T.A.R. Sicilia Palermo Sez. III, Sent., 11-11-2011, n. 2093 Demolizione di costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A) Con ricorso r.g. 187 del 2006, notificato i giorni 7 e 16 gennaio 2006, depositato il giorno 26 seguente, il sig. U.A., in qualità di proprietario, ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il preavviso di rigetto (note prot. n. 39784 del 7 novembre 2005 e la successiva integrativa del giorno 21 seguente) delle quattro domande di condono edilizio aventi ad oggetto:

a) la prima – avanzata ai sensi della legge n. 724/94 -, l’immobile adibito ad attività commerciale (pizzeria ristorante "A.R." esercitata in via Pietro Migliore, 56) edificato abusivamente sul terreno identificato in catasto in parte al foglio 26, p.lla 2649 (ex 1534) ed in parte al foglio 23, su porzione della p.lla 919;

b) le tre successive – presentate ai sensi della l. n. 326/93- gli ampliamenti dell’immobile predetto.

Sono dedotti i motivi di:

"1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, l.n. 241/90, come recepita con la l.r. n. 10/91; eccesso di potere per motivazione illogica ed irrazionale; eccesso di potere per difetto di motivazione";

"2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 32, D.L. 269/03, conv. con l. n. 326/03; violazione e falsa applicazione dell’art. 32, l. n. 47/85; motivazione insufficiente, erronea ed illogica; eccesso di potere per disparità di trattamento; eccesso di potere per ingiustizia manifesta; eccesso di potere per travisamento dei fatti".

Con successivo ricorso per motivi aggiunti, notificato il 28 marzo 2006 e depositato il seguente 6 aprile, il sig. A. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il diniego di concessione edilizia in sanatoria prot. n. 128/A.R. del 19 gennaio 2006, fondato sulle ragioni già esposte nel preavviso impugnato con il gravame introduttivo, e del successivo provvedimento prot. n. 11832 del 34 marzo 2006, di sospensione dell’efficacia del predetto diniego al fine del riesame delle osservazioni da lui presentate in data 5 dicembre 2005, con nota prot. n. 44004 (non versata in atti).

Avverso tali provvedimenti sono reiterate le censure già dedotte con il ricorso introduttivo, ritenute vizianti in via derivata, e, in via autonoma, l’ulteriore doglianza di "Violazione e falsa applicazione degli artt. 10 bis, l. n. 241/90 e 11 bis, l.r. n. 10/91; violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 9 e 10, l. n. 241/90, come recepita con l.r. n. 10/91".

Per resistere al ricorso si è costituito in giudizio il Comune di Carini, senza svolgere difese scritte.

Con successivi motivi aggiunti, notificati i giorni 16 e 18 novembre 2009 e depositati il seguente 15 dicembre, il sig. A. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il diniego di concessione edilizia in sanatoria, prot. n. 32558 del 3 settembre 2009, concernente tutte le opere abusive di che trattasi, motivato con riferimento alla loro presunta insanabilità perché ritenute costituenti un unico organismo edilizio di cubatura superiore a mc 750, adibito ad attività commerciale; osterebbe alla sanatoria, inoltre, la preesistenza di un vincolo fluviale imposto dalla legge, trattandosi di opere non conformi alle norme e agli strumenti urbanistici vigenti.

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi:

"1) Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 11 bis, l.r. n. 10/91; eccesso di potere per grave difetto di istruttoria e per contraddittorietà tra provvedimenti amministrativi; eccesso di potere per difetto di motivazione";

"2)Violazione e falsa applicazione dell’art. 32, co. 27, lett. d), l. n. 326/03; eccesso di potere per difetto dei presupposti";

"3)Violazione e falsa applicazione dell’art. 32, d.l. 269/03, conv. con l. n. 326/03; violazione e falsa applicazione dell’art. 32, l. n. 47/85; motivazione insufficiente, erronea ed illogica; eccesso di potere per disparità di trattamento; eccesso di potere per ingiustizia manifesta; eccesso di potere per travisamento dei fatti".

"4) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20, l.r. n. 4/03";

"5) Violazione e falsa applicazione dell’art. 32, d.l. 269/03, conv. con l. n. 326/03 sotto altro profilo".

Con un terzo e ultimo ricorso per motivi aggiunti, notificato i giorni 22 e 26 gennaio 2010 e depositato il seguente 3 febbraio, il sig. A. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, l’ordinanza n. 197 dell’11 novembre 2009, con la quale il Comune di Carini gli ha ingiunto la demolizione di tutte le opere oggetto delle domande di condono edilizio di che trattasi, sul presupposto dell’intervenuto diniego di concessione edilizia in sanatoria prot. n. 32558 del 3 settembre 2009.

Della predetta ordinanza, parte ricorrente ha dedotto l’illegittimità derivata per i medesimi vizi che affliggerebbero il presupposto diniego di sanatoria, precisandone ulteriormente il contenuto, ed ha, altresì, proposto le seguenti ulteriori censure deducendo gli autonomi vizi di:

"Violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 9, l. n. 10/91";

"Violazione e falsa applicazione dell’art. 31, co. 3, DPR n. 380/01".

In vista dell’udienza camerale di trattazione della domanda cautelare, il Comune resistente con memoria ha controdedotto avverso i motivi articolati ex adverso, sostenendone l’infondatezza; a tal fine ha prodotto la relazione tecnica prot. n. 541/a.r. del 24 febbraio 2010 redatta dall’Ufficio comunale competente sui fatti per i quali è lite, e il certificato di destinazione urbanistica del terreno di che trattasi, rilasciato dallo stesso Comune resistente il 24 febbraio 2010; il ricorrente, con brevi note, ha argomentato ulteriormente a proposito dell’asserita insussistenza del vincolo fluviale connesso al torrente denominato "Scavo Morto" e del superamento del limite di cubatura di 750 mc., producendo a supporto, tra l’altro, una relazione di consulenza tecnica, le quattro istanze di condono edilizio presentate, un estratto del sommario della G.U.R.S. del 6 giugno 2003, parte I, n. 26, ove si riferisce del decreto del Dirigente regionale LL.PP. n. 387 del 7 aprile 2003, avente ad oggetto il "passaggio al patrimonio disponibile di un terreno di pertinenza idraulica del torrente Scavo Morto nel Comune di Carini" e un verbale della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali e panoramiche- Soprintendenza beni culturali e ambientali di Palermo, del 19 marzo 1996, ove il suddetto corso d’acqua viene escluso dal vincolo dell’art. 1, lett. c) della legge 431/1985, nel "tratto compreso tra le p.lle 179 e 130 e seguendo il corso del torrente fino alla p.lla 146 posta in prossimità della strada vicinale Marino del foglio di mappa n. 27 del Comune di Carini".

