Cass. civ., sez. I 26-01-2006, n. 1636 BENI – IMMATERIALI – CONCORRENZA – Titolo di un’opera – Idoneità distintiva del titolo – Vendita dei prodotti sul mercato ad un prezzo particolarmente basso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atti notificati tra il 26 ed il 30 marzo 1993 la Casa Editrice Universo s.p.a. (in prosieguo indicata come Universo) citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la R.C.S. Editoriale Quotidiani Editori s.p.a., poi divenuta R.C.S. Editori s.p.a. (in prosieguo R.C.S.), la Headline Italia s.r.l. (in prosieguo Headline) ed i sigg. C.F. e V.C..

L’attrice, premesso di essere da molti anni editrice di un assai diffuso settimanale, denominato Telesette, contenente indicazioni e commenti dei programmi televisivi della settimana, riferì che, a partire dal 29 ottobre 1992, la R.C.S. aveva posto in vendita una propria guida settimanale ai programmi televisivi, denominata TV Sette, allegata al quotidiano Il Corriere della Sera. Lamentò che il titolo, il formato, la cadenza, il contenuto delle rubriche e le soluzioni grafiche di quest’ultima pubblicazione imitassero pedissequamente quelli del settimanale Telesette, producendo effetti confusori. Aggiunse inoltre che il settimanale TV Sette era realizzato, per conto della R.C.S., dalla società Headline di cui erano soci i sigg.ri C. e V., i quali erano stati sino a poco prima dipendenti o consulenti della Universo ed, in tale veste, avevano contribuito alla configurazione del settimanale Telesette. Osservò ancora che il settimanale allegato al quotidiano Il Corriere della Sera era distribuito sottocosto, ed in alcuni periodi addirittura gratis, sicchè le vendite di Telesette si erano drasticamente ridotte.

Perciò l’attrice chiese che fosse accertato il carattere illecito delle condotte addebitate ai convenuti, per violazione della L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 100 e 102, (legge sul diritto d’autore) e dell’art. 2598 c.c., n. 3, e che fossero emessi i consequenziali provvedimenti inibitoli e di condanna al risarcimento dei danni.

Tali domande, nel pieno ed attivo contraddittorio di tutti convenuti, furono però rigettate dal Tribunale, la cui pronuncia, a seguito di tempestivo gravame proposto dalla Universo, è stata integralmente confermata dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza resa pubblica il 18 maggio 2001.

La Corte milanese ha osservato;

– che l’utilizzo del titolo TV Sette, per la pubblicazione di un periodico in concorrenza con quello denominato Telesette, non ha implicato violazione del disposto dell’art. 100, comma 1, della citata legge sul diritto d’autore (in prosieguo L.A.): sia perchè si tratta di titoli di per se privi di una marcata originalità, in rapporto ai quali anche differenze lievi sono consentite, sia perchè, comunque, la presenza nel titolo del settimanale edito dalla R.C.S. anche delle parole "Corriere della Sera", con carattere di assoluta evidenza per dimensione, colore e riquadratura, esclude possa parlarsi di imitazione del titolo del settimanale concorrente;

– che, pur sussistendo di fatto le somiglianze d’impostazione e di forma tra le rubriche dei due settimanali denunciate dall’appellante, e pur dovendosi perciò riconoscere che la concezione editoriale di TV Sette ha avuto a modello quella di Telesette, essendo stata creata dalle stesse persone (i sigg. C. e V.) che avevano precedentemente contribuito alla realizzazione di quest’ultimo periodico, non ne consegue l’esistenza di alcun illecito, non essendo vietato imitare le caratteristiche, i pregi e le qualità di un prodotto non tutelato da alcuna privativa;

– che, in particolare, la violazione della L.A., art. 100, comma 3, non può risiedere nel mero fatto che siano identici i titoli delle due rubriche denominate "i film del giorno" e "le trame", atteso il carattere meramente descrittivo di tali denominazioni e la diversità della grafica e del contenuto delle medesime rubriche;

