Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 24 settembre 1985 N. P., quale titolare della omonima impresa edile, evocava dinanzi al Tribunale di Napoli la Cooperativa EDIL BELSITO 82 s.r.l., esponendo di avere concluso con la convenuta contratto di appalto in data 15.7.1982 per la ristrutturazione di fabbricato di proprietà della medesima cooperativa – sito in via (OMISSIS) – pattuendo il prezzo forfettario di L. 800.000.000, da pagarsi a stato di avanzamento dei lavori; proseguiva affermando che la committente non aveva corrisposto le somme dovute ed inoltre aveva commissionato all’appaltatore ripetute modifiche al progetto originario che avevano comportato una maggiorazione del prezzo per ulteriori L. 511.920.236, di cui però aveva versato soltanto alcuni acconti e pertanto rimaneva ancora creditore della somma di L. 214.026.000. Aggiungeva di avere chiesto ed ottenuto dal Presidente del Tribunale di Napoli sequestro conservativo sui beni mobili ed immobili della cooperativa fino alla concorrenza di L. 600.000.000; tanto premesso chiedeva la condanna della società convenuta al pagamento dell’importo di L. 214.026.000, oltre accessori e alla revisione dei prezzi sul corrispettivo per i lavori eseguiti. Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della convenuta, la quale deduceva che nell’agosto 1985 il P. aveva ingiustificatamente abbandonato il cantiere, per cui spiegava domanda riconvenzionale per la complessiva somma di L. 596.671.000, di cui L. 409.371.016 per somme erogate in eccesso, L. 93.000.000 per il completamento dei lavori, L. 25.000.000 per la eliminazione dei vizi di costruzione e L. 69.300.000 a titolo di penale, il Tribunale adito, con sentenza non definitiva del 16.3.1987, rigettava la domanda di convalida del sequestro conservativo concesso al P.. Disposta con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio, espletata ulteriore istruttoria, il Tribunale con sentenza definitiva giudice rigettava la domanda attorea e in accoglimento della riconvenzionale spiegata, condannava il P. al pagamento in favore della cooperativa della somma di Euro 147.516,73, oltre ad interessi.
In virtù di rituale appello interposto dal P., con il quale deduceva l’erroneità della decisione del giudice di prime cure che lo aveva riconosciuto responsabile in ordine ai difetti statici del fabbricato, anche contro il parere del C.T.U. che aveva ritenuto responsabile il solo progettista e direttore dei lavori, oltre a non avere considerato che l’originario contratto di appalto non prevedeva opere di consolidamento, contestata la liquidazione del quantum effettuata dal primo giudice per la eliminazione dei vizi e per il completamento dei lavori da parte della ditta Steding, la Corte di Appello di Napoli, nella resistenza dell’appellata, che proponeva appello incidentale per ottenere la liquidazione delle opere esterne (ricostruita la situazione contabile fra le parti, accreditando all’appellante la somma di L. 1.137.183.506 e ad essa cooperativa l’importo di L. 1.715.487.078), rigettava l’appello principale ed in parziale accoglimento di quello incidentale, riformava la sentenza de giudice di prime cure, condannando il P. alla corresponsione di Euro 217.966,81, oltre accessori.
A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava, in via prioritaria, quanto ai lavori di natura extracontrattuale, che – in mancanza di una specifica prova da parte dell’appaltatore – la committente aveva riconosciuto solo quelli eseguiti per l’ammontare di L. 180.843.480 (emergendo, peraltro, dalle risultanze processuali che talune modifiche distributive e strutturali, con incrementi di superficie, erano state commissionate dai singoli proprietari di talune unità immobiliari vendute, per cui i relativi costi non potevano essere pretesi nei confronti della cooperativa), importo cui doveva essere circoscritto il credito vantato. Quanto, poi, ai lavori esterni, la cui esecuzione era stata espressamente ammessa dalla convenuta, andava rigettato il motivo di appello incidentale presentato sul punto, dovendo essere confermata la quantificazione operata dal primo giudice che si basava su una valutazione complessiva dei lavori dettagliatamente indicati. Alla luce di tali risultanze doveva ritenersi che i lavori eseguiti dall’appaltatore ammontavano a complessive L. 1.159.843.480 (di cui L. 800.000.000 a titolo di corrispettivo previsto nel contratto di appalto, L. 180.843.480 per i lavori extracontrattuali eseguiti sulle strutture interne e L. 179.000.000 per i lavori sulle aree esterne), rispetto alle quali era pacifico che fosse stata versata al P. la somma di L. 1.205.250.000. Quanto ai vizi di costruzione riscontrati per difetti dell’intonaco e della tinteggiatura esterni, oltre che in difetti statici dovuti all’esiguità delle strutture portanti e ad una scorretta impostazione progettuale della ristrutturazione del fabbricato, a corte di merito confermava il costante orientamento giurisprudenziale che riteneva sussistere la concorrente responsabilità dell’appaltatore a norma dell’art. 1669 c.c..