Con ordinanza n. 177/10 del 26 febbraio 2010 è stata accolta la domanda cautelare di sospensione dell’ingiunzione di demolizione di tutte le opere abusive.

Con memoria depositata il 15 aprile 2011, il Comune resistente ha eccepito l’improcedibilità del ricorso introduttivo e dei primi motivi aggiunti per sopravvenuto difetto d’interesse; nel merito ha ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive, riferendo, in particolare, della sussistenza di un vincolo paesistico relativo al torrente denominato "Gugliotta".

B) Con ricorso r.g. 1163 del 2007, notificato il 26 maggio 2007, depositato il giorno 28 seguente, il sig. U.A., in qualità di titolare dell’attività di ristorazione denominata "A.R.", esercitata in via Pietro Migliore, 56, ha impugnato, chiedendone l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, oltre il risarcimento dei danni asseritamente subiti, le due ordinanze in epigrafe, con le quali il Comune di Carini ha disposto:

a) la cessazione dell’esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e bevande presso la detta pizzeria, poiché sarebbero venuti meno la validità del certificato di collaudo redatto dal tecnico abilitato ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. 447/98, a causa dell’accertamento della non conformità della planimetria allegata al predetto atto di collaudo allo stato dei luoghi e, quindi, i "requisiti di sorvegliabilità" di cui al D.M. 564/92 e s.m.i., diffidando il ricorrente ad ottemperare il predetto ordine e avvertendolo che nell’ipotesi di eventuale inottemperanza si sarebbe proceduto coattivamente ai sensi dell’art. 5 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (ordinanza n. 4 del 20 aprile 2007, emessa dal responsabile dello Sportello unico per le attività produttive);

b) la chiusura del medesimo esercizio pubblico a causa della ritenuta abusività dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande a seguito dell’intervenuta decadenza del collaudo così come dichiarata con l’ordinanza n. 4 del 20 aprile 2007, diffidando il ricorrente ad ottemperare il predetto ordine di chiusura e avvertendolo che nell’ipotesi di eventuale inottemperanza si sarebbe proceduto coattivamente ai sensi dell’art. 5 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (ordinanza n. 3 del 23 aprile 2007, adottata dal capo ripartizione XI).

Sono impugnati, altresì, gli atti presupposti, indicati in epigrafe, tra cui anche l’eventuale provvedimento di revoca dell’autorizzazione all’apertura dell’esercizio di somministrazione di alimenti e bevande di cui il Comune di Carini non avrebbe dato alcuna comunicazione.

Il ricorrente riferisce, inoltre, nella narrazione dei fatti per i quali è causa, di avere chiesto al Comune resistente il rilascio di una nuova autorizzazione amministrativa per l’esercizio dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, debitamente documentata, e previa rimozione della causa che avrebbe determinato il venir meno dei requisiti di sorvegliabilità, ossia l’installazione di una tettoia in assenza di titolo autorizzatorio.

Sono dedotti i motivi di:

"1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 17/ter del R.D. n. 773/31; eccesso di potere per difetto dei presupposti; eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica; violazione e falsa applicazione dell’art. 3, l.n. 241/90, come recepita con la legge regionale; eccesso di potere sotto il profilo della illogicità della motivazione". L’ordine di cessazione dell’esercizio pubblico di alimenti e bevande presupporrebbe la previa revoca dell’autorizzazione di cui all’art. 3 della l.n. 287/1991, che, invece, non sarebbe stata mai disposta nei confronti del ricorrente – o comunque notificatagli – riguardo alla attività commerciale per la quale è lite;

"2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 17/ter del R.D. n. 773/31 sotto altro profilo; violazione e falsa applicazione dell’art. 9, c. 3, D.P.R. n. 447/98", poiché il "venir meno" del collaudo non costituirebbe un presupposto legittimante l’ordine di cessazione dell’attività commerciale; in ogni caso, non sarebbe configurabile un automatico "venir meno" o decadenza del collaudo per l’accertata difformità tra le risultanze di questo e lo stato dei luoghi, dato che sarebbe stata necessaria l’emanazione di un provvedimento ad hoc, mai adottato o, comunque, mai portato a conoscenza del ricorrente;

"3) Ulteriore violazione e falsa applicazione dell’art. 17/ter, commi 1 e 2, R.D. n. 773/31; violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e ss., l. n. 241/90, come recepita in Sicilia"; lamenta il ricorrente di non essere stato posto nelle condizioni di partecipare al procedimento amministrativo, poiché non gli sarebbe stato notificato alcun verbale o rapporto di accertamento di violazione amministrativa come previsto dall’art. 17/ter, commi 1 e 2, R.D. n. 773/31, o altra comunicazione di avvio del procedimento poi culminato con l’ordine di chiusura dell’esercizio commerciale.

"4) Violazione e falsa applicazione dell’ art. 3, l. n. 241/90, come recepita in Sicilia; eccesso di potere per motivazione insufficiente; violazione e falsa applicazione del D.M. 17 dicembre 1992, n. 564", poiché il "venir meno dei requisiti di sorvegliabilità" che costituirebbe il presupposto dell’ordine di cessazione dell’attività commerciale, non sarebbe indicazione motivazionale sufficientemente dettagliata a dare contezza dell’asserita mancanza dei predetti requisiti, non distinguendosi se trattasi di carenza di sorvegliabilità esterna o interna, così come previsto, in modo distinto, nel D.M. 17 dicembre 1992, n. 564;

"5) Violazione e falsa applicazione dell’art. 5, R.D. n. 773/31; violazione e falsa applicazione dell’art. 14 delle disp. prel. al c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 21/ter, l. n. 241/90"; si contesta la previsione contenuta nelle impugnate ordinanze n. 3 e 4 del2007 di estensione analogica dell’art. 5 del R.D. n. 773/31, al fine di sanzionare l’eventuale inottemperanza all’ordine di cessazione dell’esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e bevande perché a ciò osterebbe la natura eccezionale di tale norma e il principio di tassatività dei provvedimenti amministrativi esecutori espresso dall’art. 21ter della legge n. 241 del 1990 e s.m.i.;

"6) Violazione e falsa applicazione dell’art. 9, D.P.R. n. 447/98; eccesso di potere per difetto dei presupposti", al fine di censurare, in via derivata, l’ordinanza n. 3 del 23 aprile 2007 per i medesimi vizi che affiggerebbero la presupposta n. 4 del 20 aprile 2007, con particolare riferimento all’assunto secondo cui la decadenza del collaudo richiesto dall’art. 9, D.P.R. n. 447/98, non costituirebbe un presupposto legittimante dell’ordine di cessazione dell’attività commerciale.