– che, alla stregua di una valutazione sintetica, e tenendo anche conto dell’affollamento di prodotti analoghi esistenti in questo settore di mercato, non è ravvisatole alcuna possibilità di confusione per i lettori: per la differenza dei titoli, per gli elementi di diversità di contenuto e composizione che residuano, rispetto alle rilevate somiglianze, per il numero complessivo di pagine delle due pubblicazioni e, soprattutto, per il fatto che il settimanale della R.C.S. non è acquistabile autonomamente in edicola, bensì solo in allegato al quotidiano Il Corriere della Sera (o, saltuariamente, insieme ad altre riviste del medesimo gruppo editoriale); che neppure appare illecita l’utilizzazione delle competenze professionali dei sigg. C. e V., ex dipendenti o collaboratori dell’impresa concorrente, giacchè costoro non erano legati da alcun patto di non concorrenza, nè hanno sfruttato segreti aziendali o conoscenze riservate acquisite presso il precedente datore di lavoro, essendo le caratteristiche editoriali di Telesette pubblicamente ostentate;

– che, infine, non è stata idoneamente provata l’accusa di dumping formulata dall’appellante: perchè – anche a prescindere dalla temporaneità dell’iniziativa promozionale di offerta gratuita del settimanale TV Sette – occorre tener conto della circostanza che l’offerta in edicola di detto settimanale fa tutt’uno con quella del quotidiano Il Corriere della Sera, onde, per configurare l’illecito concorrenziale della vendita sottocosto, si sarebbe dovuto dimostrare che l’offerta del settimanale non abbia avuto l’effetto di incrementare o difendere le vendite del quotidiano.

Avverso tale sentenza la Universo propone ricorso per Cassazione, articolato in tre motivi.

Resistono con controricorso sia la R.C.S. sia, congiuntamente, i sigg. C. e V. e la Headline.

Tutte le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. I tre motivi di ricorso, con i quali vengono denunciati sia errori di diritto sia vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, investono: il primo, l’asserita illecita imitazione del titolo e delle rubriche del settimanale Telesette, edito dalla società ricorrente, ad opera del settimanale TV Sette, di cui è editrice la controricorrente R.C.S.; il secondo, l’illecito concorrenziale che quest’ultima avrebbe commesso utilizzando le competenze professionali di ex collaboratori della medesima ricorrente; il terzo, l’ulteriore illecito consumato mediante la vendita sottocosto, o addirittura gratuita, del citato settimanale TV Sette.

Benchè tali motivi presentino taluni aspetti di connessione, è preferibile, per ragioni di maggior chiarezza espositiva, esaminarli qui di seguito separatamente.

2. Il tema dell’illecita imitazione è ripartito dalla ricorrente in due distinti profili: l’uno attiene al titolo dei periodici posti a raffronto, con riferimento al quale viene ipotizzata la violazione della L.A. art. 100, comma 1, (anche in relazione al disposto dell’art. 17, comma 1, lett. e, della legge sui marchi), e l’altro concerne i contenuti e le forme delle rubriche dei medesimi periodici, con ipotizzata violazione della citata L.A. art. 100, comma 3, e art. 102. 2.1. Con riguardo al primo profilo, la ricorrente contesta che tra i titoli delle due riviste sussista una differenza rilevante, tale non essendo la semplice sostituzione della parola "Tele" con quella "TV", e critica l’affermazione della Corte d’appello secondo cui si tratterebbe di titoli "debolissimi", perchè privi di sufficiente originalità. Si sarebbe invece dovuto tener conto della notorietà acquisita nel tempo dal settimanale Telesette e, quindi, applicare anche in questo campo la teoria cd. del secondary meaning, elaborata nel settore dei marchi, in virtù della quale anche una denominazione all’origine priva di capacità distintiva può poi acquistarla a seguito dell’uso di mercato che ne sia stato fatto in rapporto ad un determinato prodotto. Erroneamente, poi, la Corte Territoriale avrebbe ravvisato un idoneo elemento di differenziazione dei titoli nella dicitura "Corriere della Sera", aggiunta alla denominazione TV Sette, trattandosi di un mero sottotitolo, neppure citato nei messaggi pubblicitari riguardanti la testata e, come tale, insufficiente ad evitare effetti confusoli. Nè, infine, varrebbe riferirsi ad altre pretese differenziazioni grafiche, che l’impugnata sentenza menziona senza però neppure specificamente indicare e che, comunque, non avrebbero alcuna reale capacità distintiva con riguardo ad un titolo costituito essenzialmente da parole.