Relativamente al quantum, pur avendo la committente, nelle note autorizzate ex artt. 180 e 183 c.p.c. e depositate il 17.1.1986, quantizzato l’importo, originariamente richiesto in L. 25.000.000, con la maggiore somma da determinarsi a mezzo di c.t.u., in concreto andava limitato a L. 237,293.459, per avere la cooperativa limitato il danno alle risultanze della perizia giurata dell’ing. A.. I costi dei lavori eseguiti dalla Steding, inoltre, erano stati correttamente quantificati dal c.t.u. in complessive L. 120.000.000, in tali termini richiesti dalla committente con le note sopra richiamate.
Infine, la corte distrettuale non riconosceva alcunchè per la revisione dei prezzi in mancanza del requisito della imprevedibilità, richiesto dall’art. 1664 c.c..
Concludeva riconoscendo che a fronte del credito dell’appaltatore di L. 1.159.843.480, vi era quello della cooperativa committente di complessive L. 1.581.886.073 (di cui L. 1.205.250.000 per acconti versati, L. 119.342.614 per l’acquisto di materiali, L. 120.000.000 per i lavori completati dalla Steding e L. 237.293.459 per i vizi di costruzione ed i difetti statici), pertanto da una semplificazione delle reciproche ragioni di dare ed avere risultava il credito dell’appellata di L. 422.042.593, pari ad Euro 217.966,81.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione il P., che risulta articolato su sei motivi, ai quale ha resistito la cooperativa EDIL BELSITO 82 con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato istanza di trattazione del procedimento ai sensi della L. n. 183 del 2011, art. 26.
La resistente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 194 c.p.c. e segg. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere la corte di merito, senza alcuna motivazione, riformato sul punto la decisione del giudice di prime cure, che adeguandosi al computo metrico estimativo effettuato dal c.tu., aveva quantificato i lavori extracontrattuali in L. 419.188.476, oltre a L. 179.000.000 per la sistemazione delle aree esterne, riducendolo a L. 180.843.870 sol perchè tale importo era stato espressamente riconosciuto dalla committente.
Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 163 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere la corte di merito erroneamente ritenuto che l’importo indicato dei lavori extra era limitato a L. 214.026.000.
Con il terzo motivo viene denunciata ancora la violazione e falsa applicazione dell’art. 194 c.p.c., e segg. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per quanto concerne i vizi di costruzione del fabbricato, attribuiti integralmente dalla corte di merito a responsabilità dell’appaltatore, pur avendo chiarito il c.t.u. che le imperfezioni riscontrate non erano riferibili alla cattiva esecuzione delle opere ordinate all’impresa ovvero all’impiego di cattivi ed inadeguati materiali, bensì ad un dissennato progetto di speculativa ristrutturazione di un edificio che aveva comportato la sbancamento del terreno alle fondamenta, con apertura di nuovi vani nei muri maestri, realizzazione di pesanti verande gettanti infisse nei muri maestri, ma non collegate all’intera muratura per la distribuzione del carico, nonchè la costruzione di un corpo di fabbrica separato, in aderenza a quello esistente.
Con il quarto motivo viene dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c. per omessa motivazione in ordine alla quantificazione dei difetti di costruzione sia con riferimento alla somma di L. 50.000.000 per i lavori occorrenti alle riprese di intonaco ed alla pitturazione sia in ordine ai vizi statici.
Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 194 c.p.c., e segg., nonchè dell’art. 1664 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 quanto al mancato riconoscimento da parte del giudice del merito della voce richiesta per la revisione dei prezzi sul presupposto della mancanza del requisito della imprevedibilità che invece andava rinvenuta nell’anomalo andamento dei lavori.
Con il sesto ed ultimo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 anche in relazione all’art. 132 c.p.c. per avere la corte di merito omesso di esaminare le ragioni che avevano indotto l’appaltatore a chiudere il cantiere, nonostante le inadempienze della committente.
Va in primo luogo rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla società cooperativa Edil. Belsito 82, per mancata formulazione nel ricorso stesso del quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..
Questa Corte ha più volte statuito, per quanto attiene alfa formulazione dei motivi del ricorso avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, che – in ragione del disposto dell’art. 366 bis c.p.c., secondo cui nell’ipotesi di vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione – la relativa censura deve tradursi in un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr Cass., Sez. Un., 1 ottobre 2007 n. 20603; Cass. 20 febbraio 2008 n. 4309; Cass. 7 aprile 2008 n. 8897). Corollario del suddetto principio è che con riferimento al suddetto vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione è sufficiente che in ragione del disposto dell’art. 366 bis c.p.c., la censura investa la sentenza impugnata attraverso passaggi argomentativi volti ad indicare in modo chiaro i fatti controversi e ad evidenziare in maniera specifica, e nello stesso tempo sintetica, le ragioni per le quali deve ritenersi che la motivazione della suddetta sentenza risulti omessa o insufficiente tanto da renderla priva di un compiuto e logico supporto motivazionale. Presupposti questi ultimi non riscontrabili nella fattispecie in esame in quanto il P. – con i sei motivi di ricorso diretti, seppure in diversa misura e con differenti modalità, ad investire ex art. 360 c.p.c., n. 5, la decisione della Corte territoriale – ha rispettato i disposto dell’art. 366 bis c.p.c., che nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, prescrive testualmente che l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione".
Va, altresì, precisato che nonostante il ricorrente denunci nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quinto motivo anche la violazione di norme di diritto da parte della Corte territoriale, le relative censure attengono in realtà alla motivazione della sentenza.
Questa viene, infatti, valutata come carente in quanto non avrebbe desunto dalle risultanze istruttorie i significati ritenuti dal ricorrente evidenti o comunque desumibili dalle stesse, anzichè quelli di fatto da esse tratti e avrebbe erroneamente quantificato i costi dei lavori extracontrattuali (1 e 2) ovvero riconosciuto la responsabilità ex art. 1669 c.c. dell’appaltatore (3), senza ritenere di attribuire alcunchè per la voce revisione dei prezzi (5).
Controprova del fatto che il primo, il secondo, il terzo ed il quinto motivo non attengano propriamente alla violazione di legge, si rinviene nell’analisi del contenuto dei quattro quesiti con i quali essi si concludono e che, riguardati come quesiti di diritto, sarebbero inammissibili. Ciò in ragione del fatto che tali quesiti si risolvono nel caso di specie nella mera istanza di una decisione in ordine alla esistenza della regula iuris da applicare nel tipo di giudizi cui è riconducibile quello censurato.
Viceversa, il quesito di diritto deve essere formulato in maniera tale che la Corte di legittimità possa comprendere dalla lettura dello stesso, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice di merito nel caso in esame e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (cfr Cass. SS.UU. 14 febbraio 2008 n. 3515).
Nel caso in esame viceversa l’esistenza di una erronea regula iuris applicata dai giudici è meramente presupposta e la sua affermazione appare unicamente funzionale a censurare i modi con i quali la Corte territoriale ha proceduto alla valutazione delle prove e quindi ad una valutazione di fatto, costituente il reale oggetto di ambedue i motivi di ricorso.
In altri termini, l’esistenza di una erronea regula iuris applicata dai giudici è meramente presupposta e la sua affermazione appare unicamente funzionale a censurare i modi con i quali la corte territoriale ha proceduto alla valutazione delle prove e quindi ad una valutazione di fatto, costituente il reale oggetto di ambedue i motivi di ricorso.
