Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 17-06-2011) 12-10-2011, n. 36864

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 22.12.09, la corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, ha confermato la sentenza 3.10.02 del tribunale di Nuoro, con la quale D.F., C.G., S.D. erano stati condannati, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti,alla pena di un anno di reclusione, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore della parte civile, con condanna ad una provvisionale di Euro 1000, perchè ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di sequestro di persona, in danno di Ca.Gi.: il 5.2.2000, quali carabinieri in servizio presso la stazione di Torpè, mentre eseguivano un servizio di controllo nel circo privato S’Astore di Posada, avevano prelevato il Ca., perchè privo di documenti, lo avevano fatto salire sull’autovettura di servizio con la giustificazione di effettuare accertamenti di identificazione presso il loro ufficio; lo avevano condotto,invece, in una zona periferica del comune, dove gli avevano cagionato lesioni personali, consistite in un trauma chiuso del torace e dell’addome e in una contusione della ragione zigomatica sinistra, dalle quali era derivata una malattia guaribile in dieci giorni, all’atto della dimissione del 8.2.2000 dall’ospedale di Nuoro, era stato diagnosticato "trauma policontusivo". In ordine alle lesioni non è stata esercitata azione penale per mancanza di querela. Con la sentenza 3.12.02, il tribunale ha assolto il Ca. dal reato ex art. 651 c.p., perchè il fatto non sussiste.

Il difensore degli imputati ha presentato ricorso per i seguenti motivi: 1. contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, anche in relazione alla sentenza di primo grado: i giudici di merito, raggiunta la certezza sulla veridicità del racconto del Ca., sul quale hanno fondato l’affermazione di responsabilità, sembrano animati dalla volontà di esprimere una sentenza esemplare. In questa prospettiva,l’ipotesi alternativa che postula un complesso disegno, sostenuto dal Ca. e dagli altri – protagonisti della vicenda, perde del tutto significato; ed anzi la mancata confessione degli imputati viene intesa dalla corte come frutto di censurabile ostinazione, giustificando anche con tale argomento, il rigetto della richiesta del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche.

I ricorrenti rilevano una serie di contraddizioni tra le dichiarazioni del Ca. e quelle del teste R., nonchè la mancata indagine sulla causa dell’atteggiamento del persona offesa, che dinanzi alla guardia medica di Posada, dottoressa M., inizialmente dichiarò di aver riportato le lesioni, cadendo per le scale. La dottoressa smentisce R. e P., laddove questi affermano di aver insistito con il Ca. affinchè rivelasse l’origine delle lesioni. Le sentenze non indagano su questa reticenza del Ca., limitandosi a denunciare un timore di ritorsione, evidentemente poi svanito in poche ore. Le sentenza, sotto il profilo esaminato, formano un compendio manifestamente illogico e contraddittorio, logicamente incompatibile con gli atti del processo.

La corte di merito non si avvede del contrasto tra i referti del medico di Posada e del medico del pronto soccorso dell’ospedale di Nuoro, a cui riferisce che il D. "mi ha dato due ginocchiate ai genitali e una sul fianco" (p. 98 del 7.2.02).

Il decorso della malattia, è incompatibile con la durata del ricovero – disposto a seguito dei sintomi rappresentati dal Ca. – con conferma dell’intento calunnioso di quest’ultimo.

Quanto alla credibilità della persona offesa, secondo i ricorrenti, essa va esaminata alla luce della ricostruzione del suo comportamento all’interno del circolo, su cui le due sentenza divergono: la corte ritiene verosimile che il Ca. non avesse rifiutato di dare le proprie generalità, mentre la sentenza del tribunale ritiene che non aveva l’obbligo di esibire i documenti di identità. Le dichiarazioni rese sullo svolgimento successivo dei fatti, secondo cui il D. gli disse "di gridare adesso il mio nome e il mio cognome, visto che non c’erano i miei amici, di fare il buffone adesso (f. 13 trib) confermano che precedentemente aveva rifiutato di fornire le proprie generalità. La palese irritazione del D., il quale, secondo la tesi di accusa, aveva subito dopo colpito il giovane non può giustificarsi se non con l’atteggiamento sprezzante del Ca., forse da attribuire ai precedenti rapporti conflittuali.

Secondo il ricorrente risulta quindi accertato che,non avendo il Ca. fornito le generalità è stato consumato il reato ex art. 651 c.p. e che gli imputati erano legittimati a invitare Ca. a seguirli in caserma.

Dalla ricostruzione dei fatti, fondata su prove documentali e dichiarative, risulta comunque che la limitazione di libertà si è protratta per pochissimi minuti.

2. violazione di legge in riferimento all’art. 605 c.p.: difetta l’elemento materiale sotto un duplice motivo: la persona offesa non è stata privata della libertà, essendo stato legittimo l’invito a seguire i carabinieri in caserma; la privazione della libertà si è protratta,seguendo la tesi di accusa, per il tempo necessario a consumate il delitto di lesioni personali.