2.2. Quanto al secondo profilo, le critiche della ricorrente si appuntano sulle carenze e sulle contraddizioni da cui sarebbe affetta la motivazione dell’impugnata sentenza, la quale avrebbe riconosciuto le notevoli e numerose somiglianze riscontrabili tra le due riviste senza poi trame l’ovvia conclusione della loro confondibilità, escludendola sulla base di ulteriori – ma non sufficientemente specificati – elementi di differenziazione e, comunque, in difetto di una loro attenta e puntuale analisi e senza l’indispensabile comparazione di sintesi. Nè sarebbe possibile negare la confondibilità dei due periodici – come la Corte milanese ha fatto – sulla base del rilievo che il settimanale edito dalla R.C.S. è posto in vendita congiuntamente ad altri prodotti editoriali; elemento, questo, del tutto irrilevante, a fronte del fatto che la rivista TV Sette è comunque anch’essa venduta in edicola, con il rischio di confusione per associazione, potendosi indurre nei consumatori l’erronea convinzione che si tratti di una particolare versione della (in realtà concorrente) rivista Telesette, abbinata al Corriere della Sera, in forza di un’intesa intervenuta tra gli editori interessati.

3. Nessuna delle prospettate doglianze appare fondata.

3.1. Può senz’altro convenirsi sul fatto che la tutela accordata dalla legge al titolo di una pubblicazione non ne presuppone l’originalità in senso, per così dire, assoluto. Anche un titolo generico o meramente descrittivo può infatti acquistare una funzione individualizzatrice se, per l’uso che di quel titolo sia stato fatto in relazione ad una certa opera, per il tempo in cui ciò si è verificato e per la notorietà che l’opera ha acquistato presso il pubblico, si determini diffusamente un fenomeno di associazione; un fenomeno, cioè, in virtù del quale i fruitori dell’opera immediatamente siano portati a collegare all’opera stessa quelle parole e quei segni, pure in sè privi di particolare originalità, dei quali il titolo si compone. Può anche convenirsi, ovviamente, che un titolo da principio dotato di una capacità distintiva "debole", perchè costituto da una combinazione di parole ed altri segni grafici di significato relativamente comune, acquisti, per effetto dell’uso protratto nel tempo e del conseguente fenomeno di associazione cui dianzi si è fatto cenno, una valenza più "forte".

Resta però che, in tutti i casi, il giudizio sull’idoneità distintiva di un titolo, in relazione ad una determinata opera ed in rapporto con altri titoli relativi ad opere diverse, si risolve in una valutazione di fatto circa la possibilità che il pubblico, tratto in inganno dalla somiglianza dei titoli, scambi un’opera per l’altra. Valutazione di fatto e dunque, come tale, rimessa al Giudice di merito e non suscettibile di riesame in sede di legittimità, se non per eventuali difetti di motivazione riconducibili alla previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Orbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello non si è limitata a considerare che il titolo del settimanale edito dalla Universo è privo di una particolare originalità ed è dunque "debolissimo", onde la pur lieve differenza letterale e grafica rispetto al titolo della pubblicazione concorrente basterebbe a costituire un’idonea differenziazione; ha anche aggiunto che, comunque e "più radicalmente", ciò che vale ad escludere ogni eventuale confusione tra i due titoli è il fatto che in quello del settimanale TV Sette figura anche l’aggiunta delle parole "Corriere della Sera".