Per concludere, l’eccezione sollevata di inammissibilità del ricorso va rigettata.
Il superamento dell’eccezione di inammissibilità del ricorso ne consente l’esame dei motivi. il primo motivo, con il quale viene censurata la decisione circa la quantificazione dei lavori extracontrattuali, è privo di pregio.
La Corte d’appello, all’esito della disamina delle risultanze istruttorie e dei motivi di gravame, ha conclusivamente affermato che "modifiche sia distributive che strutturali, con incrementi di superficie, realizzazione di soppalchi, tagli di murature" furono commissionate da singoli proprietari di talune unità immobiliari venduti, per cui il corrispettivo relativo non poteva essere preteso nei confronti della società committente, in mancanza di prova della pattuizione tra le parti ovvero autorizzazione da parte della committente delle variazioni e/o modifiche dedotte dalla società cooperativa.
Si tratta di accertamenti di fatto adeguatamente e logicamente motivati, come si desume dal contenuto della sentenza di cui si è dato prima conto (v. in tal senso, Cass. 11 luglio 2011 n. 15188).
Del resto non può sopperire alla mancata dimostrazione della pattuizione l’esito della consulenza tecnica di ufficio, che si limita a registrare le opere realizzate, a prescindere dall’intervento di convenzioni fra soggetti diversi.
La censura, peraltro caratterizzata da genericità, non risulta congrua rispetto alla riferita motivazione, senza che siano evidenziate specifiche lacune o contraddizioni della trama argomentativa della sentenza impugnata, con il che il motivo si risolve in una inammissibile richiesta di nuova valutazione delle risultanze istruttorie, non consentita in sede di legittimità.
Quanto al secondo mezzo, laddove il ricorrente denuncia la limitazione dell’importo indicato per lavori extra in L. 214.026.000, osserva il collegio che si tratta di censura che attiene pur sempre alla statuizione sui lavori extra contratto, seppure prospettata sotto il diverso profilo della erroneità di calcolo, rispetto alla quale la conclusione cui si è giunti al punto che precede costituisce presupposto, con conseguente rigetto anche di detto motivo.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la riferibilità all’appaltatore dei vizi di costruzione nonostante l’accertamento effettuato dal c.t.u. circa la natura delle opere; in altri termini, senza considerare che si trattava di opera che progettata da terzi, riguardava una speculativa ristrutturazione di edificio già esistente.
Il motivo è infondato.
In tema di contratto di appalto, l’appaltatore è tenuto a realizzare l’opera a regola d’arte, osservando nell’esecuzione della prestazione la diligenza qualificata ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, quale modello astratto di condotta che si estrinseca (sia esso professionista o imprenditore) nell’adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell’attività esercitata, volto all’adempimento della prestazione dovuta ed al soddisfacimento dell’interesse creditorio, nonchè ad evitare possibili eventi dannosi.
Anche laddove si attiene alle previsioni del progetto altrui, come nel caso in cui il committente abbia predisposto il progetto e fornito indicazioni sulla relativa realizzazione, l’appaltatore può comunque essere ritenuto responsabile per i vizi dell’opera qualora non abbia, nell’eseguire fedelmente il progetto e le indicazioni ricevute, al primo segnalato eventuali carenze ed errori. Mentre va esente da responsabilità laddove il committente, pur reso edotto delle carenze e degli errori, gli richieda di dare egualmente esecuzione al progetto o gli ribadisca le indicazioni, in tale ipotesi risultando l’appaltatore ridotto a mero nudus minister (cfr, da ultimo, Cass. 12 aprile 2005 n. 7515; Cass. 30 maggio 2003 n. 8813). La responsabilità dell’appaltatore è pertanto da escludere solo nell’ipotesi (nella specie invero non verificatasi) in cui risulti costituire passivo strumento nelle mani del committente, direttamente e totalmente condizionato dalle istruzioni ricevute senza possibilità di iniziativa o vaglio critico. In ogni altro caso la prestazione dovuta dall’appaltatore viceversa implicando, come detto, anche il controllo e la correzione degli eventuali errori del progetto (v. Cass. 2 agosto 2001 n. 10550; Cass. 12 maggio 2000 n. 6088). Con specifico riferimento all’attività di costruzione di opere edilizie, si è in giurisprudenza di legittimità in particolare affermato che, in mancanza di diversa previsione contrattuale, l’indagine sulla natura e consistenza delle opere da edificare rientra propriamente tra i compiti dell’appaltatore (v.
