Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10-10-2011) 13-10-2011, n. 36954

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. C.L. e S.D. era stati imputati.

C. dei reati:

1. di cui all’art. 323 c.p., perchè, nella sua qualità di comandante il Nucleo Operativo della Compagnia CC San Carlo di Torino, nello svolgimento delle sue funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria, in violazione di norme di legge ( art. 582 c.p.), intenzionalmente arrecava ad un cittadino extracomunitario allo stato non identificato, un danno ingiusto, in particolare colpendolo con calci, ginocchiate e con un manganello, quando costui si trovava presso la caserma a seguito di fermo per eseguire perquisizione ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 103. 2. di cui agli artt. 582 e 585 c.p., art. 61 c.p., n. 9, perchè, colpendolo con calci e pugni e con un manganello, cagionava ad un cittadino extracomunitario lesioni personali. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con arma e con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione.

3. di cui all’art. 328 c.p., perchè, nella sua qualità di comandante il Nucleo Operativo della Compagnia CC San Carlo di Torino, indebitamente rifiutava di redigere gli atti relativi al fermo ed alla perquisizione di un cittadino extracomunitario accompagnato presso i locali della caserma per essere sottoposto a perquisizione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 103, atto che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo.

4. di cui all’art. 361 c.p., comma 2, perchè, nella sua qualità di comandante il Nucleo Operativo della Compagnia CC San Carlo di Torino, e quindi di ufficiale di polizia giudiziaria, avendo avuto notizia del reato di cui alla L. n. 40 del 1998, art. 6 commesso dal cittadino extracomunitario di cui ai capi che precedono, ometteva di riferirne alla autorità giudiziaria. Con l’aggravante di aver commesso il fatto nella sua qualità di ufficiale di Polizia Giudiziaria. In (OMISSIS).

S. dei reati:

5. di cui all’art. 323 c.p., perchè, nella sua qualità di capo servizio di una pattuglia della Compagnia CC San Carlo di Torino in servizio antidroga, nello svolgimento delle sue funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria, in violazione di norme di legge ( art. 581 c.p.), intenzionalmente arrecava ad un cittadino extracomunitario (mauritano), allo stato non identificato, un danno ingiusto, in particolare percuotendolo dopo che era stato immobilizzato con le manette di ordinanza a seguito di rifiuto di sottoporsi a controllo di polizia.

6. di cui all’art. 328 c.p., perchè, nella sua qualità i capo servizio di una pattuglia della Compagnia CC San Carlo di Torino in servizio antidroga, indebitamente rifiutava di redigere gli atti relativi al fermo ed alla perquisizione del cittadino extracomunitario di cui al capo che precede, accompagnato presso i locali della caserma per essere sottoposto a perquisizione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 103, atto che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo.

7. di cui all’art. 361 c.p., comma 2, perchè, nella sua qualità di capo servizio di una pattuglia della Compagnia CC San Carlo di Torino in servizio antidroga, e quindi ufficiale di polizia giudiziaria, avendo avuto notizia del reato di cui alla L. n. 40 del 1998, art. 6 commesso dal cittadino extracomunitario di cui ai capi che precedono, ometteva di riferirne alla autorità giudiziaria. Con l’aggravante di aver commesso il fatto nella sua qualità di ufficiale di polizia giudiziaria. In (OMISSIS).

2. Il Tribunale di Torino, con sentenza del 20 gennaio 2008, derubricato il reato di cui al capo 2 in percosse aggravate, dichiarava non doversi procedere contro il C. per mancanza di querela. Dichiarava responsabili C. e S. dei restanti reati loro rispettivamente ascritti.

3. In riforma di questa pronunzia, la Corte d’Appello di Torino, con la decisione indicata in epigrafe, assolveva il S. dalle imputazioni di cui ai capi 5 e 7 perchè il fatto non sussiste.

