Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 28-09-2011) 13-10-2011, n. 36916

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Bologna, con sentenza in data 7.5.2010, confermava la sentenza del Tribunale di Forlì in data 29.5.2009, che dichiarava P.G. e D.G. colpevoli dei reati di rapina aggravata ai danni di un istituto di credito e ricettazione aggravata di un’autovettura Fiat Uno al fine di commettere il primo reato e condannati, con la continuazione e la recidiva contestata, con la diminuente del rito, alla pena di anni cinque, mesi sei, gg 20 di reclusione e Euro 2.000,00 di multa ciascuno. Proponevano ricorso per cassazione il difensore di D.G. e P.G. personalmente. Il primo deduceva i seguenti motivi:

a) mancata assunzione di una prova decisiva e travisamento della prova per il mancato accoglimento della richiesta di acquisizione agli atti del dibattimento della copia originale del cartellino foto segnaletico del ricorrente al fine di accertare la preesistenza del tatuaggio sul polso, raffigurante il cane Pluto, non notato dai numerosi testimoni della rapina, del (OMISSIS);

b) difetto di motivazione e erronea valutazione della prova sulla diversità di fattezze fisiche tra le foto del rapinatore e il ricorrente, in particolare testa e viso, mancato rinvenimento delle impronte del D. sul luogo della rapina e rifiuto di disporre perizia antropometrica.

Con motivi aggiunti il difensore evidenziava di avere richiesto solamente l’acquisizione della copia originale del cartellino foto segnaletico, essendo già agli atti la relativa copia, non potendosi rifiutare la mera acquisizione di un documento.

Rilevava, inoltre, il difetto di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche e di quella di cui all’art. 62 c.p., n. 4, dovendosi ritenere di lieve entità il danno di Euro 326 P.G. censurava la sentenza per i seguenti motivi:

a) mancata derubricazione del reato di rapina in quello di furto in mancanza di alcuna violenza o minaccia alle persone;

b) difetto di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche e di quella di cui all’art. 62 c.p., n. 4, dovendosi ritenere di lieve entità il danno di Euro 326.

Con motivi aggiunti il ricorrente insisteva per la concessione delle predette circostanze attenuanti, avendo anche risarcito il danno alle persone offese.

Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi sono manifestamente infondati e vanno dichiarati inammissibili.

1) In relazione al ricorso di D.G. vanno disattesi i motivi relativi alla mancata riapertura dell’istruttoria dibattimentale per disporre perizia antropometrica e alla mancata acquisizione del cartellino foto segnaletico.

In relazione alla perizia antropometrica è’ orientamento costante di questa Corte (confronta, per tutte, Cass. n. 2979 del 2003, Bovicelli; Cass. n. 12027 del 1999 Mandala; Cass. n. 13086 del 1998, Patrizi) che la perizia non può ricondursi al concetto di prova decisiva, la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d). Essa non può essere considerata alla stregua di una prova a discarico stante il suo carattere "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti in quanto affidato alla discrezionalità del giudice. Del resto le parti possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze. La sua assunzione è, pertanto, rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducile a concetto di prova decisiva, con la conseguenza che non solo il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi della norma suindicata, ma, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

Nella specie, la Corte di Appello ha evidenziato come il D. sia stato riconosciuto al 100% come il secondo rapinatore entrato in banca sia da tre impiegati che da un negoziante con l’esercizio commerciale nelle adiacenze dell’istituto bancario, escludendo possibili cause di inattendibilità del riconoscimento, giustificando in maniera coerente e logica la circostanza che un’impiegata della banca, nella immediatezza della rapina, aveva dichiarato di non essere in grado di riconoscere i rapinatori, con lo stato emozionale del momento e con una successiva razionalizzazione dei ricorsi visivi a seguito del successivo positivo riconoscimento.

Anche la descrizione del secondo rapinatore è stata ritenuta divergente sulla altezza di pochi centimetri rispetto a quella reale ed è stata ritenuta non significativa la diversa descrizione del colore dei capelli (castano chiaro per il teste Mo.), rispetto ai capelli biondi dell’imputato.