Il carattere decisivo che la Corte milanese ha inteso attribuire a tale ultimo rilievo tronca quindi ogni discussione in ordine alla valenza "debole" o "forte" (originaria o sopravvenuta con l’uso) del titolo del settimanale Tele Sette, di cui comunque la Corte di merito ha escluso la confondibilità con l’altro per effetto dell’anzidetta ulteriore dicitura.

Nè può accogliersi l’obiezione del ricorrente, secondo cui tale ulteriore dicitura non avrebbe invece dovuto esser presa in considerazione, trattandosi di un semplice sottotitolo. Al contrario, la Corte d’Appello ha accertato in modo chiaro ed esplicito che le parole "Corriere della Sera" concorrono pienamente a costituire il titolo in questione, giacchè si integrano in un’unitaria configurazione grafica con caratteri di assoluta evidenza per dimensione, colore e riquadratura. Ed è appena il caso di osservare che un simile accertamento in punto di fatto, così specificamente motivato e che correttamente tien conto anche dell’effetto grafico complessivo del titolo (senza necessità di descrivere minutamente nella sentenza i singoli dettagli che lo compongono), non può esser rimesso in discussione dinanzi al Giudice di legittimità. 3.2. Considerazioni sostanzialmente analoghe sono da farsi a proposito della doglianza concernente il giudizio di non confondibilità delle rubriche espresso dalla Corte d’Appello.

Anche in questo caso si tratta di valutazioni tipicamente di merito, in ordine alle quali non v’è spazio in Cassazione che per obiezioni attinenti alla completezza ed alla logicità della motivazione dell’impugnata sentenza. Viceversa, le censure formulate dalla ricorrente, pur quando formalmente rivolte a criticare appunto la motivazione, in realtà investono profili di merito e finiscono per sconfinare in un’inammissibile richiesta di rivalutazione di tali profili ad opera del Giudice di legittimità.

Ciò dicasi, in particolare, per l’asserito contrasto logico tra gli elementi di somiglianza che la Corte d’Appello ha rilevato nel contenuto delle due riviste messe a raffronto ed il conclusivo giudizio di non confondibilità che la medesima Corte ha poi espresso. Contrasto che, in realtà, non sussiste, perchè al rilievo delle suaccennate (peraltro solo parziali) somiglianze ed alla considerazione per cui certamente la rivista TV Sette ha per molti aspetti avuto a modello la preesistente rivista Tele Sette (a suo tempo realizzata dalle medesime persone che hanno poi ideato TV Sette), la Corte milanese ha fatto seguire un’argomentata valutazione che la ha condotta ad escludere, anche sotto questo aspetto, ogni possibilità di confusione da parte dei fruitori: il che basta a porre la fattispecie al di fuori dei limiti entro cui la legge, anche nell’ottica della concorrenza sleale, vieta l’utilizzazione ad opera di un concorrente di caratteristiche già da altri adoperate per connotare prodotti analoghi.

Nè può sostenersi che siffatta valutazione sia motivata in modo insufficiente o contraddittorio. Al contrario, l’impugnata sentenza vi perviene dopo aver rilevato che alcuni dei profili di maggiore somiglianza tra le due riviste riguardano modalità di presentazione molto comuni, e non perciò tali da costituire un elemento significativo d’individualizzazione, in un contesto di grande affollamento di prodotti editoriali sostanzialmente omologhi; che gli elementi di diversità contenutistica e compositiva, unitamente al diverso numero delle pagine complessive delle due pubblicazioni, conducono quindi, all’esito di una valutazione comparativa sintetica, ad escluderne la confondibilità; che, soprattutto, tale confondibilità è da escludere in considerazione della diversa presentazione in edicola del periodico TV Sette, sempre allegato al quotidiano Il Corriere della sera ed al settimanale Sette. E non ha mancato la Corte d’Appello di aggiungere, a quest’ultimo proposito, che non v’è alcun appiglio fattuale a sostegno della tesi dell’appellante (odierna ricorrente) secondo cui l’abbinamento delle diverse pubblicazioni sopra indicate potrebbe indurre nei lettori l’erronea convinzione che quella pubblicata dalla R.C.S. sia una sorta di editio minor del periodico edito dalla Universo, neppure alla luce della campagna pubblicitaria da cui il suo lancio è stato accompagnato.

