Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-03-2012, n. 4577 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Lecce, con sentenza 9.1.2009, in accoglimento dell’appello di M.T. ed in riforma dell’impugnata decisione, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato al predetto dalla srl Sveviapol il 3.9.2002 ed ordinava alla società la reintegrazione del M. nel posto di lavoro, disponendone la condanna al pagamento delle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla reintegra.

Sosteneva la Corte territoriale che, a fronte della indubbia gravità dei fatti (il M., guardia giurata, aveva colpito al viso il maresciallo P. nel cortile interno dell’azienda procurandogli ferite lacero contuse al viso guaribili in sette giorni), doveva considerarsi la circostanza che l’autore del fatto si era prontamente scusato del gesto commesso col P. alla presenza di altro agente e che la parte lesa, dopo i fatti, si era recata dal legale rappresentante della società per chiederne la riassunzione, che il rapporto di fiducia tra le parti non poteva ritenersi leso in modo irrimediabile, che l’appellante non era mai incorso per diciotto anni in alcuna sanzione disciplinare e, che, inoltre, nessuna turbativa o allarme sociale erano stati arrecati dai fatti, verificatisi quando il dipendente non aveva ancora preso servizio.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la Sveviapol s.r.l., affidando l’impugnazione a quattro motivi.

Resiste, con controricorso, il M..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la società ricorrente deduce la illegittimità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, nonchè la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Assume la parziale e insufficiente valutazione dei fatti e del comportamento del M., che aveva negato ogni coinvolgimento nella vicenda, e del contegno successivo delle parti (scuse del M. e perdono del P.), la non veridicità della circostanza che il lavoratore aveva ammesso l’addebito dinanzi al datore di lavoro e, con quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., domanda se, ai fini della valutazione della legittimità o meno del licenziamento e del comportamento delle parti, il giudice debba tenere conto dei fatti verificatisi prima del licenziamento e non di quelli verificatisi dopo la cessazione del rapporto.

Con il secondo motivo, la società denunzia la illegittimità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su ulteriori punti decisivi, nonchè la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Evidenzia l’inesattezza del riferimento al pentimento del lavoratore, della considerazione che i colleghi non fossero rimasti impressionati dall’aggressione e che quest’ultima fosse avvenuta in assenza di altre persone, la erroneità del rilievo che il maresciallo P. non fosse superiore gerarchico del M. e che l’aggressione non fosse stata determinata dal ruolo rivestito dal P., stante il riferimento da parte del lavoratore ad atteggiamenti mal tollerati del primo; assume l’irrilevanza del rilievo che il fatto fosse avvenuto prima dell’inizio del servizio, essendosi lo stesso verificato nella sede aziendale ed essendo i soggetti presenti presso la stessa per motivi non esulanti dall’attività lavorativa.

Con specifico quesito, domanda se, ai fini della valutazione della legittimità o meno del licenziamento, a fronte di mala fede del lavoratore, il giudice del merito debba osservare la massima prudenza nella valutazione di tutti gli elementi di giudizio emersi, evitando di privilegiare quelli che tendono a giustificare il comportamento del lavoratore.

Con il terzo motivo, la ricorrente censura l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 127 c.c.n.l. per i dipendenti di istituti di vigilanza privata dell’8.1.2002 e dell’art. 2119 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Rileva che l’art. 127 c.c.n.l., a titolo esemplificativo delle ipotesi sanzionate con i licenziamento, prevede l’insubordinazione verso superiori ed il diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio, anche tra dipendenti, ed evidenzia l’erroneità della considerazione che il fatto si era verificato quando i lavoratori non erano in servizio, in quanto il comportamento censurato era stato posto in essere all’inizio del turno, con configurabilità dello stesso quale "aggressione in itinere" nella sede aziendale, quando i soggetti erano già in divisa e dotati di armi di servizio. Con appositi quesiti, chiede se il giudice del merito, una volta verificata la conformità della previsione contrattuale alla nozione di giusta causa ed al principio di ragionevolezza e di proporzionalità, sia tenuto ad applicarla e se il giudice debba verificare, ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione, le peculiarità che caratterizzano l’attività svolta dall’impresa e di quella svolta dal lavoratore e la possibilità di permanenza del vincolo di lavoro, occorrendo valutare a tale ultimo fine natura e qualità del singolo rapporto, posizione delle parti, oggetto delle mansioni e grado di affidamento da queste richieste, oltre che la portata oggettiva e soggettiva del contegno del dipendente.

Con il quarto motivo, lamenta la illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, in relazione all’art. 1218 c.c., il difetto di motivazione su un punto decisivo ai fini dell’indennità risarcitoria, e domanda se la mala fede del lavoratore, il quale nella specie aveva fornito giustificazioni false e fuorvianti, possa escludere totalmente il diritto al risarcimento del danno o condurre a contenere lo stesso nella misura minima garantita.

I motivi di ricorso si rivelano, per come formulati, tutti inammissibili, atteso che i quesiti formulati all’esito di ciascuno di essi non risultano adeguatamente formulati. L’art. 366-bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di ammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a "dieta" giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo "iter" argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (cfr. in tali termini, Cass 25 febbraio 2009, n. 45456).

Inoltre, a norma dell’art. 366 "bis" c.p.c., è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo (cfr. Cass 11 marzo 2008 n. 6420).

Orbene, nel caso considerato, come emerge dalla lettura dei quesiti, non risulta evidenziato il collegamento degli stessi (formulati in termini di assoluta genericità) con gli specifici punti della motivazione della sentenza impugnata sottoposti a censura, sì da condurre ad una decisione conforme alla regola iuris enunciata, una volta stabilità, l’erroneità di quella difforme applicata dal giudicante, o da individuare agevolmente la parte della motivazione in cui si è manifestata la dedotta contraddittorietà o insufficienza che rendono la stessa inidonea a giustificare la decisione.

Peraltro, nel terzo motivo di ricorso non si riportano, in dispregio del principio di autosufficienza, le clausole del CCNL richiamato utili alla decisione della controversia, nè con il ricorso risulta essere stato prodotto il testo dell’intero contratto.

In tema di ricorso per cassazione, l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre a richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto; tale prescrizione va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per cui deve ritenersi, in particolare, soddisfatta: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; b) qualora il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza documento; c) qualora si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all’ammissibilità del ricorso ( art. 372 c.p.c.) oppure di documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione de documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell’ambito del ricorso (cfr.

Cass., ord a s. u. 25 marzo 2010 n. 7161).

Per concludere, le argomentazioni sinora svolte trovano ulteriore conforto nel fatto che tutte le numerose censure contenute nel ricorso risultano funzionalizzate ad una diversa ricostruzione dei fatti di causa ed ad una rivisitazione delle risultanze processuali sicchè il ricorso, nel suo complesso, nonostante le sue numerose articolazioni, non può trovare ingresso in questa sede stante noti limiti che incontra al riguardo il giudice di legittimità.

Alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e l’onere delle spese di lite del presente giudizio, per il principio della soccombenza, cede a carico della ricorrente, nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente società al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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