Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-03-2012, n. 4613 Decreto ingiuntivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione, notificato il 2 ottobre 2003, il sig. M.L. propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal giudice designato del Tribunale di Milano, notificatogli il 17 luglio 2003, con il quale gli era stato ingiunto il pagamento, a favore della Cofim Immobiliare, della somma di Euro 9.060,00 (oltre interessi legali e spese del procedimento monitorio) a titolo di provvigione per l’attività di mediazione prestata nell’ambito della compravendita avente ad oggetto l’immobile sito in (OMISSIS), assumendo di aver conferito all’opposta l’incarico di reperire un immobile in vendita contestualmente a quello di ricercare un acquirente per il proprio appartamento ubicato nello stesso Comune, con la precisazione che le due compravendite si sarebbero dovute ritenere funzionalmente collegate, poichè egli non disponeva del denaro necessario, per il pagamento del prezzo a suo carico. Peraltro, il M., a fondamento della proposta opposizione, puntualizzava che la società mediatrice lo aveva rassicurato sulla facile conclusione della vendita del suo appartamento e che, pertanto, egli era stato indotto ad accettare la proposta di acquisto di un immobile avente le caratteristiche ricercate fatta da tale C.C., persino allorquando il venditore si era dichiarato disposto a recedere dalla proposta, pagando il doppio della caparra di Euro 5.000,00, consegnatagli;

rilevava, altresì, l’opponente che le assicurazioni della società mediatrice si erano rivelate infondate, tanto è vero che egli si era visto costretto a rinunciare a concludere il contratto definitivo con il C., perdendo la caparra versata nella misura di Euro 20.000,00. Alla stregua del complessivo atto di opposizione formulato il M. concludeva per l’ottenimento del riconoscimento della compensazione tra il credito derivante dalla provvigione dovuta alla società opposta e quello conseguente al risarcimento dei danni dallo stesso sofferti in virtù del comportamento della società mediatrice, stimato in complessivi Euro 25.000,00, con derivante condanna, in via riconvenzionale, di quest’ultima al pagamento del residuo in suo favore. Nella costituzione della s.r.l. Cofim Immobiliare, che insisteva per il rigetto della proposta opposizione, il Tribunale adito, con sentenza n. 3704 del 23 marzo 2006, confermò il decreto ingiuntivo opposto e respinse le altre domande formulate dal M., che condannava anche alle spese giudiziali.

Interposto appello da parte di quest’ultimo, nella resistenza dell’appellata, la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 354 del 2010 (depositata l’11 febbraio 2010), rigettava il gravame, confermando l’impugnata sentenza, e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado, disponendo, altresì, la cancellazione di alcune frasi sconvenienti ed offensive. A sostegno dell’adottata decisione la Corte territoriale, sul presupposto che l’oggetto del "thema decidendum" non verteva sul diritto alla provvigione della società appellata, bensì sulla condotta di quest’ultima al fine di poterne evincere la sussistenza delle condizioni per ravvisare, a suo carico, la violazione dell’obbligo di informazione ex art. 1759 c.c. e degli artt. 1337 e 1375 c.c., rilevava l’inammissibilità della domanda risarcitoria ricondotta alla violazione del citato art. 1759 c.c. (perchè nuova) ed escludeva – sulla scorta dei complessivi elementi probatori acquisiti – la configurazione della violazione delle altre richiamate norme, pervenendo, perciò, al rigetto del formulato gravame. Avverso la suddetta sentenza di secondo grado (non notificata) ha proposto ricorso per cassazione il M.L., articolato in due motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata Cofim Immobiliare s.r.l..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., nonchè per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, deducendo l’erronea interpretazione della domanda, oltre che la contraddittoria ed insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio prospettato dalle parti, nella parte in cui la Corte di appello – in accoglimento dell’eccezione svolta dalla difesa dell’appellata – aveva giudicato inammissibile, in quanto concretante domanda nuova, la dedotta violazione dell’obbligo di informazione previsto dall’art. 1759 c.c., prospettata dal M. solo in sede di gravame (e sulla quale non era stato accettato il contraddittorio).

