Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-03-2012, n. 4537 CE Formazione professionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p.1. Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha proposto ricorso per cassazione contro R.A. avverso la sentenza del 2 marzo 2010, con la quale la Corte d’Appello di Genova, provvedendo sull’appello della R. ha riformato la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Genova, che aveva rigettato la domanda dalla medesima proposta contro il Ministero e l’Università degli Studi di Pavia per ottenere, in relazione alla frequenza del corso di specializzazione in ortopedia presso l’Università a decorrere dall’anno accademico 1991-1992, la corresponsione di un compenso – parametrato a quanto previsto dal D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 8 e in subordine dalla L. n. 370 del 1999, art. 11 – in ragione dell’inadempimento statuale alle direttive comunitarie CEE 75/362/CEE e 82/76/CEE. p.2. La sentenza d’appello ha, invece, riconosciuto fondata la domanda soltanto nei confronti del Ministero limitatamente agli anni 1991-1992, 1992-1993 e 1993-1994 alla stregua della qualificazione indicata da Cass. sez. un. n. 9147 del 2009 e lo ha fatto commisurando il dovuto a quanto previsto dal D.Lgs. n. 257 del 1991. p.2. Al ricorso, che prospetta tre motivi, ha resistito con controricorso la R.. p.3. In vista dell’udienza pubblica la R. ha depositato memoria.

Motivi della decisione

p.1. Preliminarmente si rileva che l’omessa notificazione del ricorso all’Università è irrilevante, in quanto il tenore dei motivi di ricorso, nessuno dei quali si rivolgeva contro di essa, qualificava la posizione della medesima alla stregua dell’art. 332 c.p.c..

Essendo ormai preclusa l’impugnazione in confronto di essa anche da parte della resistente, non è necessario più provvedere ai sensi di detta norma. p.2. Il primo motivo di ricorso deduce "violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. Violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, discendente dall’emanazione di una pronuncia diversa da quella chiesta dalla parte in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1".

Vi si sostiene che la Corte sarebbe incorsa in ultrapetizione nell’accogliere la domanda alla stregua della qualificazione della vicenda operata da Cass. sez. un. n. 9147 del 2009, in quanto la R. non aveva mai chiesto il riconoscimento di un risarcimento, bensì di una remunerazione previa disapplicazione del limite stabilito dal D.Lgs. n. 257 del 1991 o subordinatamente di quello della L. n. 370 del 1999, nonchè, in ulteriore subordine di un indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c.. p.2.1. Il motivo è manifestamente infondato alla stregua dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, come interpretato da Cass. sez. un. n. 19051 del 2010: la stessa Cass. sez. un. n. 9147 del 2009 nel punto 3 della motivazione ebbe a disattendere un motivo che prospettava questione identica ritenendo che l’operazione di esatta individuazione della qualificazione della domanda dello specializzando nei termini in cui l’ha fatta la sentenza impugnata non impinge nella violazione dell’art. 112 c.p.c., trattandosi di mera operazione di individuazione della esatta disciplina in iure applicabile ai fatti oggetto della domanda e non di inammissibile mutamento della domanda, perchè i fatti restano sempre immutati. E la giurisprudenza di questa Corte (a partire dalle sentenze gemelle n. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011) lo ha più volte ribadito di fronte a motivi di ricorso identici a quello qui proposto dalla difesa erariale. La Corte territoriale ha anzi espressamente invocato a giustificazione della qualificazione data all’azione proprio l’insegnamento delle Sezioni Unite, del quale, quindi, il ricorrente si sarebbe anche dovuto fare carico. p.3. Il secondo motivo deduce "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2948 c.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3".

Vi si deduce che la Corte territoriale erroneamente non avrebbe considerato prescritto il diritto fatto valere dalla R., che sarebbe stato soggetto alla prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c.. Inoltre, vi si deduce che anche applicando il termine di prescrizione decennale sulla base della qualificazione della domanda fatta dalla Corte territoriale, esso sarebbe decorso all’atto della domanda introduttiva del giudizio, proposta nel 2003, atteso che l’inizio del suo decorso doveva principiare dall’inizio del corso di specializzazione, cioè dal 1991. p.3.1. Il motivo è infondato alla luce di quanto statuito da questa Corte a partire dalle sentenze (sostanzialmente gemelle) nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011 e, quindi, ribadito più volte successivamente.