Unificava i capi 1 e 2 e qualificava come lesioni aggravate ai sensi dell’art. 61, n. 9 i fatti ivi ascritti al C., lesioni delle quali lo riteneva responsabile. Riteneva ancora il C. responsabile dei reati di cui ai capi 3 e 4 e il S. di quello di cui al capo 6. 4. Contro questa sentenza ricorre il C. che, come primo motivo, fa valere la violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 1, art. 648 c.p.p., art. 649 c.p.p., comma 1 e art. 521 c.p.p., comma 1 in relazione alla condanna per lesioni aggravate.

A questo proposito contesta che con l’appello da lui proposto avesse mai investito la Corte del problema di stabilire se il reato di abuso di ufficio fosse stato assorbito nel delitto di lesioni volontarie aggravate ed anzi assume che sul punto della derubricazione operata dal Tribunale del delitto di lesioni volontarie in quello di percosse non v’era stata alcuna impugnazione. Questo punto aveva dunque acquistato autorità di cosa giudicata e in tal modo la nuova qualificazione da parte della sentenza impugnata era stata operata e in violazione del principio devolutivo e in violazione del ne bis in idem.

Sotto altro aspetto il ricorrente assume che la nuova qualificazione operata della condotta descritta ai capi 1 e 2 ha violato il principio del contraddittorio in quanto il C. avrebbe dovuto essere posto in grado di interloquire sulla diversa definizione giuridica della condotta, promossa nuovamente a lesioni aggravate senza nessuna contestazione. Il fatto che il ricorrente possa difendersi su tanto in sede di legittimità lo priva comunque della possibilità di addurre argomenti di merito.

In ogni modo la qualificazione della condotta come lesioni volontarie aggravate è avvenuta riconducendo alla condotta del C. una ferita alla tempia o al sopracciglio riportata dalla persona offesa, ferita che invece il Tribunale aveva ritenuto non potersi addebitare con sicurezza al ricorrente. Il nuovo giudizio operato dalla decisione in esame sarebbe tuttavia privo di motivazione, come pure del tutto priva di motivazione, illogica e contraddittoria sarebbe la ritenuta aggravante dell’uso del manganello. Senza contare poi che non si era risposto a quanto il Tribunale aveva osservato circa l’insussistenza di elementi sufficientemente univoci a rivelare l’eziologia, e il tipo e la collocazione della lesione di cui la stessa Corte d’Appello da definizioni diverse nel corso della motivazione.

5. In ordine al rifiuto di atti d’ufficio e all’omissione di denunzia, il ricorrente osserva come in sede di merito non sia stata data risposta in ordine al punto della sussistenza dell’obbligo (negato dalla difesa) di verbalizzare il fermo per identificazione compiuto ai sensi dell’art. 349 c.p.p., comma 4. Mancanza di motivazione che riguarda un punto essenziale in quanto al C. era stato contestato di non aver redatto il verbale concernente l’accompagnamento dello straniero negli uffici di polizia e non certo per aver omesso di darne avviso al p.m. come invece ha ritenuto la sentenza d’appello in violazione dell’art. 521 c.p.p. e del principio devolutivo. Del resto mai il C. s’era rifiutato di redigere gli atti di cui al capo di imputazione, mentre l’impossibilità di verbalizzare il fermo e la perquisizione e di trasmettere la denunzia era stata impedita dall’iniziativa del T. che a insaputa del ricorrente aveva allontanato lo straniero dalla Caserma. Nè si potrebbe parlare di un rifiuto implicito sicchè la sentenza non sarebbe adeguatamente motivata sull’elemento soggettivo dei reati in esame. La contraria conclusione della sentenza si pone in contrasto con le deposizioni al riguardo, siccome dovrebbe risultare dal loro testo che viene riportato. Apparirebbe così che i fatti non si sono svolti come descritto nella decisione e che il disinteresse del ricorrente per la verbalizzazione in nessun modo ha influito sull’autonoma decisione del T. che ha reso oggettivamente impossibile effettuare gli atti richiesti. Il ricorrente si duole infine della mancanza di motivazione circa la determinazione della pena.