1.1. Il motivo è infondato e deve, pertanto essere rigettato.

Secondo la logica ed adeguata motivazione adottata dalla Corte territoriale, dall’esame degli atti processuali (e, in particolare, della prospettazione complessiva posta a fondamento della domanda di opposizione proposta in primo grado avverso il decreto monitorio emesso nei suoi riguardi, per quanto desumibile anche dalla riportata narrativa del processo), era emerso che il sig. M. aveva invocato il riconoscimento di una sua tutela risarcitoria (richiamando anche l’applicazione degli artt. 1439 e 2043 c.c.) nei confronti della Cofim Immobiliare s.r.l., riconducendola all’assunta violazione dei principi della correttezza e della buona fede nello svolgimento dell’obbligazione scaturita dal concluso contratto di mediazione, imputando alla menzionata società agente una condotta sleale finalizzata a perseguire le proprie esigenze, disinteressandosi di quelle del cliente. A fronte di tale iniziale impostazione della "causa petendi" sottesa al complessivo "petitum" dedotto, il M., con il proposto atto di appello, ha dedotto, tra l’altro (ovvero oltre alla censura inerente l’inosservanza dell’obbligo del contraente di comportarsi secondo buona fede, tanto nella fase precontrattuale che in quella di esecuzione del contratto ai sensi degli artt. 1337 e 1375 c.c.), la violazione, da parte della società titolare dell’agenzia immobiliare, dell’obbligo di comunicare alle parti circostanze note in ordine alla valutazione e alla sicurezza dell’affare tali da poter influire sulla sua conclusione, in tal senso denunciando anche la violazione dell’art. 1759 c.c..

Orbene, al di là dell’irrilevanza (essendo il giudizio "de quo" soggetto al cd. nuovo rito successivo alle modifiche di cui alla L. n. 353 del 1990) di una eventuale (e, peraltro, contestata) accettazione del contraddittorio su questa nuova prospettazione svolta (per la prima volta) solo nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado (alla stregua della funzione conferita a tale atto, che è quella meramente illustrativa di precedenti domande e difese ritualmente e tempestivamente formulate: cfr., ad es., Cass. n. 1412 del 2004), la Corte territoriale, sulla scorta della richiamata ricostruzione della vicenda processuale, ha correttamente statuito che la dedotta violazione dell’art. 1759 c.c. integrava una ipotesi di domanda nuova in quanto ricollegabile ad una "causa petendi" (ovvero la violazione dell’obbligo di informazione) fondata su una situazione giuridica non ritualmente dedotta e, quindi, non esaminata in primo grado, tale, perciò, da configurare un nuovo "thema decidendum", implicante, appunto, la proposizione di una domanda nuova soggetta alla sanzione dell’inammissibilità prevista dall’art. 345 c.p.c., comma 1. A tal proposito la Corte meneghina si è conformata all’indirizzo costante di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 7766 del 2004 e Cass. n. 26905 del 2008) secondo il quale sono consentite dalla legge processuale le modificazioni della "causa petendi" che non integrino domanda nuova, e cioè solo quelle che importano una diversa qualificazione o interpretazione del fatto costitutivo del diritto; l’introduzione di un diverso fatto costitutivo della pretesa, pur comportando le stesse conseguenze in tema di attribuzione del bene della vita, costituisce, invece, concreta domanda nuova, essendo possibile che da una sola situazione scaturisca una pluralità di diritti connotati da requisiti propri e suscettibili di formare oggetto di domande diverse, mentre può considerarsi virtualmente compresa in quella originaria solo la domanda fondata su fatti e comportamenti non diversi, per consistenza ontologica, struttura e qualificazione giuridica, da quelli prospettati con la domanda originaria, e diretta a precisarne o restringerne il "petitum". In modo ancor più incisivo, è stato, in proposito, precisato (cfr, da ultimo, Cass. n. 23614 del 2008) che il divieto dello "jus novorum" non concerne soltanto le allegazioni in fatto e l’indicazione degli elementi di prova, ma anche (e soprattutto) la specificazione delle "causae petendi" fatte valere in giudizio a sostegno delle azioni e delle eccezioni, pur se la nuova prospettazione sia fondata sulle stesse circostanze di fatto, ma non si risolva in una semplice precisazione di una tematica già acquisita al giudizio. Peraltro, fermo rimanendo quanto appena rilevato, bisogna evidenziare che l’obbligo previsto specificamente dall’art. 1759 c.c., comma 1, il quale impone al mediatore (tenuto a comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare) di mantenersi su di un piano di imparzialità e lealtà rispetto alle parti da lui messe in relazione per la conclusione di un affare, non attiene propriamente all’incarico conferito al mediatore di ricercare un potenziale acquirente (e/o un potenziale venditore) ed al rapporto che, in relazione all’attuazione di esso, viene costituito tra colui che ha conferito l’incarico ed il mediatore; in proposito la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 7067 del 2002 e Cass. n. 11244 del 2003) ha, infatti, statuito che costituisce ipotesi di mediazione tipica la fattispecie in base alla quale una parte manifesti ad un mediatore il proprio interesse a vendere un bene immobile, incaricandolo di ricercare un potenziale acquirente, senza peraltro al medesimo conferire per iscritto mandato a vendere ovvero il potere di vendere a nome suo, nè impegnandosi a versargli comunque un corrispettivo per l’attività svolta, anche in caso di mancata conclusione dell’affare.

