Corte Costituzionale sentenza n. 239 SENTENZA 22 ottobre 2014

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SENTENZA

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della liberta’), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Firenze
nel procedimento relativo a M.F. con ordinanza del 31 gennaio 2013,
iscritta al n. 103 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale,
dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2014 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 31 gennaio 2013 il Tribunale di
sorveglianza di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
29, 30 e 31 della Costituzione, questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975,
n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della liberta’), nella parte in cui
estende il divieto di concessione dei benefici penitenziari,
stabilito nei confronti dei detenuti e degli internati per taluni
gravi delitti che non collaborino con la giustizia, anche alla misura
della detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art.
47-quinquies della medesima legge a favore delle condannate madri di
prole di eta’ non superiore a dieci anni.
Il giudice a quo premette di essere investito dell’istanza di
concessione della detenzione domiciliare speciale, presentata ai
sensi del citato art. 47-quinquies da una donna di origine nigeriana,
detenuta per l’espiazione della pena di nove anni e sei mesi di
reclusione, risultante dal cumulo delle pene inflittele con tre
sentenze irrevocabili di condanna, una delle quali relativa, tra
l’altro, ai delitti di cui agli artt. 600 e 601 del codice penale
(riduzione o mantenimento in schiavitu’ o in servitu’ e tratta di
persone), compresi tra quelli in relazione ai quali opera il divieto
sopra indicato.
Al riguardo, il rimettente riferisce che l’interessata e’ madre
di un bambino nato il 9 febbraio 2008 (dunque di eta’ inferiore a
dieci anni) tenuto con se’ dalla donna all’atto dell’ingresso in
carcere – avvenuto l’11 febbraio 2009 – in quanto minore di tre anni
a quella data. Dopo il compimento del terzo anno di eta’, il
Tribunale per i minorenni di Firenze aveva disposto l’affidamento del
bambino ai servizi sociali, con provvedimento, peraltro, non ancora
divenuto definitivo, a seguito del ricorso proposto dalla cognata
della detenuta.
Grazie all’iniziativa degli operatori dell’area educativa della
casa circondariale era stata individuata una soluzione per permettere
alla detenuta di occuparsi del figlio fuori del circuito carcerario,
in una struttura di accoglienza messa a disposizione dal Comune di
Firenze: soluzione che consentirebbe al Tribunale per i minorenni di
rivedere la propria decisione.
Nel rendere le informazioni richieste ai sensi dell’art. 4-bis,
comma 2, della legge n. 354 del 1975, il Comitato provinciale per
l’ordine e la sicurezza pubblica di Firenze si era, d’altra parte,
espresso nel senso dell’impossibilita’ di escludere collegamenti
della condannata con la criminalita’ organizzata, senza, peraltro,
offrire alcun elemento da cui desumere l’attualita’ e la concretezza
di detti collegamenti. Si dovrebbe, di conseguenza, ritenere che il
periodo di carcerazione subito abbia dissolto ogni eventuale legame o
contatto con organizzazioni criminali dell’interessata (peraltro, non
condannata per delitti di tipo associativo).
Ancorche’ la soluzione proposta dagli operatori della casa
circondariale appaia adeguata, soprattutto in rapporto alle esigenze
del minore – il quale «in pratica sta crescendo in carcere con la
madre per i reati da costei commessi» – e sebbene non sia ravvisabile
alcun attuale e concreto pericolo di reiterazione delle condotte
illecite da parte della condannata, la sua richiesta non potrebbe,
allo stato, essere accolta. Vi osterebbe, infatti, la preclusione
prevista dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, in
forza del quale le misure alternative alla detenzione previste dal
Capo VI del Titolo I di detta legge, esclusa la liberazione
anticipata – misure che ricomprendono anche la detenzione domiciliare
speciale – possono essere concesse ai detenuti e agli internati per
taluni gravi delitti, ivi elencati, solo ove essi collaborino con la
giustizia a norma dell’art. 58-ter. Tra i reati ostativi figurano,
infatti, come sopra accennato, anche quelli di cui agli artt. 600 e
601 cod. pen., per i quali l’istante sta scontando la pena; ne’,
d’altro canto, risulta accertata dal competente Tribunale di
sorveglianza una collaborazione della detenuta con la giustizia,
ovvero l’impossibilita’, l’inesigibilita’ o l’irrilevanza di tale
collaborazione, che, consentirebbero di rimuovere la preclusione ai
sensi del comma 1-bis dell’art. 4 della legge n. 354 del 1975.
Neppure, poi, gioverebbe alla richiedente la scissione delle pene
cumulate, al fine di verificare se quelle inflitte per i reati
ostativi siano state integralmente espiate, con conseguente venir
meno dei relativi effetti preclusivi. La pena irrogata
all’interessata per i delitti di cui agli artt. 600 e 601 cod. pen.
e’ pari, infatti, a sette anni di reclusione, sicche’ la sua
integrale espiazione risulta ancora lontana.
Cio’ premesso, il giudice a quo dubita della legittimita’
costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975,
nella parte in cui estende la disciplina da esso dettata anche alla
misura prevista dall’art. 47-quinquies.