Con decreto monocratico n. 1231 del 29 maggio 2007, è stata accolta l’istanza di sospensione provvisoria dei provvedimenti impugnati limitatamente alla parte dell’immobile conforme alla planimetria allegata al certificato di collaudo redatto ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. n. 447/98.

Per resistere al gravame si è costituito con memoria il Comune di Carini, deducendone l’infondatezza e chiedendone conseguentemente la reiezione.

Con ordinanza n. 1305 del 15 giugno 2007, è stato confermato il decreto cautelare n. 1231/2007.

Con memorie depositate il 21 gennaio e il 15 aprile 2011, il Comune resistente ha ulteriormente argomentato a sostegno delle proprie tesi difensive, evidenziando, tra l’altro, la priorità della definizione in sede giurisdizionale della fattispecie oggetto del ricorso r.g. 187/2006 al fine della conclusione del procedimento amministrativo di rilascio di una nuova autorizzazione all’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande ancora in itinere, incidente sulla controversia di cui la ricorso r.g. n. 1163/2007.

C) All’udienza pubblica del 17 maggio 2007, entrambi i ricorsi, chiamati congiuntamente, sono stati posti in decisione: con ordinanza istruttoria n. 1019/11 del 31 maggio 2011, il Collegio ne ha disposto la riunione, avendone ritenuto sussistente la connessione soggettiva e oggettiva; è stata ordinata, inoltre, l’esibizione di documenti a carico del Comune resistente, che vi ha dato esecuzione parziale, depositando soltanto alcuni dei documenti specificamente richiesti ossia:

1) la nota prot. n. 6791 del 19 aprile 2004, con la quale il ricorrente ha chiesto e ottenuto dalla Soprintendenza competente il numero di protocollo della pratica a lui intestata (il cui oggetto, però non è indicato e, pertanto, rimane sconosciuto);

b) lo stralcio delle N.T.A. del vigente P.R.G. (artt.16 e 19) dalle quali si desumono i parametri e limiti urbanistici di edificabilità nella zona C1, ove è sito l’immobile abusivo, che risulta vincolata a zona di edilizia economica popolare e l’edificazione è comunque consentita "solo attraverso piani di lottizzazione";

c) la determinazione n. 73 del 12 aprile 2011 del Sindaco di Carini di autorizzazione alla resistenza al ricorso r.g. n. 187/2006, ai sensi dell’art. 34, lett. T) dello Statuto comunale.

Non sono stati invece esibiti dal Comune onerato:

a) la richiesta di parere alla Sovrintendenza competente, che sarebbe stata inoltrata dal Comune di Carini in data 11 aprile 1996, prot. n. 11861 (espressamente richiamata nella memoria del Comune resistente depositata il 15 aprile 2011);

b) tutta l’"idonea documentazione" – così si legge nella relazione tecnica prot. n. 451 del 24 febbraio 2010 dell’ufficio comunale competente, in allegato alla memoria depositata il 25 febbraio 2010 dal Comune di Carini – dalla quale risulterebbe la sussistenza e l’attuale vigenza del vincolo fluviale afferente il torrente denominato "Gugliotta";

Con memoria depositata il 16 settembre 2011, parte ricorrente ha svolto difese con riguardo al contenuto della documentazione esibita dal Comune resistente in esecuzione dell’ordinanza collegiale istruttoria n. 1019/11.

D) All’udienza pubblica del 7 ottobre 2011, il Comune resistente è stato eccezionalmente autorizzato dal Collegio, previo consenso di parte ricorrente, al deposito tardivo di documenti a valere per il ricorso r.g. 187/06, dopodiché, su conforme richiesta delle parti, entrambi i ricorsi sono stati posti in decisione.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente, quanto al ricorso r.g. 187/2006, vanno rilevate l’inammissibilità del ricorso introduttivo, perché rivolto contro un atto endoprocedimentale privo di autonoma lesività qual è il preavviso di rigetto, e l’improcedibilità dei primi motivi aggiunti avverso il diniego di condono prot. n. 128/A.R. del 19 gennaio 2006 – già sospeso dal Comune con provvedimento prot. n. 11832 del 34 marzo 2006 -, che è stato oggetto del riesame dal quale è scaturita l’emissione del nuovo e sostitutivo provvedimento negativo prot. n. 32558 del 3 settembre 2009, ritualmente impugnato con il secondo ricorso per motivi aggiunti, sul quale si è concentrato l’interesse ad agire del ricorrente.

2. Nel merito: oggetto del ricorso n. 187/2006 sono le opere abusivamente realizzate dal ricorrente sul terreno di sua proprietà identificato al catasto in parte al foglio 26, p.lla 2649 (ex 1534) ed in parte al foglio 23, su porzione della p.lla 919.

Per tali opere, che sarebbero state realizzate progressivamente nel tempo – prima l’edificio principale, adibito ad attività commerciale (pizzeria – ristorante), entro il 31 dicembre 1993 e, poi, i successivi ampliamenti, entro il 31 marzo 2003 – sono state presentate quattro domande di condono edilizio (versate in giudizio, prive di allegati, dal ricorrente, solo in data 25 febbraio 2010):

1) domanda di condono ai sensi dell’art. 39 della l. n. 724 del 1994, prot. n. 7237 del 28 febbraio 1995, per l’edificio ad un’elevazione fuori terra adibito a pizzeria, di superficie pari a mq 120 (nel diniego del 19 gennaio 2006, si attribuisce, invece, all’edificio una superficie coperta di "mq 170.09" e un volume edilizio di "mc 537.78");

2) domanda di condono ai sensi della l. 326 del 2003, prot. n. 37134 del 23 ottobre 2003, per l’ampliamento dell’edificio destinato all’attività commerciale di pizzeria – ristorante, di superficie pari a mq 20;

3) domanda di condono ai sensi della l. 326 del 2003, prot. n. 42844 del 26 novembre 2003, per l’ampliamento dell’edificio destinato all’attività commerciale di pizzeria – ristorante, di superficie pari a mq 236,77 e un volume pari a mc 735,00 circa (così nella relazione di consulenza tecnica di parte ricorrente del 18 febbraio 2010, in atti);

4) domanda di condono ai sensi della l. 326 del 2003, prot. n. 43013 del 10 dicembre 2004, per l’ampliamento dell’edificio destinato all’attività commerciale di pizzeria – ristorante, di superficie pari a mq 157,23;

Dalla visura di tali domande si evince, inequivocabilmente, che sono state tutte presentate per opere abusive dichiarate dallo stesso ricorrente rientranti nella "tipologia 1", ossia per opere realizzate in assenza di titolo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, ai sensi della tabella allegata alla legge n. 47 del 1985. Nella relazione tecnica di parte ricorrente del 18 febbraio 2010, è indicata soltanto la volumetria dell’ampliamento di cui alla terza istanza di condono, per gli altri ampliamenti nulla è detto.

