnazione dell’imputato, del Procuratore Generale e del Procuratore della Repubblica, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava colpevole il M. del reato di rapina aggravata e riteneva la sussistenza dell’aggravante della premeditazione e di quella del nesso teleologia), rideterminando la pena nell’ergastolo.

3. La Corte territoriale, preliminarmente, riteneva infondata l’eccezione di inutilizzabilità degli accertamenti tecnici irripetibili ex art. 360 cod. proc. pen., in ragione dell’omesso avviso al difensore. Evidenziava, in specie, la Corte che: l’incarico era stato affidato al consulente il 22.1.2007 ed i reperti erano stati consegnati allo stesso quando il M. non era ancora indagato come dimostra il fatto che il predetto era stato sentito il 23.1.2007, ore 14,52, come persona informata dei fatti, mentre assumeva la formale veste di indagato il 26.1.2007; in ogni caso, il mancato avviso all’indagato ed al difensore, configurerebbe ipotesi di nullità a regime intermedio, sanata da espressa rinuncia dell’indagato con la richiesta di giudizio abbreviato, precisando, altresì, che la dedotta omissione non si traduce in assunzione di prova illegale, con conseguente divieto assoluto di utilizzabilità, ma di una inutilizzabilità espressamente limitata, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 360 cod. proc. pen., al dibattimento.

Nel merito, la Corte rilevava che la responsabilità del M. risultava fondata: a) sulle impronte delle scarpe rilevate sul luogo del fatto riconducibili a quella sequestrate all’imputato sulle quali venivano evidenziate tracce di sangue con profilo genetico sovrapponibile a quello della vittima; b) sul frammento di guanto di lattice – trovato a poca distanza dal corpo della vittima e sporco del sangue della stessa – sul quale si rinvenivano tracce biologiche con lo stesso profilo genetico dell’imputato; c) sulla verificata falsità dell’alibi del M., alla luce di quanto riferito dai testimoni; d) su quanto affermato dall’imputato in sede di interrogatorio, non avendo escluso di aver commesso l’omicidio, pur affermando di non ricordare.

Ad avviso della Corte l’obiettivo dell’imputato era sicuramente quello di commettere la rapina, non essendone individuabile un altro sotto il profilo logico; ciò era dimostrato dalle tracce di sangue in posti dove sapeva o sospettava che la donna tenesse abitualmente il danaro e dal fatto che era stata sottratta la borsa della vittima contenente danaro contante, la carta di identità ed il libretto per la riscossione della pensione, non rinvenuti nell’abitazione. Da ciò la configurabilità anche dell’aggravante di cui all’art. 61 cod. pen., n. 2.

La sussistenza dell’aggravante della premeditazione veniva ritenuta sulla base del fatto: che già altre volte la vittima aveva negato il danaro al M.; che il predetto si era recato a casa della vittima munito di guanti di lattice (per non lasciare tracce) e di una striscia di cellophan (utilizzata per tentare di soffocare la donna) che certamente non appartenevano alla vittima; che aveva aggredito la vittima non appena questa aveva aperto la porta, visto che il cadavere si trovava dinanzi all’ingresso; che il M. aveva tentato di precostituirsi un alibi.

Quanto agli esiti della consulenza del p.m. e della perizia disposta dal giudice di primo grado ai fini della verifica della condizione psichica del M., si evidenziava che in entrambe era stato concluso che l’imputato è persona tossicodipendente, senza gravi, permanenti ed irreversibili patologie derivate dall’assunzione di stupefacenti, affetta da disturbo di personalità antisociale insufficiente a determinare infermità mentale parziale o totale, ovvero, a comportare l’impossibilità di determinarsi autonomamente e liberamente al momento del fatto. Inoltre, nessun elemento deponeva per una patologia organica celebrale, esclusa anche a seguito dell’esame TAC dell’encefalo; anche l’infezione HIV e le altre infezioni risultavano ben controllate.

Riteneva, quindi, la Corte che non sussistevano elementi per i quali discostarsi dalle argomentazioni tecniche riferite dai periti, fondate su accertamenti accurati ed esaurienti; conseguentemente, non ravvisava alcuna necessità di disporre sul punto ulteriori accertamenti di natura tecnica (p. 36).

La sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 cod. pen., n. 5, andava ricondotta alla circostanza che il M. conosceva bene la vittima, la sua età e sue condizioni fisiche e sapeva che era da sola, traendo oggettivamente vantaggio da tali circostanze.

Infine, la Corte ha condiviso la valutazione del primo giudice in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, sottolineando la particolare efferatezza del fatto ed i precedenti penali a carico dell’imputato.

4. Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, denunciando:

a) violazione di legge penale e di norma processuale in relazione agli artt. 360 e 191 cod. proc. pen. con riferimento alla inutilizzabilità – già eccepita nei gradi di merito – degli accertamenti irripetibili effettuati dal consulente del pubblico ministero del prelievo e della comparazione del DNA per mancato avviso dell’indagato;

b) violazione di legge e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla sussistenza del reato di rapina; la Corte territoriale, riformando il giudizio di primo grado, ha ritenuto la prova della rapina pur in mancanza dell’accertata sottrazione di somme di danaro, deducendo la scomparsa di una borsa della vittima dalla testimonianza della nipote che era assente da casa da oltre un mese;

c) violazione di legge e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla sussistenza dell’aggravante della premeditazione argomentata sulla circostanza che il M. in precedenza si era visto negare il danaro richiesto alla vittima, sul rinvenimento di guanti di lattice e di una striscia di cellophan, nonchè sul tentativo dell’imputato di precostituirsi un alibi che dimostrerebbero la programmazione dell’omicidio, senza, invece, valutare adeguatamente che il coltello utilizzato apparteneva alla vittima e che i guanti di lattice – ammesso pure che fossero stati portati dall’imputato -potevano essere utilizzati per occultare le impronte da chi era intenzionato a rubare;

d) violazione di legge e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla sussistenza del nesso teleologia) con il ritenuto reato di rapina, trattandosi, al più di rapina impropria che esclude la ritenuta aggravante;

e) violazione di legge in ordine alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 cod. pen., n. 5, presunta sulla base dell’età della vittima, del suo stato di solitudine e del fatto che la stessa fosse claudicante;

f) violazione di legge e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche, avendo omesso la Corte di considerare le condizioni personali tossicodipendenza del M.;

g) violazione di legge penale e di norma processuale e mancata assunzione di prova decisiva; il ricorrente lamenta la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale richiesta al fine effettuare nuova perizia sulla condizione di cronica intossicazione da stupefacenti, ovvero per effettuare l’esame TAC richiesto dalla difesa già nel giudizio di primo grado; si censura, altresì, che la Corte avrebbe confuso lo stato di cronica intossicazione da stupefacenti di cui all’art. 95 cod. pen. con il vizio di mente (si richiama la decisione della Corte cost. n. 144 del 1998);

h) con l’ultimo motivo di ricorso si contesta, in genere, l’univocità e gravità degli indizi sui quali è stata fondata la responsabilità dell’imputato, in particolare avuto riguardo all’esito dell’accertamento tecnico sulle impronte delle scarpe ed al mancato rinvenimento di tracce di sangue sugli indumenti indossati dal M. il giorno del delitto.

Con la nota in data 24.1.2011 il ricorrente ha ribadito le suddette doglianze.

Motivi della decisione

1. E’ opportuno subito rilevare che l’ultimo motivo di ricorso si fonda su censure generiche ed esclusivamente in fatto, già proposte con l’atto di appello sulle quali la Corte territoriale ha adottato una motivazione – come innanzi sintetizzata – compiuta ed esente da contraddizioni e da vizi logici. Per tali ragioni sul punto il ricorso è inammissibile.

2. Manifestamente infondato è il ricorso quanto alla sollevata eccezione di inutilizzabilità degli accertamenti tecnici irripetibili, ex art. 360 cod. proc. pen., in ragione dell’omesso avviso al difensore.

Qualora il pubblico ministero debba procedere ad accertamenti tecnici non ripetibili previsti dall’art. 360 cod. proc. pen. sussiste l’obbligo di dare avviso al difensore solo nel caso che, al momento del conferimento dell’incarico al consulente, sia già stata individuata la persona nei cui confronti si procede. Tale obbligo, al contrario, non sussiste nel caso in cui la persona indagata sia stata individuata successivamente nel corso dell’espletamento delle operazioni. Ne consegue che il mancato avviso al difensore dell’inizio di tali operazioni non integra nessuna nullità, qualora il difensore, nominato dalla persona indagata successivamente al conferimento dell’incarico, non abbia comunicato al consulente d’ufficio di volere partecipare alle operazioni peritali anche mediante la nomina di un consulente di parte (Cass. 22 giugno 1996, rie. Capoccia).

Sotto questo profilo, dunque – come esattamente indicato nella sentenza impugnata – le censure difensive non meritano accoglimento, in quanto il pubblico ministero ebbe a conferire l’incarico di consulenza ex art. 360 cod. proc. pen. quando non erano ancora emersi elementi indizianti nei confronti del M. che assumeva la formale veste di indagato il 26.1.2007.