Si è dunque in presenza, com’è chiaro, di una decisione di merito fondata su valutazioni dalle quale la ricorrente, com’è ovvio, può soggettivamente dissentire, ma il cui iter argomentativo è perfettamente delineato, senza che ne emergano contraddizioni, onde in nessun modo quella decisione appare priva di adeguata motivazione.

4. Il secondo motivo di ricorso, come già accennato, investe il tema della concorrenza sleale (ex art. 2598 c.c., n. 3), di cui la R.C.S. si sarebbe resa colpevole, in concorso con la Headline ed i sigg.

C. e V. avendo costoro cessato la loro precedente collaborazione con la ricorrente per costituire poi la predetta società Headline proprio allo scopo, tramite quest’ultima, di apportate alla R.C.S. tutto il know how acquisito nel corso dell’attività anteriore. Solo così sarebbe stato possibile realizzare e porre gratuitamente sul mercato in tempi ravvicinati una rivista sostanzialmente identica a quella già edita dalla Universo, la quale ne avrebbe riportato gravi danni.

4.1. Neppure questa doglianza può essere condivisa.

Essa non è infatti idonea a superare il decisivo rilievo per cui gli ex collaboratori della Universo, non essendo vincolati a quest’ultima da alcun obbligo di non concorrenza ed essendo perciò liberi di porre le proprie capacità di lavoro intellettuale a disposizione di una società diversa e, tramite questa, di collaborare con la R.C.S., non hanno apportato a tale nuova collaborazione notizie riservate o segreti aziendali dei quali fossero venuti in possesso nel corso o a causa del loro precedente impegno lavorativo. Tutte le caratteristiche di forma e di contenuto già sperimentate nell’elaborazione del settimanale edito dalla ricorrente – come correttamente rileva la Corte d’Appello – erano di dominio pubblico, appunto perchè percepibili da qualunque lettore di quel settimanale.

Si trattava, perciò, di caratteristiche liberamente riproducibili (salvo il limite del divieto di atti confusoli, che però si è già visto non essere stato qui superato), ed allora il fatto che esse siano state in parte riprodotte ad opera di ex dipendenti, in favore di un diverso committente, non può configurare, alcun illecito concorrenziale.

5. Nell’ultimo motivo di ricorso si denuncia nuovamente la violazione dell’art. 2598 c.c., n. 3, ma sotto un profilo diverso: quello del dumping (interno), ossia della vendita sottocosto del proprio periodico che la R.C.S. avrebbe attuato al fine di espellere i concorrenti dal mercato.

La ricorrente si duole che la Corte d’Appello non abbia dato peso decisivo alla circostanza, ampiamente pubblicizzata dalla R.C.S., per cui il settimanale TV Sette era offerto in edicola addirittura gratis; circostanza a fronte della quale non sarebbe occorsa alcuna ulteriore prova dell’illecito denunciato. Del tutto erroneamente, quindi, la medesima Corte d’Appello avrebbe preteso la dimostrazione – per altro impossibile da dare ad opera di un terzo – degli effetti che una tal politica commerciale aveva prodotto sulle vendite del quotidiano cui il settimanale accedeva. La circostanza che l’imprenditore riesca eventualmente a compensare il mancato guadagno conseguente alla vendita sottocosto di un determinato prodotto con la commercializzazione di prodotti diversi non toglie, infatti, l’illiceità del dumping in tal modo operato in danno di altri concorrenti; nè tale illiceità vien meno – sostiene la ricorrente – per la temporaneità della vendita sottocosto o per il fatto che quell’iniziativa sia eventualmente attuata per reagire ad analoghe politiche commerciali poste essere da altri editori di quotidiani.