Dalla relazione tecnica di parte ricorrente, depositata sempre il 25 febbraio 2010, sembra potersi evincere che oggetto delle prime due domande di condono presentate ai sensi della legge n. 326/2003, sarebbero opere, asseritamente precarie, in ferro e pannelli coibentai, smontabili, per complessivi mc 735,00 circa, mentre la terza concernerebbe una veranda con superficie di mq. 157, anch’essa struttura definita precaria e smontabile.

3. Ciò posto, si rileva che tre sono le ragioni sulle quali si fonda la presunta insanabilità delle opere oggetto del diniego di condono e del conseguenziale ordine di demolizione, di cui il ricorrente contesta, con varie argomentazioni, la legittimità:

a) la prima attiene alla valutazione effettuata dal Comune di "unico organismo edilizio" di tutte le opere abusive oggetto delle distinte domande di condono, cui conseguirebbe il superamento del limite volumetrico di mc 750 posto per le nuove costruzioni dall’art. 39 della legge 724 del 1994 e dal quale discenderebbe il rigetto di tutte le domande di condono presentate;

b)la seconda, riguarda il superamento del limite pari al 30% della volumetria originaria espressa nell’edificio per primo realizzato nonché di quello dei mc 750 di cubatura massima consentita, riferito al complesso degli ampliamenti successivi oggetto delle domande di condono presentate ai sensi dell’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, convertito in legge n. 326 del 2003;

c) la terza ha ad oggetto la sussistenza del vincolo paesaggistico imposto con la legge n. 431 del 1985, con riguardo al torrente "Scavo Morto" – come sostiene il ricorrente – ovvero al torrente "Gugliotta" – come invece afferma il Comune -, che osterebbe al condono richiesto ai sensi del decreto legge n. 269 del 2003, secondo quanto previsto dall’ art. 32, comma 27, lett. D), dello stesso decreto.

Va, dunque, richiamata la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio anche con riguardo alla fattispecie di che trattasi, secondo la quale nel caso in cui il provvedimento impugnato sia fondato su una pluralità di autonomi motivi (c.d. provvedimento plurimotivato), il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all’esame delle ulteriori doglianze proposte avverso le altre ragioni giustificatrici del medesimo provvedimento atteso che, seppure tali ulteriori censure si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe, comunque, idoneo a soddisfare l’interesse del ricorrente ad ottenere l’annullamento del provvedimento impugnato, che resterebbe supportato dall’autonomo motivo riconosciuto sussistente (tra le più recenti, v. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 25 maggio 2011, n. 1313; T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 26 maggio 2011, n. 810; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 13 maggio 2011, n. 921; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 2 maggio 2011, n. 1079; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 8 aprile 2011, n. 2009; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. II, 31 marzo 2011, n. 619; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 24 febbraio 2011, n. 1137; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 17 gennaio 2011, n. 63; T.A.R. Basilicata, Potenza, Sez. I, 28 giugno 2010, n. 456).

4. Può ora passarsi all’esame dei singoli motivi di censura, tenendo conto che la questione che si ritiene dirimente ai fini della decisone è la prima indicata e che è oggetto del quinto motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti, che va, dunque, esaminato prioritariamente.

4.1. Deducendo la "violazione e falsa applicazione dell’art. 32, d.l. 269/03, conv. con l. n. 326/03 sotto altro profilo", il ricorrente sostiene che la prima istanza di condono presentata ai sensi dell’art. 39 della l. n. 724 del 1994, del 28 febbraio 1995, prot. n. 7237, per l’edificio ad un’elevazione fuori terra adibito a pizzeria, avrebbe dovuto essere valutata autonomamente e non unitamente alle tre successive domande presentate ai sensi dell’art. 32 della l. 326 del 2003 del 23 ottobre 2003 che avrebbero ad oggetto i successivi ampliamenti del primo manufatto.

Avrebbe dunque errato il Comune nel sommare la cubatura e la volumetria espresse nell’edificio originario, da un lato, e nei successivi ampliamenti, dall’altro.

Sembra sostenere il ricorrente che, in ogni caso, anche le tre domande relative agli ampliamenti avrebbero dovuto essere esaminate disgiuntamente perché relative ad abusi distinti che insisterebbero peraltro su p.lle catastali diverse.

Secondo tale prospettazione, quindi, non sarebbe stato superato il limite dei mc 750, né con riguardo al manufatto originario, né, con riguardo ai tre ampliamenti di cui alle richieste di condono ai sensi della l. 326 del 2003.

A tal proposito, il Comune controdeduce che sarebbe stato lo stesso ricorrente a qualificare come "ampliamenti", del manufatto abusivo per primo edificato, le opere successivamente intraprese sempre in assenza di titolo edilizio, destinate tutte allo svolgimento dell’attività commerciale ivi esercitata e che ciò non potrebbe che portare alla definizione di tutte le opere edificate, seppur a più riprese, quale "organismo unico" che, nel suo complesso, supera la massima volumetria assentibile di 750 mc., restando irrilevante il fatto dell’insistenza di tali opere su diverse particelle catastali.

Si ritiene di condividere l’assunto di parte resistente a proposito dell’unicità del corpo edilizio realizzato, per le ragioni che seguono.

Non può, in primo luogo, dubitarsi che successivamente alla presentazione di una domanda di condono – nel caso di specie quella ai sensi dell’art. 39 della l. n. 724 del 1994, prot. n. 7237 del 28 febbraio 1995 -, e prima che quest’ultima sia decisa con il provvedimento finale, il proprietario non può eseguire alcun lavoro di completamento o ampliamento dell’ immobile abusivo (nel caso di specie trattasi di ampliamenti dello stesso manufatto al quale ineriscono funzionalmente e con carattere di stabilità nel tempo come si evince direttamente dalle domande di condono presentate dal ricorrente ai sensi della legge n. 326 del 2003, nonché dalla stessa relazione di consulenza tecnica allegata alle note difensive di parte ricorrente, tutte depositate agli atti di causa il 25 febbraio 2010) valendo il principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, a prescindere dal regime edilizio a tali opere applicabile. Né, in senso contrario, il soggetto realizzatore dell’abuso edilizio continuato può invocare a proprio favore il tempo trascorso dalla presentazione della prima istanza di condono, non valendo tale fattore a legittimarlo alla continuazione dell’attività di edificazione abusiva che ha inteso perpetuare. Dagli atti di causa, invero, si desume che le opere edilizie intraprese dall’odierno ricorrente fanno parte di un disegno unitario, volto alla realizzazione di una struttura da destinare a uso commerciale e coinvolgente l’intera volumetria sviluppata.