Il rimettente osserva che la norma censurata preclude l’accesso
ai benefici penitenziari ai soggetti riconosciuti responsabili di
gravi delitti, sancendo nei loro confronti «una sorta di presunzione
di pericolosita’» che prescinde quasi del tutto dall’esame della
personalita’ del condannato e dagli esiti del trattamento
penitenziario. Detta preclusione assoluta, che esclude ogni
discrezionalita’ della magistratura di sorveglianza nella concessione
del beneficio, trova un temperamento solo in presenza di un
particolare comportamento attivo del condannato, rappresentato dalla
collaborazione con la giustizia, accertata dal tribunale di
sorveglianza con procedura camerale (art. 58-ter, comma 2, della
legge n. 354 del 1975), ovvero nel caso di riconoscimento
dell’inesigibilita’, impossibilita’ o irrilevanza di tale
collaborazione.
Siffatto regime preclusivo e’ sancito in rapporto ai benefici
penitenziari, e specialmente alle misure alternative alla detenzione,
costituenti uno dei principali strumenti di realizzazione della
finalita’ rieducativa della pena, enunciata dall’art. 27, terzo
comma, Cost. Peraltro, se puo’ apparire «comprensibile e ragionevole»
che il legislatore, nella sua discrezionalita’, individui per i
responsabili di alcuni gravi delitti un percorso piu’ complesso e
impegnativo di quello normalmente necessario per accedere ai benefici
penitenziari, la conclusione muterebbe necessariamente di segno
quando il «diritto "ostacolato"» abbia «poco o nulla a che vedere con
la situazione esecutiva di un condannato».
Benche’ inclusa, ratione materiae, nel Capo VI del Titolo I della
legge n. 354 del 1975, la detenzione domiciliare speciale
differirebbe profondamente dalle altre misure alternative alla
detenzione. Essa prescinderebbe, infatti, «da qualsiasi contenuto
rieducativo o trattamentale», essendo volta unicamente a
ripristinare, ove possibile, la convivenza tra madre e figli, cosi’
da consentire alla prole di fruire delle cure di cui abbisogna per un
corretto sviluppo fisio-psichico.
La misura in questione sarebbe finalizzata, dunque, alla tutela
di quel «superiore interesse» del minore cui fa riferimento l’art. 3
della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991,
n. 176, in forza del quale «In tutte le decisioni relative ai
fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di
assistenza sociale, dei tribunali, delle autorita’ amministrative o
degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve
essere una considerazione preminente».
La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 31 del 2012,
ha posto puntualmente l’accento sull’importanza dell’interesse del
figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria
famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con
ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura,
educazione e istruzione, «interesse complesso, articolato in diverse
situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela sia
nell’ordinamento internazionale sia in quello interno».
In tale prospettiva, risulterebbe lesivo del principio di
ragionevolezza (art. 3 Cost.) sottoporre indiscriminatamente tutte le
misure alternative alla detenzione ai vincoli e alle preclusioni di
cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, trascurando
la diversita’ «quasi ontologica» tra le misure che hanno come
finalita’ il reinserimento sociale del condannato, e che
costituiscono percio’ dei «benefici», e la detenzione domiciliare
speciale, che mira invece a proteggere l’infanzia. In questo modo, il
«superiore interesse» del minore, anziche’ prevalere, «cedere[bbe] il
passo innanzi alla pretesa punitiva dello Stato ed ai rigori che il
Legislatore ha inteso prevedere per l’accesso ai benefici
penitenziari per i responsabili di gravi delitti». Non sarebbe, in
effetti, ragionevole addossare sulle «fragili spalle» del minore le
conseguenze delle gravi responsabilita’ penali della madre, e
tantomeno quelle della sua scelta di non collaborare con la
giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca a vedere riconosciuta
l’impossibilita’, l’inesigibilita’ o l’irrilevanza della propria
collaborazione.
La norma censurata violerebbe, altresi’, gli artt. 29, 30 e 31
Cost., ponendosi in contrasto sia con la direttiva costituzionale di
tutela della famiglia come societa’ naturale, sia con il
diritto-dovere dei genitori di educare i figli e il corrispondente
diritto di questi ultimi di essere educati dai primi, sia, infine,
con l’obbligo di protezione dell’infanzia.
Ne’, d’altra parte, sarebbe possibile evitare i vulnera
denunciati tramite una interpretazione «costituzionalmente
orientata», la quale si risolverebbe nella illegittima
disapplicazione di una disposizione «chiara e cogente» nel suo tenore
letterale.
La questione sarebbe, altresi’, rilevante, posto che, alla luce
di quanto in precedenza evidenziato, solo la preclusione contestata
impedirebbe, nella specie, di entrare nel merito della domanda di
concedere la detenzione domiciliare speciale alla condannata istante,
con conseguente ripristino di una condizione di vita piu’ adeguata
per il minore.
2.- E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
La difesa dello Stato assume, in via preliminare, che il richiamo
del giudice a quo alla sentenza n. 31 del 2012 di questa Corte non
sarebbe conferente. Nell’occasione, infatti, la Corte ha ritenuto
contrario al principio di ragionevolezza l’automatismo della perdita
della potesta’ genitoriale sancito dall’art. 569 cod. pen. nei
confronti del genitore condannato per il delitto di alterazione di
stato (art. 567 cod. pen.): cio’, sul rilievo che tale delitto,
diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, non reca
in se’ una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro interessi
morali e materiali, tale da indurre a ravvisare immancabilmente
l’inidoneita’ dell’autore del fatto all’esercizio della potesta’
genitoriale.