5.1. Neanche questa censura coglie nel segno.

Non si può anzitutto non condividere il rilievo della Corte d’Appello secondo cui di vendita gratuita, nel caso in esame, non è possibile parlare. Atteso che la rivista edita dalla R.C.S. si presenta come un supplemento settimanale, inscindibilmente allegato al quotidiano edito dalla medesima R.C.S., essa costituisce infatti parte integrante di un unico prodotto, il cui prezzo di vendita è perciò quello del quotidiano, ancorchè solo eventualmente maggiorato in relazione alla presenza del supplemento. La questione, com’è evidente, per il profilo qui considerato, non si porrebbe in termini diversi se le due pubblicazioni fossero anche materialmente unificate in una sola, il cui prezzo sarebbe sempre il medesimo.

Dunque, la circostanza che la società editrice abbia a suo tempo pubblicizzato il lancio della sua guida ai programmi televisivi con la formula "non costa nulla" si risolve in una mera manifestazione pubblicitaria, ma non sposta i termini della questione e non può certo da sola bastare – come pretenderebbe la ricorrente – a fornire la prova di una vendita sottocosto integrante gli estremi della concorrenza sleale.

Una corretta impostazione del problema deve allora necessariamente prendere le mosse dal rilievo per cui, com’è ben noto, le ipotesi di concorrenza sleale riconducibili alla previsione dell’art. 2958 c.c., n. 3, non sono specificamente determinate. Vi rientra qualsiasi comportamento dell’imprenditore che, nel danneggiare un altro concorrente, si ponga in contrasto con i principi della correttezza professionale. Principi la cui concreta identificazione deve però esser di volta in volta operata sulla base di parametri desunti da altre norme, o da ulteriori principi generali, rinvenibili nell’ordinamento.

Si tratta allora di stabilire se, ed eventualmente entro quali limiti, possa definirsi contrario alla correttezza professionale il vendere dei prodotti sul mercato ad un prezzo particolarmente basso, tale da non apparire (almeno nell’immediato) remunerativo per l’offerente, ma, per ciò stesso, idoneo a porre in difficoltà i concorrenti che praticano un prezzo più elevato.

Ora, è noto come la giurisprudenza di questa Corte abbia in passato avuto più volte modo di affermare l’almeno potenziale l’illiceità della vendita sottocosto in un determinato ambito territoriale, se posta in essere allo scopo di conquistare il mercato con l’eliminazione dei concorrenti per dominarlo poi monopolisticamente e rivalersi con il rialzo dei prezzi (si veda, in tal senso, Cass., 28 aprile 1983, n. 2910); pur non mancando di sottolineare – almeno a partire dalla pronuncia di Cass., 21 aprile 1983, n. 2743 – che viene qui in gioco il rispetto di regole poste oggettivamente a presidio della competizione economica, onde non occorre che il descritto comportamento sia accompagnato dall’intenzione soggettiva di nuocere al concorrente.

Ma, a parte l’ovvia necessità di rispettare le regole dettate a proposito della vendita sottocosto dalla normativa speciale in materia di commercio (di cui però non è questione nel presente caso), occorre anzitutto osservare come la scelta di un imprenditore in ordine alla politica dei prezzi che egli intenda attuare sul mercato non possa, in via di principio, non esser considerata lecita, trattandosi di uno dei modi in coi si esplica la libertà d’iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., comma 1. Questa libertà, naturalmente, non è assoluta, ed incontra i limiti indicati nei due commi successivi del medesimo art. 41; ma resta il fatto che, per poter affermare la scorrettezza di un comportamento così strettamente legato alle valutazioni di rischio ed ai calcoli di costo e rendimento tipici dell’attività d’impresa, bisogna che esso risulti incompatibile con regole o principi chiaramente posti dall’ordinamento. E bisogna che siffatte regole o principi siano, per parte loro, riconducibili a quell’esigenza di utilità sociale solo con riferimento alla quale il menzionato art. 41 Cost., comma 2, consente di limitare la libertà d’impresa.