In particolare, questa Corte con la sentenza n. 25993 del 2011 ed anche con quella di poco anteriore n. 24816 del 2011, a precisazione del principio affermato da dette sentenze (che si riferiva agli specializzandi che, avendo frequentato i corsi di specializzazione successivamente al 1 gennaio 1983 e in anni fino all’anno accademico 1990-1991, non potevano vedere la loro situazione disciplinata dal D.Lgs. n. 257 del 1991), ha chiarito che, trovando applicazione le disposizione di tale D.Lgs. a decorrere dall’anno accademico 1991-92 e potendo applicarsi, dunque, soltanto agli specializzandi che avessero iniziato il corso di specializzazione a decorrere dall’anno accademico de quo e non anche, sia pure per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs., a coloro che avessero iniziato la specializzazione prima di quell’anno accademico e non l’avessero ancora terminata, ne seguiva che la situazione di costoro rimase priva di disciplina statuale attuativa del diritto comunitario non diversamente da quella degli specializzandi che avevano frequentato corsi terminati nell’anno accademico 1990-1991.

Le citate sentenze hanno, quindi, espresso il principio di diritto che viene in rilievo riguardo all’annosa vicenda degli specializzando in questi termini, comprensivi anche del caso degli specializzandi cd. "a cavallo", cioè che, avendo iniziato la specializzazione prima dell’intervento del D.Lgs. n. 257 del 1991, l’avessero terminata quando esso era già entrato in vigore.

Il principio di diritto che così si è statuito è il seguente; "il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto a favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che se detta direttiva fosse stata adempiuta avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, art. 11".

L’applicazione di tale principio di diritto alla situazione della R., che iniziò il corso di specializzazione nell’anno accademico 1991-1992, a questo punto comporta la palese infondatezza del motivo. p.3.2. Tuttavia, a questo punto il Collegio deve farsi carico d’ufficio, trattandosi di quaestio iuris il cui esame non comporta accertamenti di fatto e che non è (e non può essere) preclusa da alcun giudicato interno, di una sopravvenienza normativa rispetto alla proposizione del ricorso e valutare se essa incida sulla validità del principio di diritto in quanto applicabile alle vicende oggetto della controversia.

La questione, peraltro, è stata anche posta nella discussione orale dalla difesa erariale.

Con la L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 43, (Legge di stabilità 2012, ex legge finanziaria), approvata in via definitiva dal Parlamento il 12 novembre 2011 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale 14 novembre 2011, n. 265, infatti, è stato disposto che "La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all’art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato".

Ai sensi dell’art. 36 della stessa legge la norma è entrata in vigore il 1 gennaio 2012.

In sentenze pubblicate successivamente alla pubblicazione della legge e, quindi, all’entrata nell’ordinamento come mera disposizione della norma, questa Sezione ha ritenuto implicitamente inopportuno darsi carico della sopravvenienza – previa riconvocazione dei Collegi – proprio perchè essa non era vigente.

Sopravvenuta la sua vigenza occorre ora farsene carico. p.3.2.1. Il Collegio ritiene che essa, operando solo per l’avvenire, secondo il criterio generale fissato dall’art. 12 preleggi, e, quindi potendo spiegare la sua efficacia rispetto ai fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore, risulta irrilevante nel presente giudizio, come nei giudizi similari. Infatti, essendo il suo oggetto di disciplina la regolamentazione della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, derivante da mancato recepimento di normative comunitarie cogenti e dal verificarsi in capo ad un soggetto di un fatto che, se fosse stata attuata la direttiva, avrebbe dato al soggetto il diritto da essa previsto, la norma potrà disciplinare soltanto la prescrizione di diritti di tal genere insorti successivamente alla sua entrata in vigore e, quindi, derivanti da fattispecie di mancato recepimento verificatesi dopo di essa e non da fattispecie di mancato recepimento verificatesi anteriormente. Con la conseguenza che non può regolare in via sopravvenuta il diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento, oggetto del presente giudizio, posto che esso concerne un mancato recepimento verifica tosi ben prima.

Non v’è alcuna espressione nella norma, d’altro canto, che consenta di ritenere che l’oggetto di disciplina riguardi anche termini di prescrizione di diritti del genere indicato già sorti ed ancora non consumati, o per mancata decorrenza del termine di prescrizione originario o, nel caso di interruzione di esso o di quelli successivi, per pendenza di un termine successivo, nonchè termini di prescrizione non consumati alla stregua della disciplina applicabile precedentemente (come nella fattispecie) e che, invece, risulterebbero consumati alla stregua della nuova.