Di contro, il divieto delle misure alternative alla detenzione
sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 non e’
assoluto, ma relativo, venendo meno nel caso in cui il condannato
collabori con la giustizia o non si trovi nelle condizioni di poter
collaborare utilmente. In ogni caso, i detenuti per i reati indicati
dalla norma censurata vedrebbero sempre tutelati i rapporti con i
figli attraverso i colloqui effettuati in istituto, non colpiti dal
divieto in questione.
Nell’introdurre la misura della detenzione domiciliare speciale,
di cui all’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, il
legislatore avrebbe, d’altro canto, operato un bilanciamento tra due
valori costituzionalmente protetti: il primo costituito dalla tutela
della famiglia e del rapporto delle detenute madri con i figli
minori, che, sebbene compressa, non e’ esclusa nel corso
dell’esecuzione della pena; il secondo rappresentato dall’interesse
dello Stato ad esercitare la potesta’ punitiva. Il bilanciamento
sarebbe stato assicurato prevedendo, da un lato, che l’accesso alla
detenzione domiciliare speciale resti precluso nei soli casi di
condanna per delitti che assumono «un significativo grado di
offensivita’ in relazione alla rilevanza del bene protetto»;
dall’altro, escludendo l’effetto ostativo allorche’ il condannato
collabori con la giustizia o la sua collaborazione risulti
inesigibile, impossibile o irrilevante.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale di sorveglianza di Firenze dubita della
legittimita’ costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta’), nella
parte in cui estende il divieto di concessione dei benefici
penitenziari, stabilito nei confronti dei detenuti e degli internati
per taluni gravi delitti che non collaborino con la giustizia, anche
alla misura della detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art.
47-quinquies della medesima legge a favore delle condannate madri di
prole di eta’ non superiore a dieci anni.
Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe il
principio di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione),
assoggettando la misura considerata al medesimo regime restrittivo
stabilito per le altre misure alternative alla detenzione previste
dal Capo VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975, senza tener
conto dei marcati tratti differenziali che la separano da queste.
Diversamente dalle altre misure, infatti, la detenzione domiciliare
speciale non costituirebbe un «beneficio» tendente al reinserimento
sociale del condannato, ma tutelerebbe il preminente interesse del
figlio minore a recuperare al piu’ presto un normale rapporto di
convivenza con la madre al di fuori dell’ambiente carcerario. Facendo
prevalere su tale interesse la pretesa punitiva dello Stato, la
disposizione denunciata riverserebbe, dunque, irragionevolmente
«sulle fragili spalle del minore» le conseguenze delle gravi
responsabilita’ penali della madre e della sua scelta di non
collaborare con la giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca a
veder riconosciuta l’inesigibilita’, l’impossibilita’ o l’irrilevanza
di detta collaborazione.
La norma denunciata violerebbe, altresi’, gli artt. 29, 30 e 31
Cost., ponendosi in contrasto con l’imperativo costituzionale di
tutela della famiglia come societa’ naturale, con il diritto-dovere
dei genitori di educare i figli e con il corrispondente diritto di
questi di essere educati dai primi, nonche’ con l’obbligo di
protezione dell’infanzia.
2.- La questione e’ fondata, nei termini di seguito specificati.
L’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 reca una disciplina
speciale, a carattere restrittivo, per la concessione dei benefici
penitenziari a determinate categorie di detenuti o di internati, che
si presumono socialmente pericolosi in ragione del tipo di reato per
il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti:
disciplina la cui genesi rimonta alla "stagione emergenziale" in tema
di lotta alla criminalita’ organizzata risalente al principio degli
anni ’90 dello scorso secolo.
Nella versione d’origine – introdotta dall’art. 1 del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema
di lotta alla criminalita’ organizzata e di trasparenza e buon
andamento dell’attivita’ amministrativa), convertito, con
modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 – il citato art.
4-bis distingueva le figure criminose di riferimento in due "fasce".
Per i reati "di prima fascia" – comprendenti l’associazione di tipo
mafioso, i relativi "delitti-satellite", il sequestro di persona a
scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico –
l’accesso alle misure era subordinato all’acquisizione di elementi
tali da escludere l’attualita’ di collegamenti con la criminalita’
organizzata; per i reati "di seconda fascia" si richiedeva – in
termini inversi, dal punto di vista probatorio – l’insussistenza di
elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.
A seguito della riforma operata dal decreto-legge 8 giugno 1992,
n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalita’ mafiosa), convertito,
con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, assumeva un
ruolo centrale nell’economia dell’istituto la collaborazione con la
giustizia. L’utile collaborazione, nei sensi indicati dall’art.
58-ter della legge n. 354 del 1975, diveniva, infatti, condicio sine
qua non per l’accesso ai benefici in rapporto ai delitti "di prima
fascia", salva la possibilita’ di ritenere sufficiente una
collaborazione «oggettivamente irrilevante» ove al condannato fossero
state concesse talune attenuanti, sintomatiche di una minore
pericolosita’.
La ratio del congegno – agevolmente individuabile, anche alla
luce dei lavori preparatori – era di duplice ordine.