Egli, pertanto, ha assunto su di sé il rischio che al momento dell’accertamento della sussistenza dei presupposti della sanabilità, il Comune procedente dovesse tenere conto della situazione in atto sussistente e corrispondente a quella frutto della ultimazione della condotta di edificazione abusiva, restando a carico del loro autore le sopravvenienze di fatto e di diritto rispetto al momento di inizio dell’abuso perpetrato.

A fronte di un unico manufatto abusivo, la cui costruzione è iniziata nel 1992 e si è conclusa nel 2003, il ricorrente non può giovarsi separatamente delle due normative condonistiche intervenute in tale intervallo temporale avendo proceduto alla frammentazione delle connesse istanze di condono, poiché ciò consentirebbe l’elusione dei limiti assoluti e inderogabili posti dalle relative norme.

Il disposto del comma 25 dell’art. 32 D.L. 269/2003, di cui il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione, infatti, prevede che "le disposizioni di cui capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi. Le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo in sanatoria, a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri cubi".

Il tenore letterale della norma risulta, quindi, chiaro nel prevedere l’applicazione del condono, da un lato, agli ampliamenti di costruzioni esistenti, senza che sia specificato se residenziali o meno, e dall’altro, alle nuove costruzioni solo residenziali; a ciò si aggiunga che, come ribadito più volte anche dalla Corte Costituzionale, le disposizioni sui condoni quali normative di carattere eccezionale non sono suscettibili di interpretazioni estese a fattispecie non espressamente previste, dovendo essere interpretate sempre in senso restrittivo.

Nel caso di specie non può essere applicata la disposizione dell’art. 32 della legge n. 326 del 2003, di conversione del D.L. 269/2003, relativa agli ampliamenti poiché ciò presupporrebbe che questi riguardino un corpo originario "non abusivo" o, comunque, già sanato al tempo della loro realizzazione, né la successiva che concerne le costruzioni nuove destinate a uso residenziale, trattandosi di immobile destinato a uso non residenziale.

Quanto all’applicabilità dell’art. 39 della legge n.724 del 1994, in forza della quale è stata presentata la prima domanda di condono, che testualmente recita: "Le disposizioni di cui ai capi 4° e 5° della L.47/85 e successive modificazioni ed integrazioni…si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale, un ampliamento superiore a 750 mc. Le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni non superiori ai 750 metri cubi per singola richiesta di concessione in sanatoria" si osserva quanto segue.

La Corte Costituzionale, chiamata a interpretare la disposizione in esame, nella sentenza n.302 del 1823 luglio 1996 ha chiarito che "la previsione massima di cubatura di 750 mc. è un limite assoluto ed inderogabile, che si aggiunge solo come norma di chiusura al limite di ampliamento che deve essere contenuto nel trenta per cento della volumetria originaria".

Detto limite, secondo la Corte, trova un temperamento riguardo alle nuove costruzioni – sul presupposto che per i nuovi edifici non è possibile un raffronto con una costruzione originaria – che consiste nella possibilità "derogatoria e, come tale, di stretta interpretazione, di calcolare la volumetria per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria così presupponendo ipotesi di legittima scissione della domanda di sanatoria per effetto della suddivisione della costruzione o della limitazione quantitativa del titolo che abilita alla presentazione della domanda di sanatoria…".

Dunque, il superamento del limite volumetrico è ammissibile, secondo la Corte, solo a condizione che sia ipotizzabile e verificabile nel singolo caso una "legittima scissione della domanda di sanatoria", così escludendosi ogni surrettizia (e, dunque, illegittima) moltiplicazione di istanze.

Tale deroga, tuttavia, nel caso in esame non pare riconoscibile, attesa l’unitarietà del manufatto, la sua destinazione unica a fini commerciali nonché la stabilità e la durata nel tempo di tale destinazione funzionale delle opere nel loro complesso, la cui volumetria complessiva risulta dagli atti di causa, comunque, superiore a 750 mc..

Il motivo, pertanto, è infondato.

4.2.Ne deriva che la sussistenza di tale motivazione, autonomamente sufficiente a giustificare il provvedimento impugnato di diniego di condono edilizio, consente di considerare assorbite tutte le ulteriori censure dedotte, all’esame delle quali, stante il rigetto delle censura testé esaminata, il ricorrente non vanta alcun interesse.

5. Analoghe considerazioni valgono per le identiche censure articolate con il terzo ricorso per motivi aggiunti, e proposte in via derivata avverso la conseguenziale ordinanza n. 197 dell’11 novembre 2009, con la quale è stata ingiunta la demolizione e la messa in pristino stato dei luoghi entro il termine perentorio di novanta giorni, e la cui omessa esecuzione è sanzionata con l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive.

Resta, tuttavia, da scrutinare la fondatezza di tale gravame aggiunto limitatamente alle censure dedotte quali vizi propri dell’atto di che trattasi.

5.1. E’ infondato il quinto motivo con il quale si denuncia la "Violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 9, l. n. 10/91" a causa dell’omissione dell’avviso di avvio del procedimento, poiché non occorre alcuna comunicazione d’avvio per l’ ingiunzione di demolizione che ha natura di provvedimento vincolato sicché, in ordine ad esso, nessun utile apporto da parte degli interessati appare predicabile e, pertanto, tale omissione non ridonda in una causa di illegittimità del provvedimento (principio pacifico, v. tra le più recenti, Cons. Stato, sez. IV, 10 agosto 2011, n. 4764; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 27 maggio 2011, n. 781; T.A.R. Lazio, Roma, sezione I quater, 7 ottobre 2011, n. 7822; 10 dicembre 2010, n. 36046).

Altrettanto infondato è il sesto motivo seguente, con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 31, comma 3 del d.p.r. n.380 del 2001, per avere il Comune resistente disposto genericamente l’acquisizione dell’intero lotto di proprietà del ricorrente: invero, costituisce pacifico principio giurisprudenziale, che il Collegio condivide riguardo alla fattispecie in esame, quello secondo cui, sia l’ordinanza di ingiunzione alla demolizione, sia quella di acquisizione al patrimonio comunale, possono essere adottate senza la specifica indicazione delle aree oggetto di acquisizione, giacché a tale individuazione può procedersi, sulla base dell’art. 7 della legge n. 47/1985 (oggi, art. 31 del D.P.R. n. 380/2001), con successivo e separato atto (cfr. Cons. Stato, VI, 8 aprile 2004, n. 1998; T.A.R. Calabria, Catanzaro, II, 8 marzo 2007, n. 161; T.A.R. Sardegna, II, 27 settembre 2006, n. 2013; T.A.R. Puglia, Lecce, III, 7 febbraio 2006, n. 784; T.A.R. Lazio, Roma, II, 12 aprile 2002, n. 3160).

6. Per quanto sopra, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso introduttivo e l’improcedibilità dei primi motivi aggiunti mentre vanno respinti il secondo e il terzo ricorso per motivi aggiunti.