Cass. 31 maggio 2006 n. 12995), trattandosi di indagine implicante una attività conoscitiva che al medesimo appaltatore – quale soggetto obbligato a realizzare l’opera commessagli – spetta assolvere mettendo a disposizione la propria organizzazione. Lo specifico settore di competenza in cui rientra l’attività esercitata richiede infatti la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell’attività necessaria per l’esecuzione dell’opera, onde si configura come onere dell’appaltatore predisporre un’organizzazione della sua impresa che assicuri la presenza di tali competenze per poter adempiere l’obbligazione di eseguire l’opera immune da vizi e difformità ( artt. 1667, 1668, 1669 c.c.) (cfr. già Cass. 23 settembre 1996 n. 8395). L’esecuzione a regola d’arte di una costruzione dipende dalla validità di un progetto di una costruzione edilizia, che è condizionata sia alla sua rispondenza alle caratteristiche geologiche del suolo su cui essa sorge, sia all’eventuale consistenza dell’opera di cui si è assunta l’obbligazione del restauro, per cui il controllo da parte dell’appaltatore va esteso anche in ordine a tali aspetti, anche laddove gli stessi siano ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione fornitagli dal committente, in tal caso prospettandosi l’ipotesi della responsabilità solidale con il progettista, a sua volta responsabile nei confronti del committente per inadempimento del contratto d’opera professionale ex art. 2235 c.c. Al riguardo va peraltro precisato che la diligenza dell’appaltatore deve essere valutata avuto riguardo a quella media richiesta, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, dalla specifica natura e dalle peculiarità dell’attività esercitata (cfr, Cass. 20 luglio 2005 n. 15255; Cass. 8 febbraio 2005 n. 2538). Egli è, infatti, tenuto a mantenere il comportamento diligente dovuto per la realizzazione dell’opera commessagli, dovendo adottare tutte le misure e le cautele necessarie ed idonee per l’esecuzione della prestazione, secondo il modello di precisione e di abilità tecnica nel caso concreto richiesto idoneo a soddisfare l’interesse creditorio.
La diligenza si specifica invero, come posto in rilievo in dottrina, nei profili della cura, della cautela, della perizia e della legalità.
Quest’ultima in particolare consiste – sotto l’aspetto dell’integrità materiale – nella mancanza di vizi e nell’idoneità dell’opera all’uso.
La perizia si sostanzia invece nell’impiego delle abilità e delle appropriate nozioni tecniche peculiari dell’attività esercitata, con l’uso degli strumenti normalmente adeguati; ossia con l’uso degli strumenti comunemente impiegati, in relazione all’assunta obbligazione, nel tipo di attività professionale o imprenditoriale in cui rientra la prestazione dovuta.
Con specifico riguardo all’obbligazione dell’appaltatore, ai fini della verifica della esecuzione a regola d’arte dell’opera l’esattezza della prestazione deve essere allora verificata alla stregua dell’adeguato sforzo diligente tecnico, e dei risultati che normalmente si realizzano con l’impiego di tale sforzo. Trattandosi di opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti o preparati dal committente o da terzi, l’appaltatore o il prestatore d’opera incaricato viola in particolare il dovere di diligenza stabilito dall’art. 1176 c.c. se non verifica, nei limiti delle comuni regole dell’arte, l’idoneità delle anzidette strutture a reggere l’ulteriore opera commessagli, e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se, accertata l’inidoneità di tali strutture, procede egualmente all’esecuzione dell’opera (v. Cass. 9 febbraio 2000 n. 1449; altresì, Cass. 22 giugno 1994 n. 5981).
I suindicati principi, applicabili anche con riferimento al caso in esame ed al tipo di attività posta in essere dall’impresa odierna ricorrente, risultano essere stati invero correttamente applicati dalla corte di merito che ha concluso per la sua responsabilità.