6. A sua volta il S. deduce un unico motivo rilevando che l’omissione di ufficio è insussistente perchè mai venne esperita perquisizione personale sul cittadino extracomunitario, come dimostrato dagli elemento che ampiamente riassume. Illogica sarebbe pertanto la ricostruzione operata dalla Corte d’Appello.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo del ricorso del C. è fondato.

La Corte d’Appello di Torino ha rivalutato l’imputazione di abuso di ufficio, promuovendo a reato autonomo la violazione di legge che ne era elemento costitutivo, credendosi a ciò legittimata dalla impugnazione del C. che prospettava la possibilità di assorbire il capo 1 dell’imputazione nel capo 2, per come ritenuto dal Tribunale.

In altri termini, poichè l’abuso d’ufficio di cui al capo 1 sarebbe stato perpetrato attraverso la violenza al fermato, la sentenza impugnata, investita del problema della sussistenza del reato di cui all’art. 323 c.p., esperita una nuova lettura degli atti, ha pensato di poter qualificare questa violenza come reato a sè stante e cioè come lesione aggravate, in esse assorbendo le due imputazioni di cui ai capi 1 e 2. Sennonchè tale fatto di violenza era stato già qualificato dal Tribunale come percosse aggravate in relazione al capo 2 e su questo punto non v’era stata impugnazione del pubblico ministero. Ne deriva allora che la qualificazione del fatto come percosse andava considerata irrevocabile ai sensi dell’art. 649 c.p.p. e nessun rilievo, ai fini dell’operabilità di una diversa qualificazione, poteva avere la circostanza che questo stesso fatto fosse evocato in due capi di imputazione, in quanto il divieto di un nuovo giudizio per il medesimo fatto, una volta formatosi il giudicato, si ha anche quando il fatto in questione venga diversamente considerato per il titolo. E poichè la Corte d’Appello ha assorbito i due capi in uno, così riconducendo l’intero disvalore dell’abuso alla violenza e questo punto non è stato oggetto di impugnazione, l’annullamento che questa Corte deve pronunziare riguarda i capi 1 e 2 dell’imputazione.

2. Inammissibili sono gli altri motivi di ricorso.

L’imputazione relativa all’art. 328 c.p. riguardava chiaramente l’omissione della redazione degli atti concernenti e il fermo e la perquisizione da inviarsi all’autorità giudiziaria di controllo, sicchè è manifestamente infondata la censura di violazione dell’art. 521 c.p.p.. Così come, dinanzi a questa rilevata omissione, era del tutto ultroneo stabilire se il C. avrebbe dovuto anche verbalizzare l’accompagnamento dello straniero in caserma.

Tutte le altre considerazioni del ricorso che si basano sulla pretesa iniziativa del T. si contrappongono poi in fatto alla ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata, la cui intrinseca logicità non è nemmeno posta in discussione.

3 Inammissibile altresì è anche il ricorso del S., diretto a proporre una nuova ricostruzione del fatto, tesa a negare che il fermato abbia subito perquisizione. Ricostruzione che dovrebbe operarsi attraverso una nuova lettura degli elementi probatori trascelti dal ricorrente in questa Sede non consentita.

3. Il giudice del rinvio dovrà dunque rideterminare la pena da infliggere al C. per i reati di cui ai capi 3 e 4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso del S. segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla cassa delle ammende di una somma che si stima equo liquidare in mille Euro.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui ai capi 1 e 2 dell’imputazione nei confronti di C.M. perchè l’azione penale non poteva essere proseguita per precedente giudicato e rinvia per la rideterminazione della pena in ordine agli altri reati ascritti al C. ad altra sezione della Corte d’Appello di Torino. Dichiara inammissibile il ricorso del S. che condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento di mille Euro alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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