7. Restano salve, comunque, le eventuali decisioni che il Comune resistente potrebbe ritenere di adottare al fine della condonabilità parziale – come peraltro evidenziato nelle memorie difensive -nell’ipotesi in cui il ricorrente riconduca entro i limiti della normativa condonistica invocata le opere abusivamente realizzate.

8. Va ora scrutinato il ricorso r.g. n. 1163 del 2007.

8.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce che l’ordine di cessazione dell’esercizio pubblico di alimenti e bevande, contenuto nell’ordinanza n. 4/2007, presupporrebbe la previa revoca dell’autorizzazione di cui all’art. 3 della l. n. 287 del 1991, che, invece, non sarebbe stata mai disposta nei suoi confronti – o comunque notificatagli – riguardo alla attività commerciale per la quale è lite: da ciò deriverebbe l’illegittimità dell’ordine di cessazione impugnato.

Il motivo è infondato, alla stregua di quanto appresso.

L’art. 3, comma 1 della legge 25 agosto 1991, n. 287, citato, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, assoggetta ad autorizzazione del Comune l’apertura degli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande.

L’art. 4 seguente, per quel che qui rileva, prevede che l’autorizzazione di cui all’articolo 3, "è revocata… qualora venga meno la rispondenza dello stato dei locali ai criteri stabiliti dal Ministro dell’interno ai sensi dell’articolo 3, comma 1" (comma 1, lett. c).

Sulla questione, si evidenzia che la giurisprudenza, condivisa dal Collegio con riguardo al caso particolare, sul punto, ha avuto più volte modo di rilevare come, in tema di esercizi pubblici, il legislatore, con il richiamato articolo 4, abbia impropriamente definito " revoca " un provvedimento, ad adozione e contenuto vincolato, che presenta, piuttosto, i marcati connotati di una decadenza di tipo sanzionatorio: il detto atto non ha, peraltro, valore costitutivo ma solo dichiarativo, tanto che l’effetto di estinzione si formalizza con la mera sequenza dei presupposti di legge a prescindere dalla ricognizione del Comune. L’interesse tutelato dalla norma è quello a una celere utilizzazione degli assensi rilasciati, funzionale all’ordinario svolgimento del commercio e al fine di scongiurare il rischio di deprecabili fenomeni di indebita locupletazione sui titoli suddetti (in termini, v. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 19 aprile 2011, n. 3416).

Ciò significa che l’ordine di cessazione dell’attività di somministrazione impartito dal Comune resistente non necessitava del previo avvio e conclusione di un procedimento di revoca dell’autorizzazione di cui all’art. 3, comma 1 della legge 287del 1991 all’epoca vigente, poiché l’accertato venir meno dei requisiti di sorvegliabilità di cui al D.M. 564 del 1992, aveva già determinato la decadenza dell’autorizzazione medesima. Ne consegue, sotto tale profilo, la legittimità dell’ordinanza n. 4 del 20 aprile 2007.

8.2. Con il secondo motivo si sostiene che:

1) il "venir meno" del collaudo redatto ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, non costituirebbe un presupposto legittimante dell’ordine di cessazione dell’attività commerciale che, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 287/1991, potrebbe essere disposta nella diversa ipotesi di esercizio della somministrazione "in assenza dell’autorizzazione all’apertura" dell’ esercizio;

2) in ogni caso, non sarebbe configurabile un automatico "venir meno" o decadenza del collaudo per l’accertata difformità tra le risultanze di questo e lo stato dei luoghi, dato che sarebbe stata necessaria l’emanazione di un provvedimento ad hoc, mai adottato o, comunque, mai portato a conoscenza del ricorrente;

L’assunto non merita di essere condiviso.

In fatto, ex actis, risulta che l’atto di collaudo con i relativi allegati (trasmesso al Comune di carini con nota prot. n. 17272 del 25 maggio 2004), relativo alla domanda di autorizzazione unica prot. n. 7130 del 5 marzo 2004, è stato redatto a cura esclusiva del professionista privato incaricato dal ricorrente.

L’art. 9 del D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, "Regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l’ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l’esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, a norma dell’articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59", disciplina le "Modalità di esecuzione" e rilascio del certificato di collaudo che "riguarda tutti gli adempimenti previsti dalla legge e, in particolare le strutture edilizie, gli impianti produttivi, le misure e gli apparati volti a salvaguardare la sanità, la sicurezza e la tutela ambientale, nonché la loro conformità alle norme sulla tutela del lavoratori nei luoghi di lavoro ed alle prescrizioni indicate in sede di autorizzazione" (comma 3);

"Al collaudo partecipano i tecnici della struttura di cui all’articolo 3, comma 1, la quale a tal fine può avvalersi del personale dipendente da altre amministrazioni e fatto salvo il rispetto del termine finale del procedimento. L’impresa chiede alla struttura di fissare la data del collaudo in un giorno compreso tra il ventesimo e il sessantesimo successivo a quello della richiesta. Decorso inutilmente tale termine, il collaudo può avere luogo a cura dell’impresa, che ne comunica le risultanze alla competente struttura. In caso di esito positivo del collaudo l’impresa può iniziare l’attività produttiva" (comma 2);

"Il certificato, di cui al comma 3, è rilasciato sotto la piena responsabilità del collaudatore. Nel caso in cui la certificazione risulti non conforme all’opera ovvero a quanto disposto dalle vigenti norme, fatti salvi i casi di mero errore od omissione materiale, la struttura assume i provvedimenti necessari, ivi compresa la riduzione in pristino, a spese dell’impresa, e trasmette gli atti alla competente procura della Repubblica, dandone contestuale comunicazione all’interessato" (comma 4);

"Il collaudo effettuato ai sensi del comma 2, non esonera le amministrazioni competenti dalle proprie funzioni di vigilanza e di controllo in materia, e dalle connesse responsabilità previste dalla legge, da esercitare successivamente al deposito del certificato di collaudo degli impianti" (comma 7).

La ratio di semplificazione che permea la disciplina regolamentare citata, così come tutte le altre leggi intervenute nei vari settori dell’economia volte a sgravare le imprese da eccessi di procedimentalizzazione burocratica con l’obbiettivo di dare respiro e accelerazione ai processi di sviluppo commerciale e industriale, utilizza lo strumento del trasferimento di adempimenti dall’apparato amministrativo a quello privato dello stesso imprenditore, accordandogli fiducia nella correttezza del suo operato in prima battuta, ma gravandolo inevitabilmente della connessa responsabilità nell’ipotesi in cui tale adempimento sia omesso o sia stato infedelmente adempiuto, quando ciò sia rilevato nella fase, imprescindibile, del controllo successivo da parte della P.A.

