Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 27-09-2011) 13-10-2011, n. 36912

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con sentenza n. 6462 del 6.10.2010 la Corte di Appello di Roma ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Roma del 23.10.2006 a P.P. per il delitto di cui all’art. 648 c.p., per essersi impossessato di un’autovettura sottratta al legittimo proprietario. Avverso la pronunzia della Corte di Appello l’imputato, a mezzo di avvocato, ha proposto ricorso per cassazione articolando quattro motivi:

a) inosservanza ed erronea applicazione della legge, mancanza della prova in ordine alla responsabilità per i fatti ascritti e insufficienza e contraddittorietà della motivazione per avere la Corte di Appello ritenuta acclarata la identità del reo nella persona dell’imputato pur non risultando elementi probatori univoci in tal senso ed anzi emergendo risultanze in senso opposto;

b) inosservanza ed erronea applicazione della legge in relazione all’art. 521 c.p.p., avendo la Corte di Appello erroneamente qualificato come ricettazione l’iniziale contestazione a titolo di furto con ciò stravolgendo l’onere probatorio a carico di accusa e difesa e violando inoltre il principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza pronunciata;

c) inosservanza ed erronea applicazione della legge in relazione all’art. 157 c.p. per essere intervenuta la prescrizione sui fatti di causa, da qualificarsi ai sensi dell’art. 624 c.p., sin dal 6.10.2010;

d) inosservanza ed erronea applicazione della legge in relazione agli artt. 133 e 62 bis c.p., per la mancata concessione delle attenuanti generiche.

2. – Le censure sono manifestamente infondate; conseguentemente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talchè la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).

Queste conclusioni restano ferme pur dopo la L. n. 46 del 2000, che, innovando sul punto l’art. 606 c.p.c., lett. e), consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad "altri atti del processo"; alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito, (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803).

Quindi, pur dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546;

Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380).

La motivazione è invece mancante non solo nel caso della sua totale assenza, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi d’appello e dotate del requisito della decisività (Cass. 17 giugno 2009, n. 35918). Nessuno di tali vizi ricorre nel caso di specie.

Il giudice di appello ha esposto un ragionamento coerente, completo e privo di discontinuità logiche attribuendo, previa specifica motivazione immune da vizi logici, rilevanza a fatti dichiarati come accertati nella istruttoria appropriatamente collegati nella ricostruzione sulla condotta delittuosa fonte di penale responsabilità. Nelle sintetiche osservazioni presentate nel ricorso si espone una visione alternativa del fatto, traendo una mera non condivisione della ricostruzione prospettata in sentenza. La diversa ricostruzione dei fatti tesa a valorizzare conclusioni nel merito diverse da quelle raggiunte dalla Corte di Appello è come tale insindacabile in questa sede a fronte della coerenza della alternativa ricostruzione oggetto della sentenza impugnata. Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile, per ripetere una formula giurisprudenziale ricorrente, con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento" (Cass. Sez. 4^ sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2^ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Manifestamente infondata è pure la censura circa la violazione dell’art. 521 c.p.p.. Essa è argomentata sul rilievo che il potere del giudice stabilito dalla norma di mutare la qualificazione giuridica del fatto, non legittima un esercizio dello stesso in violazione del diritto di difesa e del principio di equità del processo. E’ richiamata la giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi al riguardo e consistente nella richiesta di un più alto livello di protezione del diritto di difesa dell’accusato in occasione della riqualificazione del fatto: così da escludersi la compatibilita con il diritto di difesa di una riqualificazione del fatto, nel giudizio di Cassazione, come reato più grave rispetto a quello prospettato nelle precedenti fasi di giudizio (Corte edu 11.12.2007, Drassich c. Italia). Nel caso di specie, tuttavia, non si ravvisa nessuna violazione del diritto di difesa, avendo la Corte territoriale provveduto a riqualificare una ipotesi di furto aggravato come ricettazione: contenendo pertanto in una fattispecie di minore gravità la iniziale e non seguita prospettazione pur riferita a delitto certamente più grave ma nella cui struttura può agevolmente ricomprendersi la figura del delitto meno grave – concentrandosi la sostanza della ricettazione nel possesso del bene di provenienza illecita non a seguito della previa sottrazione dello stesso al legittimo detentore ma della mera ricezione dello stesso da terzi.

La terza censura, relativa all’intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 624 c.p., – dovendosi così qualificare il fatto delittuoso secondo il ricorrente – resta assorbita dalla reiezione della prima censura.

La quarta censura è sempre manifestamente infondata risolvendosi nella dichiarazione di non condivisibilità dell’ammontare della pena inflitta (ritenuta eccessiva) e della mancata concessione delle attenuanti generiche (ritenute sussistenti).

In punto di determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale, la decisione infatti rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 del codice penale (Cass. sez. 4^, sentenza nr.

41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278).

Nel caso in esame la Corte di Appello, effettuata una puntuale ricostruzione e valutazione dei fatti di causa e della specifica gravità degli stessi, seguendo un ragionamento argomentativo coerente, completo e privo di discontinuità logiche, ha dichiarato la pena irrogata in primo grado del tutto adeguata e proporzionata al fatto anche alla luce dei precedenti, in parte specifici, del prevenuto. La valutazione della gravità criminogena intrinseca al reato, ha determinato anche la decisione sulla mancata concessione delle attenuanti generiche, rendendo ultronea ogni valutazione sulla sussistenza di elementi aggiuntivi che hanno valenza meramente integrativa del primo. Poichè, in conclusione, le statuizioni relative alla determinazione della pena e al giudizio sulle circostanze sono censurabili in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico, e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione accolta dal giudice, il vizio motivazionale non sussiste.

3. – All’inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che si stima equo quantificare in Euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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