Sotto il primo aspetto la norma non reca alcun indice che evidenzi la sua direzione alla disciplina dei termini di prescrizione originali successivi ancora in corso, perchè la norma avrebbe dovuto disporre – se del caso in aggiunta alla sua previsione, che è diretta ad individuare la prescrizione e, quindi, il decorso del tempo dalla nascita – riguardo ai termini di prescrizione pendenti ed all’uopo avrebbe dovuto contenere elementi testuali idonei ad evidenziare l’assunzione come oggetto di disciplina anche di essi.

Sotto il secondo aspetto, che è quello che rileverebbe nel caso in esame, come nelle vicende similari, la disposizione avrebbe dovuto contenere espressioni dirette ad evidenziare il suo carattere espressamente retroattivo oppure auto qualificarsi, expressis verbis o in via indiretta attraverso indici testuali all’uopo idonei, come interpretativa.

Ed in questo caso, si sarebbe, peraltro, posto il problema della costituzionalità di una individuazione della prescrizione applicabile addirittura successiva al decorso del termine di prescrizione originario delle situazioni di cui trattasi, ormai compiutosi il 27 ottobre 2009 secondo il sistema normativo precedente, pur evidenziato all’esito di una complessa vicenda giurisprudenziale (e, peraltro, quoad durata del termine da una pronuncia delle Sezioni Unite risalente ad oltre due anni fa). p.3.2.2. E’ da avvertire che un indice linguistico idoneo ad evidenziare la natura retroattiva o interpretativa (e, quindi, parimenti retroattiva, com’è nella natura della norma effettivamente interpretativa) non può essere ravvisato nell’uso dell’espressione "in ogni caso", perchè essa non è nè idonea ad evidenziare una volontà legislativa derogatoria del principio per cui la legge provvede per l’avvenire, se il legislatore non dispone diversamente, nè tanto meno una volontà interpretativa.

Sotto il primo aspetto l’espressione non partecipa alla funzione di individuare l’oggetto di disciplina della norma quoad tempus, essendo esso definito dall’espressione "La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari". Detta espressione, invece, essendo inserita dopo il verbo che esprime la vis normativa della soggezione all’art. 2947 c.c. ed essendo il riferimento a tale soggezione, in ragione del riferimento di essa all’azione di risarcimento del danno da fatto illecito, necessariamente ad una disposizione che ha come oggetto di disciplina un’azione di tale natura, è diretta a suggerire all’interprete che la soggezione ha luogo indipendentemente dalla qualificazione del relativo diritto negli stessi termini. p.3.2.3. Va ancora rimarcato che le situazioni come quelle di cui è processo, riguardo alle quali il diritto è stato già esercitato con l’azione in giudizio, al momento dell’entrata in vigore della legge, non sono situazioni rispetto alle quali il diritto debba essere esercitato, ma situazioni nelle quali il diritto lo è già stato ed essendosi verificato l’effetto interruttivo cd. permanente (scilicet sospensione) del termine prescrizionale risultante dalla legge del momento di introduzione del giudizio, il termine di prescrizione non correva al 1 dicembre 2012 e nemmeno doveva e poteva iniziare, atteso che era interrotto. Onde, sarebbe occorsa un’espressione linguistica idonea a rivelare l’intentio legis di disciplinare anche tali situazioni in via necessariamente retroattiva, cioè sovrapponendo il nuovo termine a quello a suo tempo interrotto dalla domanda giudiziale e risultante dalla disciplina legislativa pregressa.

Per mera completezza ed in ipotesi denegata, se anche sorgesse il dubbio che l’espressione sia polisenso, cioè si presti ad assumere sia questo significato sia quello di implicare la retroattività o il carattere interpretativo della norma, l’interprete dovrebbe concludere a favore della prima opzione, perchè il carattere retroattivo o interpretativo di una norma non tollera ambiguità. p.3.2.4. Va ancora aggiunto, sempre per completezza, un ulteriore rilievo.

