Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 22-09-2011) 13-10-2011, n. 36903

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con sentenza n. 3610 del 25.11.2010 la Corte di Appello di Palermo, pronunciando quale giudice di rinvio per sentenza di questa Suprema Corte n. 16651 del 11.3.2009 con riguardo alla sussistenza della penale responsabilità di D.L. per come accertata dalla sentenza del Tribunale di Termini Imerese del 23.11.2004, confermata dalla Corte di Appello di Palermo con sentenza del 15.5.2006, oggetto di rinvio, ribadiva la declaratoria di penale responsabilità.

Avverso la pronunzia resa in sede di rinvio l’imputato ha personalmente proposto ricorso per cassazione articolando una unica sostanziale censura sulla mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione resa dalla Corte di Appello con riguardo al reale svolgimento dei fatti, per la ricostruzione dei quali risultava indebitamente accreditata la versione resa dalle parti offese.

Il PG, rilevata la prescrizione, ha concluso per l’annullamento della sentenza.

2. – Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talchè la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).

Queste conclusioni restano ferme pur dopo la L. n. 46 del 2000 che, innovando sul punto l’art. 606 c.p.p., lett. e), consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad "altri atti del processo": alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter teologico seguito, (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803). Quindi, pur dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546;

Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380).

La motivazione è invece mancante non solo nel caso della sua totale assenza, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi d’appello e dotate del requisito della decisività (Cass. 17 giugno 2009, n. 35918).

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso di specie, dal momento che il giudice di appello ha esposto un ragionamento argomentativo coerente, completo e privo di discontinuità logiche affrancandosi dall’errore in cui era prima caduta la Corte di Appello di attribuire, in assenza di un sufficiente iter argomentativo, una decisiva valenza alle dichiarazioni delle parti offese. Particolarmente significativa, in tal senso, l’importanza ragionevolmente attribuita al riscontro documentale delle lesioni apportate dall’imputato a una delle parti offese consistente nella certificazione sanitaria in atti. Il ricorso, del resto, si esaurisce in una dettagliata ricostruzione dei fatti tesa a valorizzare conclusioni nel merito diverse da quelle raggiunte dalla Corte di Appello e come tali insindacabili in questa sede a fronte della coerenza della alternativa ricostruzione oggetto della sentenza impugnata.

Circa la prescrizione, si rileva quanto segue.

Premesso che il reato è stato commesso il 6.9.2002, considerata la data della pronuncia di primo grado (23.11.2004), e dunque la disciplina applicabile ratione temporis; considerati inoltre i reati contestati (resistenza a pubblico ufficiale e lesioni), per i quali i termini prescrizionali ammontano – secondo i criteri da applicarsi al caso di specie in considerazione del diritto temporalmente rilevante – ad anni sette e mesi sei; considerati i periodi di sospensione della decorrenza di detto termine prescrizionale, ammontanti complessivamente ad anni uno e mesi quattro; rideterminato pertanto tale termine ad anni nove e mesi dieci, il reato si è prescritto in data 6.7.2011. Sennonchè, la decisione impugnata è stata pronunciata in data 25.11.2010, dunque in un periodo antecedente allo spirare del termine prescrizionale. Poichè – per costante giurisprudenza di questa Corte – la inammissibilità del ricorso determina il passaggio in giudicato della decisione impugnata sin dal momento della pronuncia della stessa, allora – attesa la precedenza della data della pronuncia impugnata rispetto alla maturazione del termine di prescrizione, l’eccezione di prescrizione risulta infondata.

3. – All’inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che si stima equo quantificare in Euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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