La Corte ha anche giustificato coerentemente il mancato ritrovamento di impronte dell’imputato sul luogo della rapina rilevando come lo strusciamento dei polpastrelli non è utile per le comparazioni anche in relazione alla superficie su cui sarebbero state lasciate.

La doglianza relativa al rigetto della richiesta di acquisizione delle fotografie (o del cartellino foto segnaletico) va disattesa, avendo ritenuto non necessaria la Corte tale acquisizione ai fini della decisione in quanto, pur dando per accertata la presenza del tatuaggio al polso del rapinatore, i testimoni potrebbero non averlo notato impauriti dalle urla dei rapinatori, essendo anche possibile che il rapinatore abbia adottato qualche cautela per nascondere il tatuaggio, stante i numerosi elementi probatori emersi sulla responsabilità del prevenuto. Peraltro anche in sede di legittimità può procedersi alla cosiddetta "prova di resistenza", nel senso di valutare se gli elementi di prova non acquisiti abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito, controllando in particolare la struttura argomentativa della motivazione al fine di stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa anche con l’utilizzazione di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute di per sè sufficienti a giustificare l’identico convincimento, fornendo poi una valida motivazione sulla scelta del risultato ritenuto più corretto. Solo alla fine di una accurata analisi la Corte ha ritenuto, quindi, superflui sia l’espletamento di una nuova perizia collegiale, sia l’acquisizione della documentazione.

3) Anche il ricorso di P.G. è manifestamente infondato. In relazione alla mancata derubricazione dei fatti in furto aggravato va evidenziato che identica nelle due fattispecie è la condotta di sottrazione e impossessamento, mentre nella rapina vi è l’ulteriore elemento della violenza alla persona e della minaccia, strumentali all’impossessamento.

Anche se non è stata adoperata, nella specie, alcuna violenza alle persona, sussiste tuttavia, l’elemento della minaccia, individuabile nella intimazione agli impiegati della banca di consegnare il denaro, scavalcando uno degli agenti il bancone, dovendosi interpretare tali espressioni da parte dei presenti quale minaccia concreta alla propria incolumità, essendo plausibile ritenere che in caso di opposizione alla richiesta potessero passare a vie di fatto.

4) Anche l’ultimo motivo del P., comune anche al D. è manifestamente infondato.

Questa Suprema Corte ha, infatti, più volte affermato che ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., il Giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., ma non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento. (Si veda ad esempio Sez. 2, Sentenza n. 2285 del 11/10/2004 Ud. – dep. 25/01/2005 – Rv. 230691).

Inoltre, sempre secondo i principi di questa Corte – condivisi dal Collegio – ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze, ritenute di preponderante rilievo.

Nel caso di specie la Corte ha ritenuto ostativi alla concessione delle attenuanti generiche i plurimi e specifici precedenti penali di entrambi gli imputati.

Lo stesso discorso vale, naturalmente, per l’individuazione, da parte del Giudice, della pena da irrogare (fatto del quale velatamente si duole il ricorrente). La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, infatti, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p., (Sez 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278).

Viene anche censurata da entrambi gli imputati l’illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 che la Corte d’Appello ha disatteso sia in considerazione dell’importo ritenuto non particolarmente modesto della somma sottratta (Euro 326), sia per il danno derivante all’istituto di credito dalla sospensione dell’attività bancaria a seguito della rapina, danno direttamente riferibile all’azione degli imputati.

Il disposto della legge fa riferimento al "danno patrimoniale di speciale tenuità" cagionato alla persona offesa dal reato e non al semplice profitto della rapina. Quando il legislatore ha voluto fare riferimento al valore della cosa oggetto del reato lo ha detto espressamente, come nel caso del furto punibile a querela dell’offeso se il fatto è commesso su "cose di tenue valore" (art. 626 c.p., n. 2).

La "tenuità", pertanto, si contrappone alla "gravità" e lo stesso riferimento normativo alla gravità piuttosto che all’entità del danno invita ad una valutazione il più possibile completa del danno;

in altri termini, il bottino della rapina non necessariamente esaurisce la gravità del danno che rileva ai fini in esame.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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