Da un lato, il meccanismo poggiava sulla presunzione legislativa
che la commissione di determinati delitti dimostrasse il collegamento
dell’autore con la criminalita’ organizzata e costituisse, quindi, un
indice di pericolosita’ sociale incompatibile con l’ammissione del
condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di
collaborare con la giustizia veniva assunta, in questa prospettiva,
come la sola idonea ad esprimere con certezza la volonta’ di emenda
del condannato e, dunque, a rimuovere l’ostacolo alla concessione
delle misure, in ragione della sua valenza "rescissoria" di tale
legame.
Si coniugava a cio’ – assumendo, in fatto, un rilievo preminente,
nella situazione del momento – l’obiettivo di incentivare, per
ragioni investigative e di politica criminale generale, la
collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o
"contigui" ad associazioni criminose, che appariva come strumento
essenziale per la lotta alla criminalita’ organizzata.
Pur registrando con preoccupazione «la tendenza alla
configurazione normativa di "tipi di autore"», individuati sulla base
del titolo astratto del reato commesso, «per i quali la rieducazione
non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (sentenza n.
306 del 1993), e pur censurando con dichiarazioni di illegittimita’
costituzionale vari aspetti specifici della disciplina, questa Corte
escludeva comunque che la soluzione adottata dal legislatore potesse
ritenersi, di per se’, in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost.
La Corte rilevava, infatti, come il regime speciale risultasse
collegato all’accertata commissione di delitti che «sono […], o
possono ritenersi, espressione tipica di una criminalita’ connotata
da livelli di pericolosita’ particolarmente elevati, in quanto la
loro realizzazione presuppone di norma, ovvero per la comune
esperienza criminologica, una struttura e una organizzazione
criminale tali da comportare tra gli associati o i concorrenti nel
reato vincoli di omerta’ e di segretezza particolarmente forti». A
fronte di cio’, il legislatore aveva assunto, non irragionevolmente,
la collaborazione con la giustizia ad indice legale «della rottura
dei collegamenti con la criminalita’ organizzata, che a sua volta e’
condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il
venir meno della pericolosita’ sociale ed i risultati del percorso di
rieducazione e di recupero del condannato, a cui la legge subordina
[…] l’ammissione alle misure alternative alla detenzione e agli
altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario» (sentenza n.
273 del 2001). La preclusione sancita dalla norma non era, d’altra
parte, assoluta e definitiva, ma dipendeva da una opzione volontaria
del condannato, rivedibile in ogni momento: quella, appunto, di non
collaborare, pur essendo in condizione di farlo, avendo «la
giurisprudenza costituzionale in tema di collaborazione impossibile,
irrilevante o comunque oggettivamente inesigibile» escluso «qualsiasi
automatismo degli effetti nel caso in cui la mancata collaborazione
non [potesse] essere imputata ad una libera scelta del condannato»
(sentenza n. 135 del 2003).
Neppure, poi, era ravvisabile una violazione dell’art. 3 Cost.,
posto che, per un verso, l’incentivo alla collaborazione con la
giustizia, perseguito dal legislatore, non poteva qualificarsi come
«costrizione» a tale comportamento, che il detenuto era sempre libero
di non adottare, e, per altro verso, «la condizione di condannato per
delitti di criminalita’ organizzata non era certo comparabile con
quella del comune cittadino», tenuto alla denuncia dei soli delitti
contro la personalita’ dello Stato puniti con l’ergastolo (sentenza
n. 39 del 1994).
3.- L’assetto delineato dai provvedimenti dei primi anni ’90
veniva modificato, in prosieguo di tempo, da una serie di novelle
legislative, che, da un lato, mutavano l’architettura complessiva
dell’art. 4-bis e, dall’altro, ne ampliavano progressivamente
l’ambito di operativita’, con l’innesto di numerose altre fattispecie
criminose nella lista dei reati ostativi. La stratificazione degli
interventi normativi sfociava, alfine, nella riformulazione ad ampio
respiro operata dall’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla
violenza sessuale, nonche’ in tema di atti persecutori), convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, che conferiva
alla disposizione l’odierna fisionomia (introducendo anche una "terza
fascia" di reati ostativi, rappresentata da delitti a carattere
sessuale, per i quali la concessione dei benefici e’ subordinata agli
esiti dell’osservazione scientifica della personalita’, condotta
collegialmente per almeno un anno).
Concentrando l’attenzione sulla disposizione del comma 1
dell’art. 4-bis, riguardante attualmente i soli delitti "di prima
fascia" – cui e’ riferita la questione in esame – la norma censurata
stabilisce che «L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi
premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI,
esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai
detenuti e agli internati» per i delitti ivi elencati «solo nei casi
in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma
dell’articolo 58-ter». L’interessato deve essersi, cioe’, adoperato,
anche dopo la condanna, «per evitare che l’attivita’ delittuosa sia
portata a conseguenze ulteriori», ovvero deve aver «aiutato
concretamente l’autorita’ di polizia o l’autorita’ giudiziaria nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti o per la
individuazione o la cattura degli autori dei reati».
Recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n. 68 del
1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), il comma 1-bis dell’art.
4-bis estende la possibilita’ di accesso ai benefici ai casi in cui
un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, per la
limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata
nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l’integrale
accertamento dei fatti e delle responsabilita’, operato con la
sentenza irrevocabile; nonche’ ai casi in cui la collaborazione
offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre
che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna
delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o
116 del codice penale. In tutte le ipotesi dianzi indicate occorre,
peraltro, che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere
l’attualita’ di collegamenti con la criminalita’ organizzata,
terroristica o eversiva».