3. violazione di legge in riferimento agli artt. 62 bis e 69 c.p.:

per negare il giudizio di prevalenza delle concesse attenuanti generiche, il tribunale richiama la gravità del fatto; la corte, pur riconoscendo la modesta gravità del fatto, lo giustifica valutando negativamente il comportamento processuale degli imputati, che hanno negato la propria responsabilità.

Nella memoria difensiva, depositata il 27.5.2011, i ricorrenti propongono una nuova qualificazione del loro comportamento, a norma dell’art. 610 c.p..

I carabinieri hanno agito legittimamente a fronte del rifiuto del Ca. di dare le proprie generalità, a seguito di richiesta di tutori dell’ordine pubblico, all’interno di un circolo frequentato da persone dedite all’uso di sostanze stupefacenti.

Comunque, ad essi può essere rimproverato di aver leso l’autonomia di violazione del Ca., ma non quella dei movimenti e di locomozione, tenuto conto del brevissimo tempo in cui si è sviluppato il comportamento degli imputati.

I motivi del ricorso sono inammissibili per carenza di specificità, in quanto ripropongono questioni di fatto e questioni di diritto, già proposte dinanzi ai giudici di merito, che ne hanno rilevato la infondatezza.

La mancanza di specificità del motivo è da ravvisare non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche come mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione in sede di legittimità,in quanto queste ultime non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza impugnata, ma ripetono la critica formulata nei confronti della decisione del giudice di primo grado, determinando quindi un’ irrituale ripetizione del gravame.

La sentenza impugnata – confermando e integrando quella di primo grado – si basa su apparato argomentativo di carattere storico e giuridico, concernente la ricostruzione dei fatti e le logiche interpretazioni delle risultanze processuali, del tutto incensurabile in sede di giudizio di legittimità. La credibilità del principale teste di accusa, Ca.Gi. è stata analizzata con particolare cura, alla luce delle complessive risultanze processuali e il giudizio positivo è stato pienamente conforme a una loro razionale interpretazione. Egli ha narrato, nell’immediatezza del fatto, di essere stato prelevato dai ricorrenti, con la giustificazione di un controllo sulle sue generalità, di essere stato condotto, a bordo dell’auto dei militari, dopo un percorso durato circa 30 minuti, in un luogo periferico, di essere stato trattenuto dal S., di essere stato colpito con due ginocchiate ai genitali e una al fianco, dal D., mentre il C. era rimasto a guardare.

La narrazione della persona offesa(assolta per insussistenza del fatto dal reato di rifiuto di fornire le proprie generalità) è stata ritenuta intrinsecamente ed estrinsecamente credibile dai giudici di merito, con argomenti del tutto insindacabili.

L’assenza di un legittima giustificazione di questa ingiunzione di seguire i militari fuori dal circolo e lontano dagli occhi dei soci presenti è stata concordemente messa in evidenza alla luce delle dichiarazioni testimoniali e della complessiva ricostruzione dei comportamenti e delle dichiarazioni degli imputati (v. infra).

La credibilità della persona offesa non è stata ritenuta offuscata dal fatto che egli, tanto inizialmente alla madre, quanto al medico di guardia di Torpè, dottoressa M., e al sanitario del pronto soccorso dell’ospedale di Nuoro, dottoressa V. abbia dichiarato di essersi procurato le lesioni, cadendo accidentalmente per le scale (a quest’ultima a narrato delle violenze, al momento delle dimissioni). Razionalmente, il giudice di appello ha considerato che questa iniziale reticenza non costituisce segno di mendacio, ma è stata determinata dalla evidente e ragionevole paura di esporsi a ritorsioni.

Il racconto della vittima è risultato compatibile,secondo il consulente tecnico del P.M., con i sintomi indicati e riportati nella cartella clinica. L’assenza di lesioni obiettivabili è correttamente giustificata dal fatto che una contusione (ovvero un colpo) provocata con un corpo contundente come il ginocchio può produrre effetti lesivi di difficile riscontro esterno. L’atteggiamento simulatorio è stato escluso dai giudici di merito, rilevando che nulla del genere è stato percepito dai sanitari della guardia medica e dell’ospedale di Nuoro, tanto che il primo consigliò e il secondo dispose il ricovero, nonchè dando atto della durata di quest’ultimo, determinato indubitabilmente da un serio stato patologico.

A fronte di questo compatto apparato storico-argomentativo, è risultata in tutta la sua evidenza la fragilità della tesi difensiva della contrapposta ricostruzione di fatti, proposta dai ricorrenti.