Inoltre, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte "il giudizio abbreviato costituisce un procedimento "prova contratta", alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la re giudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge invece nelle forme ordinarie del "dibattimento". Quindi, "in esso non rilevano ne1 l’inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 cod. proc. pen., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 cod. proc. pen. (in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo), nè le ipotesi di inutilizzabilità "relativa" stabilite dalla legge in via esclusiva "nel dibattimento", quali, ad esempio, quelle previste dall’art. 350 cod. proc. pen., comma 7, per le dichiarazioni spontanee rese alla p.g. dall’indagato, dall’art. 360 cod. proc. pen., comma 5, per l’accertamento tecnico non ripetibile eseguito dal p.m. in difetto delle condizioni indicate e dall’art. 403 cod. proc. pen., comma 1, per l’incidente probatorio cui non abbia partecipato il difensore dell’imputato" (S.U. n. 16, 21/06/2000, Tammaro, rv. 216246).

Nella specie, quindi, non versandosi in ipotesi di prova illegale, cui deriva il divieto assoluto di utilizzabilità, ma, al più, di una inutilizzabilità espressamente limitata al dibattimento, la censura difensiva è manifestamente infondata.

3. Relativamente al motivo di censura, articolato sotto il duplice profilo della violazione dell’art. 606, lett. d) e dell’art. 603 cod. proc. pen., con riferimento alla mancata assunzione di prova decisiva e della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale al fine di disporre nuova perizia psichiatrica, il Collegio osserva quanto segue.

Quanto alla violazione di cui all’art. 606 cod. proc. pen., lett. d), distinta dal vizio di motivazione occorre rilevare che la mancata assunzione della prova costituisce davvero un vizio autonomo solo nel caso in cui si risolva in un’omissione di pronuncia, mentre deve essere ricondotta al vizio di motivazione quando la richiesta istruttoria è stata presa in considerazione dal giudice; sotto altro profilo va segnalato che la verifica della decisività della prova, così come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, assimila l’error in discorso al vizio di motivazione.

Deve essere, inoltre, esclusa la possibilità di ricomprendere nell’art. 606, lett. d), le prove acquisibili d’ufficio, in quanto si tratta di prove rimesse alla discrezionalità del giudice; ed invero, è stato più volte affermato che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso ex art. 606 cod. proc. pen., lett. d), in quanto la perizia è mezzo di prova sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove la citata norma, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, si riferisce alla prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. 4, n. 4981, 05/12/2003, Ligresti, rv. 229665; Cass., Sez. 4, n. 14130, 22/01/2007, Pastorelli, rv. 236191).

Con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. il Collegio evidenzia che, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede d’appello, la norma reca diversità di previsione, a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio. Nel primo caso, il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti; nel secondo, deve rinnovare l’istruzione, osservando i soli limiti del diritto alla prova e dei requisiti della stessa.

Con riguardo alla prima ipotesi, in considerazione del principio di presunzione di completezza dell’istruttoria compiuta in primo grado, la rinnovazione del dibattimento in appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti. Pertanto, in caso di rigetto della richiesta avanzata dalla parte, la motivazione potrà essere implicita e desumibile dalla struttura argomentativa della sentenza d’appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti all’affermazione o alla negazione di responsabilità dell’imputato.

Considerato, quindi, che nel giudizio di appello la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, postulando una deroga alla presunzione di completezza della indagine istruttoria svolta in primo grado, ha caratteristica di istituto eccezionale, nel senso che ad essa può farsi ricorso quando appaia assolutamente indispensabile, cioè nel solo caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, ritiene il Collegio che, da un lato, il giudice di merito ha dimostrato in positivo, con spiegazione immune da vizi logici e giuridici, la sufficiente consistenza e l’assorbente concludenza della perizia psichiatrica già svolta in sede di giudizio abbreviato condizionato (argomentazioni tecniche riferite dai periti fondate su accertamenti accurati ed esaurienti) e, dall’altro, il ricorrente non ha dimostrato l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora si fosse provveduto all’effettuazione, in grado d’appello, di una nuova perizia psichiatrica idonea a svalutare il peso del materiale probatorio raccolto e valutato.

4. Quanto al motivo di doglianza, correlato alla precedente questione, relativo alla erronea applicazione dell’art. 95 cod. pen., deve essere ricordato che l’intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti di cui alla norma citata influisce sulla capacità di intendere e di volere se ed in quanto, per il suo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione, provoca alterazioni psicologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trova di fronte ad una vera e propria malattia.

I "disturbi della personalità", non sempre inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purchè siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, ed a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto casualmente determinato dal disturbo. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonchè agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità" (S.U. 25 gennaio 2005, rv. 230317).

Alla stregua di questi principi correttamente la sentenza impugnata, con analisi esauriente e correttamente argomentata anche alla luce dei rilievi difensivi, ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di vizi attinenti alla capacità di intendere e di volere. Priva di pregio, quindi, deve essere ritenuta anche la asserita confusione che i giudici di merito avrebbero fatto tra accertamento della tossicodipendenza cronica e quello dell’infermità mentale. Anche nella decisione della Corte cost. richiamata dal ricorrente (n. 114 del 1998) si ribadisce che per potersi invocare lo stato di intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti occorre un’alterazione non transitoria dell’equilibrio biochimico del soggetto tale da determinare un vero e proprio stato patologico ed una corrispondente non transitoria alterazione dei processi intellettivi e volitivi.