2. Con il secondo motivo il ricorrente – sempre con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – ha dedotto la falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1337, 1375 e 1759 c.c., congiuntamente alla violazione, per altro aspetto, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 2, oltre all’insufficiente e contraddittoria motivazione su punti controversi e decisivi per il giudizio prospettati dalle parti.

2.1. Anche questo motivo non è meritevole di pregio e deve essere, quindi, respinto. Con tale censura il M. ha inteso assumere che la condivisione degli argomenti della sentenza di primo grado da parte della Corte territoriale era avvenuta senza vaglio critico delle doglianze rivolte contro la stessa mediante la formulazione dei motivi di appello, lamentando il mancato riconoscimento della violazione delle norme codicistiche dedotte e dell’assunta configurazione dell’inosservanza dei principi di cui agli artt. 1137 e 1375 c.c., concretatasi nell’averlo dissuaso dal lucrare il doppio della caparra offertagli dal promittente acquirente per liberarsi dell’impegno all’acquisto congiuntamente all’inesatta affermazione che sarebbe stata agevole l’alienazione del suo appartamento messo in vendita.

Diversamente da quanto prospettato dal ricorrente la Corte territoriale ha – con motivazione congrua e logica, basata su accertamenti di fatto adeguatamente valorizzati -dato conto del suo autonomo convincimento circa l’infondatezza della pretesa del M., provvedendo ad esaminare complessivamente le plurime censure mosse con il gravame proposto, pur dimostrando di condividere l’impostazione argomentativa adottata dal giudice di primo grado. In particolare, dalla sentenza impugnata si evince univocamente che dall’esame dei contratti allegati (in base ad una valutazione di merito sufficientemente spiegata e, quindi, incensurabile in questa sede: cfr., ad es., Cass. n. 5390 del 2006 e Cass. n. 20245 del 2009) non era possibile evincere la subordinazione dell’acquisto dell’immobile da parte del M. alla vendita di quello di sua proprietà e che, pertanto, le circostanze di fatto dedotte dall’appellante sul punto erano state considerate ritualmente irrilevanti già nel giudizio di prima istanza, senza, oltretutto, trascurare la circostanza che le conseguenze del mancato avveramento del supposto fatto costituente oggetto di presupposizione nel corso dell’esecuzione del contratto avrebbe potuto determinare – secondo la giurisprudenza assolutamente maggioritaria – soltanto l’inefficacia ovvero la risoluzione del contratto e non il risarcimento del danno come richiesto "ab initio" dal M. con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo. Peraltro, il giudice di appello, nel prestare adesione al ragionamento esteriorizzato dal giudice di prime cure, ha inteso riconfermare la legittimità del prevalente indirizzo giurisprudenziale di questa Corte alla stregua del quale la "presupposizione" è configurabile solo quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante la validità e l’efficacia dei negozio (cosiddetta condizione non sviluppata o inespressa), e (soprattutto), dall’altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione dell’uno o dell’altro (cfr. Cass. n. 4487 del 1987; Cass. n. 12921 del 1991 e Cass. n. 19144 del 2004). Inoltre, la Corte di secondo grado ha inequivocabilmente chiarito come, dalla considerazione del materiale probatorio complessivamente acquisito, fosse emersa la volontà del ricorrente di insistere nella proposta di acquisto, senza che alcun idoneo elemento autorizzasse a ritenere che il giudizio della Cofim Immobiliare s.r.l. in ordine all’agevole vendita dell’appartamento fosse inesatto. Del resto, l’esclusione della 1J violazione degli artt. 1337 e 1375 c.c. da parte dell’anzidetta società viene adeguatamente giustificata dalla Corte territoriale anche sotto il profilo della valorizzazione dei passaggi relativi alla scansione cronologica del rapporto contrattuale intercorso tra le parti, dal quale era scaturito che la proposta di acquisto del M. risaliva al 19 giugno 2002 e che, sebbene in data 11 giugno 2002 egli avesse avuto la possibilità di sciogliersi dal vincolo contrattuale incamerando il doppio della caparra, aveva preferito perseverare nell’operazione di acquisto, continuando ad avvalersi (come dal medesimo M., in effetti, non contestato) delle prestazioni della s.r.l. Cofim Immobiliare per la vendita del proprio immobile fino alla data di notificazione del decreto ingiuntivo (con la conseguente configurazione del diritto, in favore di quest’ultima, al riconoscimento della provvigione nella misura concordata, come posta a fondamento del ricorso monitorio), in tal senso adottando una condotta incompatibile con i presunti inadempimenti che lo stesso M. aveva addebitato alla società oggi controricorrente a far data dal giugno 2002. 3. In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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