In quest’ottica, appare chiaro come la valutazione di eventuale scorrettezza di un dato comportamento – in specie, ma non solo, per quel che riguarda la determinazione del prezzo al quale un bene o un servizio venga offerto sul mercato – debba essere compiuta non nell’interesse dei mercanti, ma in quello del mercato. Occorre cioè aver riguardo a quel che nuoce o a quel che giova al buon funzionamento del mercato medesimo (in tal senso si veda anche Cass. 11 agosto 2000, n. 10684), e quindi alla generalità dei consumatori, perchè in questo risiede l’interesse generale, a prescindere dalla convenienza di una determinata categoria professionale.

Se così è, necessariamente ne discende che la scorrettezza nella fissazione di un determinato prezzo non può dipendere dal solo fatto che i concorrenti ne siano messi in difficoltà: in ciò sta l’essenza stessa della concorrenza, cui è connaturato l’elemento competitivo per il quale ciascuno dei concorrenti si sforza di prevalere sull’altro. Nè certo sarebbe sostenibile che la competizione sia lecita soltanto a patto di esplicarsi sul piano strettamente produttivo, ossia attraverso la riduzione dei costi di produzione a parità di qualità del prodotto, essendo invece fuor di dubbio che siano del pari lecite tecniche di concorrenza che operano sul piano finanziario ed, in generale, attraverso varie possibili forme di "marketing".

I limiti entro i quali un tal comportamento è legittimo finiscono per identificarsi, perciò, unicamente con quelli che il legislatore europeo, prima, e quello nazionale, poi, hanno posto alla libertà d’impresa al fine di garantire appunto la funzionalità del mercato e di tutelare l’interesse dei consumatori. In tanto, allora, si potrà sostenere che la fissazione di prezzi più o meno bassi è atto di concorrenza sleale, in un determinato mercato o in un settore rilevante di esso, in quanto essa contrasti con le regole cui s’è appena fatto cenno, e segnatamente con il divieto di abuso di posizione dominante desumibile dall’art. 82 (ex 86) del Trattato istitutivo dell’Unione europea e dalla L. n. 287 del 1990, art. 3. In altre parole, la vendita sottocosto (o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi) appare contraria ai doveri di correttezza evocati dall’art. 2598 c.c., n. 3, solo se a porla in essere sia un’impresa che muove da una posizione di dominio e che, in tal modo, frapponga barriere all’ingresso di altri concorrenti sul mercato o comunque indebitamente abusi di quella sua posizione non avendo alcun interesse a praticare simili prezzi se non, appunto, quello di eliminare i propri concorrenti per poter poi rialzare i prezzi approfittando della situazione di monopolio così venutasi a determinare (si veda, in tal senso, Corte di Giustizia 3 luglio 1991, n. 62, in causa C 62-86).

Alla stregua di tale principio, con il quale va integrata la motivazione dell’impugnata sentenza, il motivo di ricorso in esame risulta evidentemente infondato, giacchè la ricorrente, pur genericamente alludendo alla circostanza che la R.C.S. occupa sul mercato editoriale una posizione importante, non assume di aver mai provato, e neppure solo allegato, che in quel medesimo mercato essa si trovi in posizione dominante, nè che la politica di prezzi da essa praticata abbia avuto anche solo potenzialmente, come effetto quello di rinforzare tale posizione in chiave monopolistica e quindi di schiudere la prospettiva di una successiva libera manipolazione al rialzo dei medesimi prezzi. Ciò che, del resto, è in punto di fatto smentito dal non contestato rilievo della Corte d’Appello secondo cui l’iniziativa editoriale di cui si discute fu assunta dalla R.C.S. per controbattere iniziative analoghe di altri concorrenti rispetto ai quali, evidentemente, la stessa R.C.S. non vantava una posizione di dominio.

6. Il ricorso, dunque, deve essere rigettato.

La particolarità del caso suggerisce, peraltro, di compensare le spese processuali tra tutte le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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