Nell’impugnata sentenza risulta, altresì, espressamente sottolineato l’esistenza dei difetti dell’intonaco e dell’attintatura, oltre a difetti statici manifestatisi con lesioni aventi andamento pressocchè verticale, specie ai piani inferiori, quadro fessurativo indicativo di fenomeni di schiacciamento dovuti all’esiguità delle strutture portanti e ad una scorretta impostazione della stessa ristrutturazione del fabbricato, necessitante di opere di consolidamento. Viene, altresì, espressamente indicato che seppure il P. fosse contrattualmente tenuto ad attenersi ai grafici ed ai progetti allegati al contratto, ciò non lo esimeva dal controllo sulla regolarità e congruità del progetto e delle successive modalità di esecuzione dell’opera, in particolare modo per ciò che atteneva alle variazioni distributive, con aumento di superfici richieste dai soci-proprietari, rispetto alle quali egli aveva il potere-dovere di vagliarne la congruità ed opportunità, soprattutto con riferimento alle esigenze di staticità del fabbricato. Nè la ditta appaltatrice, che pacificamente (per quanto sopra esposto) non ha agito quale nudus minister, non avendo dimostrato di avere ricevuto direttive strettissime dalla committente, aveva predisposto alcun calcolo per l’esecuzione anche delle ulteriori opere commissionate; a tale stregua le critiche evocate dal ricorrente non possono ritenersi valere a ridurre o limitare la responsabilità dell’appaltatore, come dall’odierno ricorrente viceversa sostenuto.
Conformandosi ai principi suddetti la sentenza impugnata, con motivazione logica e congrua, ha ritenuto sussistere la responsabilità dell’impresa appaltatrice.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia il vizio di motivazione in ordine alla quantificazione dei difetti di costruzione con riferimento ai costi per l’eliminazione dei vizi accertati. Il motivo prima ancora che infondato, è inammissibile.
Dalla ricostruzione delle doglianze sollevate dal P. nel corso dell’intero giudizio, di cui allo stesso ricorso, si evince che in appello l’impresa appaltatrice ha dedotto la sola questione del vizio di ultra petizione. Dalla sentenza impugnata risulta, infatti, che il ricorrente avanti al giudice del gravame avrebbe contestato la sussistenza dei lavori di ripristino della facciata (in quanto sarebbero consistiti in ordinaria amministrazione), mentre per il resto sarebbe incorsa in vizio di ultrapetizione, per avere la cooperativa richiesto solo la somma di L. 25.000.000. Nè in questa sede il ricorrente espone dove avrebbe dedotto un vizio nei succitata termini.
Ne consegue che, avendo in questa sede il P. denunciato un vizio di motivazione circa le voci di danno riconosciute, si tratta di questione che risulta prospettata per la prima volta in cassazione e pertanto è inammissibile.
Con il quinto motivo il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento della revisione dei prezzi.
La Corte d’appello ha affermato che l’incremento dei costi lamentato non poteva essere attribuito in mancanza del requisito necessario per l’applicazione dell’art. 1664 c.c., e cioè l’incremento dei prezzi avvenuto per effetto di circostanze imprevedibili con riguardo al momento in cui il contratto è stato stipulato. Infatti, ai fini dell’applicazione dell’art. 1664 c.c. occorre non solo che si siano verificati aumenti nel costo dei materiali o della mano d’opera tali da determinare un aumento superiore al decimo del prezzo complessivo convenuto con il contratto di appalto, ma è necessario, altresì, che siano effetto di circostanze imprevedibili, di circostanze cioè che non avrebbero potuto esser previste con diligenza o perizia media (cfr Cass. 21 gennaio 2011 n. 1494; Cass. SS.UU. 9 novembre 1992 n. 12076; Cass. 18 settembre 1992 n. 10693).
Di converso deve rilevarsi che la circostanza dedotta dal ricorrente per dimostrare la sussistenza dei presupposti voluti dall’art. 1664 cod. civ., ossia l’anomalo andamento dei lavori, non concreta certamente gli eventi previsti da tale norma, trattandosi di fatto che avrebbe dovuto trovare una soluzione nell’ambito dell’inadempimento contrattuale e non già della revisione dei prezzi.