A seguito delle ricordate implementazioni, l’elenco dei reati che
rendono operante il regime speciale abbraccia, allo stato, ipotesi
criminose notevolmente eterogenee, comprensive anche dei delitti
contro la personalita’ individuale di cui agli artt. 600 e 601 cod.
pen., per i quali la detenuta istante nel procedimento a quo ha
riportato condanna. Il nesso con l’originaria matrice
politico-criminale della norma si coglie, al riguardo, nel fatto che
la riduzione o il mantenimento in schiavitu’ o in servitu’ e la
tratta di persone, nell’attuale momento storico, costituiscono
solitamente espressione del crimine organizzato, anche per il loro
frequente collegamento con lo sfruttamento della prostituzione.
4.- Il giudice a quo non contesta, peraltro, la legittimita’
costituzionale del regime di cui all’art. 4-bis, comma 1, della legge
n. 354 del 1975, in se’ considerato: reputando, anzi, «comprensibile
e ragionevole» che nei confronti degli autori di delitti di
particolare gravita’ e allarme sociale il legislatore stabilisca
regole di accesso ai benefici penitenziari piu’ severe di quelle
valevoli per la generalita’ degli altri condannati.
Il rimettente si duole, per converso, del fatto che il regime
restrittivo risulti esteso anche ad una misura alternativa alla
detenzione avente finalita’ affatto peculiari, che la porrebbero su
un piano nettamente distinto rispetto alle altre, rendendo non piu’
valida l’indicata conclusione: quale, in particolare, la detenzione
domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della legge n.
354 del 1975.
Si tratta di istituto la cui introduzione si colloca –
rappresentandone una delle tappe salienti – nell’ambito del processo
di progressivo ampliamento dei presidi a tutela del rapporto tra
condannate madri e figli minori.
Giova, al riguardo, ricordare come all’epoca dell’emanazione
della nuova legge di ordinamento penitenziario le uniche norme intese
a proteggere tale rapporto fossero costituite dagli artt. 146 e 147,
numero 3), cod. pen., che disciplinavano, rispettivamente, il rinvio
obbligatorio (per la donna incinta o con prole di eta’ non superiore
a sei mesi) e il rinvio facoltativo (per la madre di prole di eta’
non superiore ad un anno) dell’esecuzione della pena.
Il nuovo ordinamento penitenziario varato con la legge n. 354 del
1975, sebbene ispirato ai principi di umanizzazione della pena e
della rieducazione del condannato, si era limitato d’altra parte a
prevedere, sotto il profilo considerato – oltre alla presenza, presso
ogni istituto penitenziario per donne, di servizi speciali per
l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere – la
possibilita’ per le detenute madri di tenere presso di se’ i figli
fino all’eta’ di tre anni, con il connesso obbligo
dell’amministrazione penitenziaria di organizzare appositi asili
nido, per la cura e l’assistenza dei bambini (art. 11, ottavo e nono
comma). Appariva evidente, peraltro, come l’ingresso del minore di
tre anni in carcere costituisse una soluzione largamente
insoddisfacente del problema, giacche’, per un verso, si limitava a
differire il distacco dalla madre, rendendolo sovente ancor piu’
drammatico; per altro verso, inseriva il bambino in un "contesto
punitivo" e povero di stimoli, tutt’altro che idoneo alla creazione
di un rapporto affettivo fisiologico con la figura genitoriale.
Un netto progresso, su questo versante, era segnato dalla legge
10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento
penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative
della liberta’), che introduceva nel sistema l’istituto della
detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge n. 354 del 1975),
identificandone nella madre di prole in tenera eta’ uno dei
destinatari tipici. Tale misura – i cui presupposti soggettivi e
oggettivi di fruibilita’ venivano successivamente modificati a piu’
riprese dal legislatore, in senso dilatativo – consentiva al bambino
di giovarsi di un’assistenza materna continuativa in ambiente
familiare, o comunque extramurario, malgrado lo stato di detenzione
della genitrice.
Nel testo vigente, il comma 1 del citato art. 47-ter consente, in
particolare, alla madre di prole di eta’ inferiore a dieci anni, con
lei convivente, di espiare in forma extracarceraria la pena della
reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte
residua di maggior pena, nonche’ la pena dell’arresto di qualsiasi
entita’ (lettera a). In accordo con i principi affermati da questa
Corte (sentenza n. 215 del 1990), analoga possibilita’ e’ accordata
al padre, nel caso in cui la madre sia deceduta o assolutamente
impossibilitata ad assistere la prole (lettera b).
5.- Un ulteriore passo in avanti – e si giunge cosi’ al punto che
qui particolarmente interessa – era compiuto dalla legge 8 marzo
2001, n. 40, intitolata specificamente «Misure alternative alla
detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori».