Se l’omissione o la non conformità a legge dell’adempimento non venissero adeguatamente sanzionati, l’intero impianto della semplificazione amministrativa verrebbe privato della sua stessa funzione, mai abdicata, di "regolamentazione" del settore in conformità all’ordinamento giuridico.

Tornado al caso di specie, è evidente che la non conformità tra il collaudo e lo stato dei luoghi, ha determinato "il venir meno" o la "decadenza " dello stesso non nel senso, voluto dal ricorrente, di suo annullamento o revoca, che come tale, sempre ad avviso del ricorrente, avrebbe dovuto essere disposto dalla pubblica amministrazione "controllante", bensì ha prodotto, de plano, l’effetto della sua non utilità ai fini del conseguimento del provvedimento finale favorevole cui aspira il ricorrente, ossia l’autorizzazione amministrativa.

Ciò significa che il Comune non poteva e non doveva adottare alcun atto di sospensione o annullamento del collaudo tecnico quale atto proveniente dal privato, ma, così come avvenuto, rilevatane la non conformità a quanto disposto dalle vigenti norme, assumere i provvedimenti conseguenti e necessari, di contenuto negativo per il ricorrente.

Ora, poiché la non conformità acclarata è così descritta nella motivazione dell’ordinanza n. 4 del 20 aprile 2007: "l’immobile di via P. Migliore n. 56 non risulta essere conforme alla planimetria allegata al provvedimento di collaudo, ai sensi del D.P.R. 447/98 e s.m.i., in quanto ampliato abusivamente e pertanto è stato rilevato che sono venuti meno i criteri di sorvegliabilità di cui al D.M. 564/92 e s.m.i…", tenuto conto che tale peculiare "non conformità" dello stato dei locali ai criteri stabiliti dal al D.M. 564/92 e s.m.i, è causa ai sensi e per gli effetti dell’art. 4, comma 1, lett. c) della l. n. 287/1991, della decadenza automatica dell’autorizzazione di cui al precedente art. 3, nei termini già resi manifesti al superiore punto 7.1., è evidente che il dovuto e vincolato "provvedimento necessario" non poteva che essere l’ordine di cessazione dell’esercizio pubblico di somministrazione alimenti e bevande nel locale sito in via P. Migliore n. 56, in quanto attività condotta con difetto di autorizzazione, così come imposto dal comma 3, dell’art. 17/ter del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, cui espressamente rinvia l’art. 10 della legge n. 287 del 1991, a proposito delle sanzioni applicabili alle tipologie di condotte tra cui quella di che trattasi.

Di qui l’infondatezza del mezzo.

8.3. Con la terza censura lamenta il ricorrente di non essere stato posto nelle condizioni di partecipare al procedimento amministrativo, poiché non gli sarebbe stato notificato alcun verbale o rapporto di accertamento di violazione amministrativa come previsto dall’art. 17/ter, commi 1 e 2 del R.D. n. 773/31, o altra comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, poi culminato con l’ordine di cessazione dell’esercizio di somministrazione di alimenti e bevande e la chiusura dell’esercizio commerciale.

La censura appare infondata, in fatto, come in diritto.

Sotto l’aspetto fattuale, infatti, si rileva che al sig. A. è stata immediatamente contestata la violazione dell’art. 3, comma 1 e 10 commi 1 e 3 della legge n. 287/1991 per l’esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e bevande "senza la prescritta autorizzazione in quanto revocata", con verbale n. 13/07 reg. 2007 del 31 marzo 2007, ore 19,30, redatto dalla Polizia Municipale di Carini, dallo stesso ricorrente sottoscritto quale trasgressore (in copia allegata alla memoria depositata il 12 giugno 2007 da parte resistente). Il ricorrente, invece, si è limitato a riferire del verbale n. 11/07 reg.2007 (pag. 3 del ricorso), che risulta essere stato redatto contestualmente al precedente menzionato, dai medesimi ufficiali della Polizia Municipale, e con il quale gli è stata immediatamente contestata la violazione dell’art. 2 della legge n. 283/62 per esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande in assenza della prescritta "autorizzazione sanitaria in quanto revocata". La contestualità della redazione dei due verbali nn. 11/07 e 13/07, entrambi del 31 marzo 2007, ore 19,30, a seguito della medesima visita ispettiva eseguita dagli stessi funzionari della Polizia municipale, recanti entrambi la sottoscrizione del trasgressore identificato nella persona dell’odierno ricorrente, fanno presumere che dell’avvio di entrambi i due procedimenti sanzionatori questi abbia avuto immediata e piena conoscenza;

– lo stesso ricorrente, comunque, ha riferito di avere tempestivamente provveduto a rimuovere una "piccola tettoia" che gli era sembrata la causa della carenza della c.d. sorvegliabilità esterna, e di essersi attivato conseguentemente nel richiedere una nuova autorizzazione amministrativa (pag. 4 del ricorso).

In diritto, ne consegue che il provvedimento impugnato resiste alla dedotta censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 17/ter, comma 1, e, in particolare, del comma 2, del R.D. n. 773/1931, secondo cui "Quando è accertata una violazione prevista dall’art. 17bis, commi 1 e 2, e dall’art. 221bis il pubblico ufficiale che vi ha proceduto, fermo restando l’obbligo del rapporto previsto dall’art. 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ne riferisce per iscritto, senza ritardo, all’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione o, qualora il fatto non concerna attività soggette ad autorizzazione, al questore" (1 comma);

"Nei casi in cui è avvenuta la contestazione immediata della violazione, è sufficiente, ai fini del comma 1, la trasmissione del relativo verbale. Copia del verbale o del rapporto è consegnata o notificata all’interessato" (comma 2).

La contestazione immediata dell’illecito amministrativo, pertanto, prova l’avvenuta conoscenza dell’avvio del procedimento sanzionatorio di che trattasi, al fine della quale è la stessa norma invocata che equipara la "consegna" di copia del verbale al trasgressore alla sua "notifica".

Il motivo pertanto è destituito di fondamento.

8.4. Con il quarto motivo si deduce che il "venir meno dei requisiti di sorvegliabilità" che costituirebbe il presupposto dell’ordine di cessazione dell’attività commerciale, non sarebbe indicazione motivazionale sufficientemente dettagliata a dare contezza dell’asserita mancanza dei predetti requisiti, non distinguendosi se trattasi di carenza di sorvegliabilità esterna o interna, così come previsto, in modo distinto, nel D.M. 17 dicembre 1992, n. 564.

La tesi non merita adesione.