Il motivo è, dunque, privo di pregio.
Con il sesto ed ultimo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 anche in relazione all’art. 132 c.p.c. per avere la corte di merito omesso di esaminare le ragioni che avevano indotto l’appaltatore a chiudere il cantiere, nonostante le inadempienze della committente.
A tal fine va osservato che è devoluta al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento e, pertanto, lo sono anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite dell’adeguata e congrua giustificazione del criterio adottato; onde al detto giudice non può imputarsi d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste – i disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4, non prevedendo ed, anzi, implicitamente escludendo, la redazione della motivazione come trascrizione e commento dei verbali e degli atti di causa sulle cui emergenze è basata – mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti, come nella specie, da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nei loro complesso, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, queste indicando l’iter seguito nella loro valutazione onde pervenire alle assunte conclusioni, anche per implicito disattendendo quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata. Pertanto, vizi motivazionali in tema di valutazione delle risultanze istruttorie non possono essere utilmente dedotti ove la censura si limiti alla contestazione d’una valutazione delle prove effettuata in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè proprio a norma dell’art. 116 c.p.c., comma 1, rientra nel potere discrezionale del giudice del merito l’individuare le fonti del proprio convincimento, il valutare all’uopo le prove, il controllarne l’attendibilità e la concludenza e lo scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti. Ciò stante, il motivo di ricorso per cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, deve essere inteso a far valere, a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti e della loro valutazione operate dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti di cui al già esaminato art. 116 c.p.c., attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’informativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame;
diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe – com’è, appunto, per quelli dei quali trattasi – in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità, Devesi, inoltre, considerare come, allorchè sia denunziato, con il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, un vizio di motivazione della sentenza impugnata, della quale si deducano l’incongruità e/o l’insufficienza delle argomentazioni svoltevi in ordine alle prove, per asserita omessa od erronea valutazione delle risultanze processuali, sia necessario, al fine di consentire a giudice di legittimità il controllo sulla decisività degli elementi di giudizio assuntivamente non valutati od erroneamente valutati, che il ricorrente indichi puntualmente ciascuna delle risultanze istruttorie alle quali fa riferimento e ne specifichi il contenuto mediante loro sintetica ma esauriente esposizione ed, all’occorrenza – come il caso di specie avrebbe richiesto – integrale trascrizione nel ricorso, non essendo idonei all’uopo il semplice richiamo alle acquisizioni istruttorie della fase di merito, o la riproduzione di stralci di esse avulsi dal contesto complessivo, e la prospettazione del valore probatorio, in positivo od in negativo, di esse quale inteso soggettivamente dalla parte in contrapposizione alle valutazioni effettuate dal giudice di quella fase con la sentenza impugnata in ordine al complesso delle acquisizioni probatorie e/o a quelle di esse ritenute rilevanti ai fini dell’adottata decisione e, tanto meno, inammissibili richiami per relationem agli atti della precedente fase del giudizio.
Premesse le assorbenti considerazioni di cui sopra, per le quali le censure in esame sono inammissibili in quanto intese non a confutare la ratio decidendi ma a prospettare una diversa lettura delle risultanze istruttorie difforme da quella in sentenza, può anche rilevarsi, sia pure per sola completezza d’argomentazione, che la motivazione fornita dal giudice a quo all’assunta decisione (tra l’altro significativamente avallando in doppia conforme la valutazione delle prove già effettuata dal primo giudice) risulta logica, argomentata ed ampiamente idonea allo scopo, basata com’è su considerazioni adeguate in ordine alla valenza oggettiva dei vari elementi di giudizio risultanti dagli atti e su razionali valutazioni di essi; un giudizio operato, pertanto, nell’ambito di quei poteri discrezionali dei quali si è in precedenza trattato, esclusivi di esso giudice, si che a fronte di esso, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.
Infatti entrambi i giudici di merito hanno riconosciuto – all’esito dell’istruttoria – una posizione creditoria in favore della cooperativa committente, considerando le rispettive posizioni di dare ed avere, nonchè i reciproci inadempimenti. In conclusione, il ricorso va rigettato. Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.
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