5. Le doglianze in ordine alla valutazione della prova della sussistenza del reato di rapina si sostanziano in censure di mero fatto.

Se è vero che la sentenza di appello che riforma la decisione assolutoria di primo grado deve confutare specificamente le ragioni poste a sostegno della decisione riformata, nella specie la Corte territoriale ha esposto in maniera compiuta e coerente le circostanze di fatto e gli argomenti logici posti a fondamento della decisione, a fronte di quelli del giudice di primo grado specificamente indicati (pagg. 21-22).

Ad avviso della Corte l’obiettivo del M. era sicuramente quello di commettere la rapina, non essendone individuabile un altro sotto il profilo logico; ciò era dimostrato dalle tracce di sangue in posti dove sapeva o sospettava che la donna tenesse abitualmente il danaro e dal fatto che era stata sottratta la borsa della vittima contenente danaro contante, la carta di identità ed il libretto per la riscossione della pensione, documenti che certamente si trovavano presso la vittima e non rinvenuti nell’abitazione della stessa.

E’ appena il caso di precisare che l’anzidetta ricostruzione e vantazione dei giudici di merito non è compatibile con l’assunto del ricorrente in ordine alla configurabilità della rapina cd. impropria, dovendosi avere riguardo evidentemente non all’azione omicida, bensì, alla condotta violenta o minacciosa al fine di distinguere tra la rapina propria o impropria.

6. Ugualmente deve dirsi quanto al motivo di ricorso relativo alla ritenuta aggravante della premeditazione.

Detta aggravante è contraddistinta da due elementi costitutivi: a) un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso (elemento di natura cronologica); 2) la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica).

La prova della premeditazione deve essere necessariamente tratta da fatti estrinseci e sintomatici, quali la causale, l’anticipata manifestazione del proposito, la predisposizione dei mezzi, la ricerca dell’occasione propizia, la violenza e la reiterazione dei colpi inferti.

Nella sentenza impugnata si argomenta sul punto con motivazione esente dai vizi dedotti dal ricorrente. La Corte di merito, infatti, ha evidenziato che già altre volte la vittima aveva negato il danaro al M. e di recente aveva chiesto alla madre dell’imputato la restituzione di una somma; che il predetto si era recato a casa della vittima munito di guanti di lattice (per non lasciare tracce) e di una striscia di cellophan (utilizzata per tentare di soffocare la donna) che certamente non appartenevano alla vittima; che aveva aggredito la vittima, tanto da provocarle la frattura delle costole, non appena questa aveva aperto la porta, visto che il cadavere si trovava dinanzi all’ingresso; che il M. aveva tentato di precostituirsi un alibi facendosi accompagnare ad Ancona da tale A. dove non era rimasto sino alle 20 – 20,30 come aveva invece sostenuto.

Invero, gli argomenti fattuali dedotti dal ricorrente (che la vittima versasse in condizioni economiche misere, che il coltello utilizzato appartenesse alla vittima, le ragioni alternative per le quali erano stati porti i guanti di lattice e la striscia di cellophan) non sono idonei a contraddire la valutazione della Corte, nè a rendere incoerente o illogico il percorso motivazionale della sentenza impugnata.

7. Manifestamente infondata è la doglianza concernente la sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 61 cod. pen., n. 5.

Se una sola circostanza di fatto non realizza da sola automaticamente tale aggravante, possono concorrere altre condizioni che consentono, attraverso una complessiva valutazione, di ritenere in concreto realizzata una diminuita capacità di difesa sia pubblica che privata, non essendo necessario che tale difesa si presenti impossibile ed essendo sufficiente che essa sia stata soltanto ostacolata.

In tale prospettiva la sentenza impugnata ha correttamente attribuito rilievo, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, all’età, allo stato di solitudine ed alla condizione fisica di claudicante della vittima, circostanze tutte ben note al ricorrente e che hanno sicuramente agevolato la commissione dell’omicidio e contribuito a garantire una temporanea impunità all’omicida, il quale ha avuto la possibilità di agire indisturbato, portando alle estreme conseguenze la sua aggressione senza che alcuno potesse intervenire a interromperla.

8. Esente dai vizi denunciati è, altresì, la motivazione della sentenza impugnata riguardante il diniego delle circostanze attenuanti generiche modulata sulla efferatezza della condotta e sui reiterati precedenti penali dell’imputato.

E’ noto che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62 bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purchè non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688, 24/09/2008, Caridi, rv. 242419). A detti canoni si è attenuta, all’evidenza, la Corte di merito.

9. In conclusione, quindi, il ricorso del M. deve essere rigettato. Al rigetto consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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