A fianco di altri interventi – tra cui l’ampliamento del rinvio
dell’esecuzione della pena, che, nella sua forma facoltativa,
giungeva fino ai tre anni di eta’ del bambino (soglia massima
consentita per la permanenza in carcere con la madre detenuta: cio’,
nell’ottica di limitare quanto piu’ possibile il fenomeno della
"carcerizzazione degli infanti"), e la previsione della possibilita’
di ammettere le condannate alla cura e all’assistenza all’esterno dei
figli infradecenni (art. 21-bis della legge n. 354 del 1975) – la
novella introduceva la misura della detenzione domiciliare speciale
(art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975).
Come si desume dall’incipit della norma («Quando non ricorrono le
condizioni di cui all’articolo 47-ter»), detto istituto assume natura
"sussidiaria" e "complementare" rispetto alla detenzione domiciliare
"ordinaria" (e segnatamente a quella prevista dal comma 1, lettere a
e b, del citato art. 47-ter), trovando applicazione in assenza dei
presupposti che legittimano il ricorso a quest’ultima: laddove il
riferimento e’ soprattutto all’ipotesi in cui la pena detentiva da
scontare superi il limite dei quattro anni di reclusione.
In tale evenienza, le condannate con prole di eta’ non superiore
a dieci anni possono essere comunque ammesse ad espiare la pena
«nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero
in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere
alla cura e alla assistenza dei figli», a condizione che abbiano gia’
espiato almeno un terzo della pena o almeno quindici anni, nel caso
di condanna all’ergastolo (comma 1 dell’art. 47-quinquies). In
aggiunta a cio’, occorre che vi sia «la possibilita’ di ripristinare
la convivenza con i figli» e che non sussista «un concreto pericolo
di commissione di ulteriori delitti»: condizione, quest’ultima, non
esplicitamente enunciata in rapporto alla detenzione domiciliare
ordinaria. Come rilevato da questa Corte, «il senso dell’estensione
si rinviene nel rilievo preminente dell’interesse dei bambini, che
non devono essere eccessivamente penalizzati dalla differenza di
situazione delle rispettive madri in riferimento alla gravita’ dei
reati commessi ed alla quantita’ di pena gia’ espiata» (sentenza n.
177 del 2009).
Analogamente a quanto avviene per detenzione domiciliare
ordinaria, e’ inoltre previsto che, se la madre e’ deceduta o versa
in condizioni tali da renderle assolutamente impossibile provvedere
alla cura dei figli, e non vi e’ modo di affidare la prole ad altri
che al padre, la misura in esame puo’ essere concessa anche al padre
detenuto (comma 7 dell’art. 47-quinquies).
6.- L’ultima tappa dell’evoluzione normativa in esame e’
costituita dalla legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di
procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre
disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli
minori).
Unitamente, anche qui, ad altri interventi – tra cui la
previsione del diritto della madre (o eventualmente del padre) di
visitare all’esterno del carcere il figlio minore infermo (art.
21-ter della legge n. 354 del 1975) – la nuova legge ha aggiunto
all’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975 il comma 1-bis,
stabilendo che l’espiazione della quota di pena richiesta per la
fruizione della detenzione domiciliare speciale possa avvenire
«presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero,
se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori
delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di
privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al
fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli». Qualora,
poi, sia impossibile l’esecuzione nella propria abitazione o in altro
luogo di privata dimora, la quota di pena «puo’ essere espiata nelle
case famiglia protette, ove istituite».
In questo modo, dunque, la madre di prole di eta’ non superiore a
dieci anni, condannata a pena detentiva di lunga durata – o anche
all’ergastolo – puo’ essere ammessa ad espiare la frazione iniziale
di detta pena in speciali strutture (gli «istituti a custodia
attenuata per detenute madri»), dotati di sistemi di sicurezza "non
invasivi", comunque non riconoscibili dai bambini, cosi’ da ricreare
un’atmosfera prossima a un normale ambiente familiare; o addirittura,
se non vi e’ pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga,
puo’ evitare sin dall’inizio l’ingresso in carcere.
7.- Venendo, con cio’, all’odierno thema decidendum, va anzitutto
escluso – in accordo con il rimettente – che la norma censurata si
presti ad una interpretazione costituzionalmente orientata, in base
alla quale la detenzione domiciliare speciale – proprio in ragione
della peculiarita’ della sua ratio – resterebbe gia’ adesso estranea
alla sfera applicativa del divieto in discussione.
Una simile lettura si porrebbe in oggettivo e insuperabile
contrasto non solo con l’inequivoca lettera della legge, ma anche con
convergenti indici di ordine sistematico.
La detenzione domiciliare speciale rientra, infatti, tra le
misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI del Titolo I
della legge n. 354 del 1975, cui il regime restrittivo e’
testualmente riferito (con la sola eccezione della liberazione
anticipata).
Al riguardo, non gioverebbe obiettare che la misura in questione
e’ stata introdotta dalla legge n. 40 del 2001 e che, quindi –
sebbene inserita ratione materiae nella suddetta partizione normativa
– essa esula dal novero delle misure avute di mira dal legislatore
allorche’, dieci anni prima, aveva varato il regime censurato. A
prescindere da ogni altro rilievo, tale obiezione e’ superata dal
fatto che il comma 1 dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 e’
stato integralmente riscritto dapprima dalla legge 23 dicembre 2002,
n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio
1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario) e, quindi, dal
gia’ citato d.l. n. 38 del 2011, entrambi successivi alla legge n. 40
del 2001. E’ evidente, dunque, che se il legislatore avesse voluto
realmente affrancare dalla disciplina preclusiva la detenzione
domiciliare speciale – gia’ presente nel sistema a quelle date – non
avrebbe potuto fare a meno di indicarlo nei nuovi testi.