Va richiamata, a tal fine, la giurisprudenza già citata al superiore punto 7.1., a proposito della natura vincolata del provvedimento di "revoca" dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di somministrazione di che trattasi, precisando che la ritenuta obiettiva natura vincolata della detta revoca (rectius: decadenza) attenua l’esigenza di una diffusa motivazione del provvedimento, apparendo sufficiente, ai fini di un’esauriente esternazione delle ragioni che lo giustificano, che dal tenore dell’atto emerga l’insussistenza dei requisiti previsti dalla legge per il rilascio e la permanenza della predetta autorizzazione.

I requisiti di sorvegliabilità esterna e interna, così come descritti nel DM n. 564 del 1992 rispettivamente all’art. 1 e all’art. 3, invero, identificano caratteristiche fisiche dei luoghi la cui corrispondenza, o meno, alla loro trasposizione planimetrica è di immediata percezione e rilevabilità, anche da parte dal ricorrente che proprio per la loro descrizione si avvalso di un tecnico specializzato.

A ciò si aggiunga che, comunque, l’atto vincolato, come quello oggetto di gravame, non è annullabile per violazione di norme sul procedimento o sulla forma, ai sensi dell’art. 21 octies della legge 7.8.1990, n. 241, nel testo introdotto dall’art. 14 della legge 11.2.2005, n. 15. (principio consolidato, v. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8218; sez. VI, 18 agosto 2009, n. 4948; sez. IV, 12 giugno 2003, n. 3313; 31 gennaio 2005, n. 238; sez. VI, 27 dicembre 2006, n. 7974; sez. VI, 8 febbraio 2008, n. 415).

La doglianza pertanto, è priva di base.

8.5. Con il quinto motivo si contesta la statuizione, contenuta nelle impugnate ordinanze n. 3 e n. 4 del 2007, di estensione analogica dell’art. 5 del R.D. n. 773 del 1931, al fine di sanzionare l’eventuale inottemperanza all’ordine di cessazione dell’esercizio pubblico di somministrazione di alimenti e bevande perché a ciò osterebbe, per un verso, la natura eccezionale di tale norma e, dall’altro verso, il principio di tassatività dei provvedimenti amministrativi esecutori espresso dall’art. 21 ter della legge n. 241 del 1990.

Il Collegio condivide l’argomentazione svolta a proposito della sussistenza del principio di legalità e tassatività dei provvedimenti amministrativi esecutori espresso dall’art. 21 ter della legge n. 241 del 1990, ove è affermato che le pubbliche Amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi, costituiti dal provvedimento amministrativo, previa diffida, "nei casi e con le modalità stabilite dalla legge". Ciò significa che l’esecuzione coattiva deve essere espressamente prevista e attuata secondo le modalità procedimentali stabilite dalla legge, perché, altrimenti, va applicato il diritto comune e, perciò, l’esecuzione in sede giurisdizionale.

Ora, l’art. 10 della legge 25 agosto 1991, n. 287, dispone al primo comma che "A chiunque eserciti l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande senza l’autorizzazione, ovvero senza la dichiarazione di inizio di attività, ovvero quando sia stato emesso un provvedimento di inibizione o di divieto di prosecuzione dell’attività ed il titolare non vi abbia ottemperato, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 2.500 euro a 15.000 euro e la chiusura dell’esercizio"; il comma 3 successivo precisa che "Nelle ipotesi previste dai commi 1 e 2, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 17- ter e 17- quater del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773". L’art. 17ter citato, inserito nel Capo IV del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, intitolato "Dell’inosservanza degli ordini dell’autorità di pubblica sicurezza e delle contravvenzioni", in particolare, al comma 3, stabilisce che "Entro cinque giorni dalla ricezione della comunicazione del pubblico ufficiale, l’autorità… ordina, con provvedimento motivato, la cessazione dell’attività condotta con difetto di autorizzazione…" Dunque, la misura di esecuzione coattiva tipicamente e tassativamente prevista dalle norme appena richiamate nell’ipotesi di inottemperanza dell’ordine di inibizione o di divieto di prosecuzione dell’attività di che trattasi è quella della "chiusura dell’esercizio" ovvero della "cessazione dell’attività".

Recita il successivo comma 5 dell’art. 17ter che "Chiunque non osserva i provvedimenti previsti dai commi 3 e 4, legalmente dati dall’autorità, è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale", il quale, a sua volta, sanziona penalmente l’inosservanza degli ordini emessi dall’Autorità, tra l’altro, per "ragioni di sicurezza pubblica " ossia attinenti anche all’attività di polizia di prevenzione e/o repressione in via amministrativa degli illeciti amministrativi.

L’espresso rinvio alle indicate norme del T.U.L.P.S., con particolare riferimento alle misure di esecuzione coattiva da esperire nell’ipotesi di inottemperanza dell’ordine di prosecuzione dell’attività non autorizzata dall’autorità comunale, ricondotte alla tipologia degli ordini dell’autorità di pubblica sicurezza, depongono inequivocabilmente a favore della applicabilità "diretta" al caso di specie – e non soltanto in via di interpretazione per analogia, come ritenuto dal Comune resistente – dell’art. 5 del predetto T.U.L.P.S., secondo il quale "I provvedimenti della autorità di pubblica sicurezza sono eseguiti in via amministrativa indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale.

Qualora gli interessati non vi ottemperino sono adottati, previa diffida di tre giorni, salvi i casi di urgenza, i provvedimenti necessari per la esecuzione d’ufficio.

È autorizzato l’impiego della forza pubblica…".

Anche sotto tale aspetto, pertanto, gli impugnati provvedimenti appaiono immuni dai vizi dedotti.

8.6. Con il sesto e ultimo motivo, si assume l’illegittimità derivata dell’ordinanza n. 3 del 23 aprile 2007, per i medesimi vizi che affliggerebbero la presupposta ordinanza n. 4 del 20 aprile 2007: avendone il Collegio già ritenuto l’infondatezza per le ragioni sopra esposte, non resta in questa sede, che rinviare a tali argomentazioni.

Anche tale motivo, dunque, è privo di base.

9. Per quanto suesposto il ricorso r.g. n.1163 del 2007 è infondato e va, quindi, respinto quanto alla domanda di annullamento degli atti impugnati.

10. Infine, l’acclarata legittimità degli atti impugnati, escludendo la configurabilità del danno ingiusto, determina la reiezione anche della domanda risarcitoria, così come proposta.

11. Le spese seguono come di regola la soccombenza, nella misura indicata nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sui riuniti ricorsi r.g. n. 187/2006 e n. 1163/2007, in epigrafe indicati:

– dichiara in parte inammissibile, in parte improcedibile e, per il resto, rigetta, il ricorso r.g. n. 187 del 2006, nei sensi di cui in motivazione;

– rigetta il ricorso r.g. n. 1163/2007.

Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore del resistente Comune di Carini, in persona del Sindaco pro tempore, delle spese del giudizio che si liquidano in Euro 2.000,00 (euro duemila/00), oltre accessori come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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