Questi hanno riferito che avevano deciso di condurre in caserma il Ca. perchè, privo di documenti, si era rifiutato di declinare le proprie generalità e che era stato lasciato libero, dopo un breve percorso, avendo dato sufficienti dati identificativi. La corte ritiene correttamente che questa tesi è smentita inoppugnabilmente dalla logica: al di là del fatto che i testi R. e D. affermano che Ca. era noto ai militari e che D. indirizzò la richiesta a seguirli espressamente a " Ca.", è stato rilevato che non è ragionevole che una persona, prima invitata perentoriamente – per la compiuta identificazione- a seguire i militari in caserma e fatta perciò salire nell’auto di servizio, dopo un centinaio di metri(e comunque dopo un minimo intervallo di tempo) venga rilasciata, perchè, "a voce" aveva fornito i dati (essere amico del gommista della stazione dei carabinieri),che ben avrebbe potuto dare all’interno del circolo.

E’ quindi pienamente corretta la conclusione della sentenza impugnata sulla credibilità della persona e sulla contraddittorietà, lacunosità, inverosimiglianza della alternativa tesi difensiva proposta dagli imputati. Eventuali sfumature e leggere discrepanze delle dichiarazioni dei testi non intaccano assolutamente la forza dimostrativa del complessivo apparato di prove dichiarative e documentali. Basti pensare all’assoluta marginalità dell’asserita contraddizione tra le dichiarazioni di R. e P., secondo cui sollecitarono il Ca. a dire la verità alla M. sulle cause delle lesioni, e la dichiarazione della dottoressa, che non ricorda l’episodio.

In ogni caso, i ricorrenti trascurano il dato storico riferito dalla stessa testimone: R. e P. erano rimasti fuori dell’ambulatorio, in cui si svolse la visita del Ca..

Quanto alla critica relativa alla sussistenza del reato di sequestro di persona, va rilevato che la sua infondatezza è già stata rilevata dai giudici di merito, che hanno correttamente considerato come la durata (circa 30 minuti) e l’assenza di giustificazione della coercizione in danno del Ca. (costretto a rimanere nell’auto di servizio, a essere portato in un luogo appartato e,infine, immobilizzato durante i ripetuti copi) si siano tradotte nella limitazione della libertà fisica e della libertà movimento, rilevanti ex art. 605 c.p. (sez. 5, n. 5443 del 15.11.1999, rv 215253). In maniera estremamente convincente, la corte di appello, sotto il profilo della gravità del fatto, ha messo in luce come questa condotta coercitiva, protrattasi per un tempo singolarmente lungo, senza alcuna ragione plausibile, abbia avuto l’obiettivo di terrorizzare la vittima, facendola sentire in totale balia di chi guidava l’auto e dominava la situazione.

Queste considerazioni, valgono ugualmente per escludere la sussistenza della meno grave ipotesi criminosa della violenza privata.

Quanto infine alla censura sul rigetto della richiesta di giudizio di prevalenza delle attenuanti genetiche, si osserva che il giudice di appello, nel negare il trattamento più benevolo, non ha esercitato una funzione punitiva, ma, preso atto dell’assenza nella complessiva personalità degli imputati di alcun elemento nuovo e diverso (la collaborazione),rispetto a quelli previsti dall’art. 133 c.p., che giustifichi la riduzione di una pena, giudicata di per sè adeguata, la ha lasciata immutata. La gravità del reato è stata messa in luce sia con le suindicate modalità sia con l’avvenuta violazione dei doveri propri di una pubblica funzione, commessa da più persone.

Come è ampiamente noto e consolidato, al giudice di merito è riconosciuto,nella determinazione del trattamento sanzionatorio, un potere discrezionale, che lo esenta da un’analitica classifica di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli, indicati dalle parti o desunti dalle risultanze processuali, e gli consente di giungere alla decisione attraverso l’indicazione dei soli elementi ritenuti decisivi e rilevanti. (sez. 1, 21.9.1999, n. 12496, in Cass Pen. 2000, n. 1078, p. 1949). Nessuna censura è quindi formulabile nei confronti della corte di merito, che – con ampia e coerente motivazione – ha dato rilievo prevalente e decisivo alla gravità del fatto, desunta da tutte le risultanze processuali.

La manifesta infondatezza dei motivi dei ricorsi comporta la declaratoria di inammissibilità del gravame. Va rilevato che,successivamente alla pronuncia della sentenza di appello, è maturato il termine di prescrizione che non porta però alla declaratoria di estinzione del reato. Secondo un condivisibile orientamento interpretativo, la inammissibilità, conseguente alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente l’instaurazione, in sede di legittimità, di un valido rapporto di impugnazione e impedisce di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., ivi compreso l’eventuale decorso del termine di prescrizione (S.U. n. 23428 del 22.3.2005; sez. 2, 21.4.2006, n. 19578).

I ricorsi vanno quindi dichiarati inammissibili con condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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