A riprova di cio’, sta anche la circostanza che quando il
legislatore ha inteso sottrarre al divieto misure alternative alla
detenzione ulteriori rispetto alla liberazione anticipata, lo ha
sancito in modo esplicito. Cio’ e’ avvenuto, in specie, con
riferimento alla detenzione domiciliare dei soggetti affetti da AIDS
conclamata o da grave deficienza immunitaria (art. 47-quater, comma
9, della legge n. 354 del 1975): misura introdotta anch’essa in epoca
successiva al varo dell’originario regime dell’art. 4-bis.
A sostegno dell’ipotizzata interpretazione "adeguatrice" non
varrebbe neppure far leva sull’espresso richiamo all’art. 4-bis che
compare nel comma 1-bis dell’art. 47-quinquies (aggiunto, come detto,
dalla legge n. 62 del 2011). Tale ultima disposizione nega, in
effetti, alle condannate per taluno dei delitti indicati nell’art.
4-bis la possibilita’ di espiare presso un istituto a custodia
attenuata per detenute madri, ovvero in forma extracarceraria, la
quota di pena richiesta per l’accesso alla detenzione domiciliare
speciale.
Da cio’ non puo’, tuttavia, desumersi – con argumentum a
contrario – che, in assenza di analogo richiamo, l’art. 4-bis non si
applicherebbe alla concessione della detenzione domiciliare speciale,
disposta ai sensi del comma 1 dello stesso art. 47-quinquies. Come
rilevato, infatti, anche dalla giurisprudenza di legittimita’ (Corte
di cassazione, sezione I, 26 novembre 2003-9 dicembre 2013, n.
49366), nel comma 1-bis il richiamo in questione svolge una funzione
autonoma e ulteriormente limitativa: esso impedisce, cioe’, in
assoluto alle condannate per i delitti di cui all’art. 4-bis di
espiare la frazione iniziale di pena con modalita’ "agevolate", anche
quando si fosse verificata la condizione che rimuove la preclusione
all’accesso ai benefici penitenziari (nella specie, la collaborazione
con la giustizia). Per incidens, va segnalato che tale autonoma
limitazione – stabilita da una norma distinta da quella censurata –
resta estranea all’odierno scrutinio di legittimita’ costituzionale,
il quale verte sul solo divieto di concessione della detenzione
domiciliare speciale dopo l’espiazione della quota preliminare di
pena: istanza sulla quale il Tribunale rimettente si trova, in
concreto, chiamato a decidere.
Quale notazione finale sul punto, si deve rilevare come la
conclusione dianzi prospettata corrisponda pienamente al "diritto
vivente": registrandosi, allo stato, una generale convergenza di
opinioni, tanto in giurisprudenza che in dottrina, riguardo al fatto
che la detenzione domiciliare speciale ricada anch’essa nel perimetro
di operativita’ della norma censurata.
8.- Scendendo, quindi, all’esame del merito delle censure, non
puo’ essere condiviso, nella sua assolutezza, l’assunto del giudice
rimettente, secondo il quale la detenzione domiciliare speciale
prescinderebbe «da qualsiasi contenuto rieducativo o trattamentale».
Come rilevato tanto da questa Corte (sentenza n. 177 del 2009) che
dalla giurisprudenza di legittimita’ (Corte di cassazione, sezione I,
7 marzo 2013-19 settembre 2013, n. 38731; Corte di cassazione,
sezione I, 20 ottobre 2006-14 dicembre 2006, n. 40736), la misura in
questione partecipa, in realta’, anch’essa della finalita’ di
reinserimento sociale del condannato, costituente l’obiettivo comune
di tutte le misure alternative alla detenzione: il che e’ comprovato
tanto dal requisito negativo di fruibilita’, rappresentato dalla
insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti,
quanto dalla disciplina delle modalita’ di svolgimento della misura e
delle ipotesi di revoca (art. 47-quinquies, commi 3 e seguenti, e
47-sexies della legge n. 354 del 1975).
Cio’ nondimeno, e’ indubbio che nell’economia dell’istituto
assuma un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto
debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di
protezione, quale quello del minore in tenera eta’ ad instaurare un
rapporto quanto piu’ possibile "normale" con la madre (o,
eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo.
Interesse che – oltre a chiamare in gioco l’art. 3 Cost., in rapporto
all’esigenza di un trattamento differenziato – evoca gli ulteriori
parametri costituzionali richiamati dal rimettente (tutela della
famiglia, diritto-dovere di educazione dei figli, protezione
dell’infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.).
Pronunciando su una questione strutturalmente diversa da quella
in esame, ma che vedeva anch’essa contrapposta la pretesa punitiva
statale all’esigenza di tutela del minore, questa Corte ha gia’ avuto
modo di porre in evidenza la speciale rilevanza dell’«interesse del
figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria
famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con
ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura,
educazione ed istruzione»: «interesse complesso, articolato in
diverse situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e
tutela sia nell’ordinamento internazionale sia in quello interno»
(sentenza n. 31 del 2012; in senso analogo, sentenza n. 7 del 2013).
A fianco dei richiamati imperativi costituzionali – tra cui,
anzitutto, quello che demanda alla Repubblica di proteggere
l’infanzia, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31,
secondo comma, Cost.) – vengono in particolare considerazione, sul
piano internazionale, le previsioni dell’art. 3, primo comma, della
Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27
maggio 1991, n. 176, e dell’art. 24, secondo comma, della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000,
adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. Entrambe le disposizioni
qualificano, infatti, come «superiore» l’interesse del minore,
stabilendo che in tutte le decisioni relative ai minori, adottate da
autorita’ pubbliche o istituzioni private, detto interesse deve
essere considerato «preminente»: precetto che assume evidentemente
una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse del
bambino in tenera eta’ a godere dell’affetto e delle cure materne.
9.- Assoggettando anche la detenzione domiciliare speciale al
regime "di rigore" sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n.
354 del 1975 il legislatore ha, dunque, accomunato fattispecie tra
loro profondamente diversificate.
Tale omologazione di trattamento appare senz’altro lesiva dei
parametri costituzionali evocati ove si guardi alla ratio storica
primaria del regime in questione, rappresentata dalla incentivazione
alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalita’
organizzata. Un conto, infatti, e’ che tale strategia venga
perseguita tramite l’introduzione di uno sbarramento alla fruizione
di benefici penitenziari costruiti – com’e’ di norma – unicamente in
chiave di progresso trattamentale del condannato, sbarramento
rimuovibile tramite la condotta collaborativa; altro conto e’ che la
preclusione investa una misura finalizzata in modo preminente alla
tutela dell’interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso, di
particolarissimo rilievo, quale quello del minore in tenera eta’ a
fruire delle condizioni per un migliore e piu’ equilibrato sviluppo
fisio-psichico. In questo modo, il "costo" della strategia di lotta
al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo, estraneo
tanto alle attivita’ delittuose che hanno dato luogo alla condanna,
quanto alla scelta del condannato di non collaborare.
La conclusione non muta, peraltro, neppure se si guarda all’altra
e concorrente ratio del regime considerato, scrutinata in precedenza
con esito positivo da questa Corte e legata piu’ direttamente alla
funzione rieducativa della pena. La subordinazione dell’accesso alle
misure alternative ad un indice legale del "ravvedimento" del
condannato – la condotta collaborativa, in quanto espressiva della
rottura del "nesso" tra il soggetto e la criminalita’ organizzata
(nesso, peraltro, a sua volta presuntivamente desunto dal tipo di
reato che fonda il titolo detentivo) – puo’ risultare giustificabile
quando si discuta di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la
risocializzazione dell’autore della condotta illecita. Cessa, invece,
di esserlo quando al centro della tutela si collochi un interesse
"esterno" ed eterogeneo, del genere di quello che al presente viene
in rilievo.
E’ ben vero che nemmeno l’interesse del minore a fruire in modo
continuativo dell’affetto e delle cure materne, malgrado il suo
elevato rango, forma oggetto di protezione assoluta, tale da
sottrarlo ad ogni possibile bilanciamento con esigenze contrapposte,
pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale,
sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in
seguito alla commissione di un reato. Come gia’ rilevato da questa
Corte (sentenza n. 177 del 2009), proprio ad una simile logica di
bilanciamento risponde, in effetti, la disciplina delle condizioni di
accesso alla detenzione domiciliare speciale stabilite dall’art.
47-quinquies, comma 1, della legge n. 354 del 1975: condizioni tra le
quali figura anche quella, piu’ volte ricordata, della insussistenza
di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte
della condannata.
Ma affinche’ l’interesse del minore possa restare recessivo di
fronte alle esigenze di protezione della societa’ dal crimine occorre
che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga
verificata, per l’appunto, in concreto – cosi’ come richiede la
citata disposizione – e non gia’ collegata ad indici presuntivi –
quali quelli prefigurati dalla norma censurata – che precludono al
giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni.
10.- L’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 va
dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in
cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari,
da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale
prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge.
La dichiarazione di illegittimita’ costituzionale va estesa, in
via consequenziale, anche alla misura della detenzione domiciliare
ordinaria prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della
legge n. 354 del 1975: cio’, per evitare che una misura avente
finalita’ identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma
riservata a soggetti che debbono espiare pene meno elevate, resti
irragionevolmente soggetta ad un trattamento deteriore in parte qua.
In tale ipotesi, la concessione della misura rimane comunque
subordinata alla verifica della insussistenza di un concreto pericolo
di commissione di ulteriori delitti: condizione, come detto, non
enunciata in modo esplicito dal citato art. 47-ter, ma che deve
comunque ricorrere, secondo la giurisprudenza, stante l’evidenziata
ratio comune delle misure alternative alla detenzione (sentenza n.
177 del 2009).
Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’art.
4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dal
divieto di concessione dei benefici penitenziari la misura della
detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a)
e b), della medesima legge, ferma restando la condizione
dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di
ulteriori delitti.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 4-bis,
comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della liberta’), nella parte in cui non esclude dal divieto di
concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura
della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies
della medesima legge;
2) dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo
1953, n. 87, l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 4-bis, comma
1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non esclude dal
divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito,
la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter,
comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la
condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione
di ulteriori delitti.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2014.

F.to:
Giuseppe TESAURO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2014.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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