Qualora la materia del mutamento da parte del legislatore del termine di prescrizione di un determinato diritto si reputasse soggetta, in assenza di contraria volontà del legislatore, ad un principio generale dell’ordinamento che si volesse ravvisare esistente sulla base dell’art. 12 preleggi, comma 2 e che si individuasse nella norma di diritto transitorio temporibus illis introdotta dal legislatore all’atto dell’entrata in vigore del codice civile, cioè l’art. 252 disp. att. e trans. c.c. (come parrebbero suggerire Corte cost. n. 128 del 1996 e Cass. sez. un. n. 6173 del 2008), le conclusioni raggiunte nel senso dell’ininfluenza della norma sopravvenuta nel presente giudizio non muterebbero.

Infatti, quella norma lasciò immutati i termini di prescrizione in relazione ad atti di esercizio di diritti avvenuti secondo la previgente disciplina e si preoccupò soltanto di somministrare un criterio per gli atti di esercizio di diritti sorti anteriormente all’entrata in vigore del codice ma non ancora esercitati, imponendo che il termine per il loro esercizio, se stabilito in misura più breve rispetto al passato ed eventualmente ancora in corso, decorresse dalle date di entrata in vigore delle varie parti del codice.

Applicando il criterio al caso di specie si avrebbe allora che la nuova norma sarebbe applicabile ad atti di esercizio di diritti come quelli oggetto di causa che avessero determinato l’interruzione del corso della prescrizione nei termini ricostruiti dalla giurisprudenza di questa Corte e che ancora, in situazione di mancato decorso del termine decennale di prescrizione, fossero esercitabili dopo la sua entrata in vigore. In questo caso il termine quinquennale di cui all’art. 2947, comma 1 decorrerebbe dal 1 gennaio 2012.

E’ palese che non si tratta e non si potrebbe trattare delle situazioni oggetto di esercizio in giudizio in fieri, come quelle di cui è processo, riguardo alle quali il termine operante secondo la disciplina anteriore è rimasto sospeso per l’effetto interruttivo permanente determinato dall’esercizio dell’azione giudiziale. p.4. Il terzo motivo denuncia "difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con conseguente violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3".

Vi si deduce, prendendo atto che è già stata riconosciuta la mancanza di legittimazione dell’Università, che dovrebbe escludersi anche quella del Ministero, perchè la legittimazione competerebbe alla Presidenza del Consiglio dei ministri. p.4.1. Il motivo è infondato alla luce del principio di diritto già richiamato a proposito di analogo motivo nella sentenza n. 10814 del 2011.

Il principio è il seguente: "Il limite introdotto, dalla disposizione di cui alla L. 25 marzo 1958, n. 260, art. 4 (recante "Modificazioni alle norme sulla rappresentanza in giudizio dello Stato"), alla rilevanza dell’erronea individuazione dell’autorità amministrativa competente a stare in giudizio (limite in virtù del quale l’errore di identificazione della persona alla quale l’atto introduttivo del giudizio e ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l’atto doveva essere notificato; eccezione dalla cui formulazione discende la rimessione in termini della parte attrice, alla quale il giudice deve assegnare un termine entro il quale l’atto introduttivo deve essere rinnovato), opera non solo con riguardo alla ipotesi di erronea "vocatio in ius", in luogo del Ministro titolare di una determinata branca della P.A., di altra persona preposta ad un ufficio della stessa, ma anche con riferimento alla ipotesi di "vocatio in ius" di un Ministro diverso da quello effettivamente "competente" in relazione alla materia dedotta in giudizio" (Cass. n. 8697 del 2001; in senso conforme Cass. n. 11808 del 2003;

sostanzialmente conformi: Cass. n. 16031 del 2001; n. 1405 del 2003;

n. 4755 del 2003).

Questo orientamento – contraddetto isolatamente da Cass. n. 6917 del 2005 -sembra, infatti, avere ricevuto l’avallo di Cass. sez. un. n. 3117 del 2006, che solo con riferimento alla peculiarità propria della materia delle opposizioni a sanzioni amministrative ha reputato di seguire la tesi più rigorosa.

Ora, nel caso di specie l’Avvocatura dello Stato, quale patrocinatore del Ministero convenuto, avrebbe potuto richiedere l’applicazione della norma della L. n. 260 del 1958, art. 4, mentre, invece, ha ritenuto di prospettare una vera e propria questione di legittimazione sostanziale che non ha alcun fondamento alla stregua del principio di diritto sopra ricordato. p.5. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato. p.6. Ricorrono giusti motivi per la compensazione delle spese, atteso che la giurisprudenza inaugurata dalle sentenze gemelle, che ha consentito di risolvere le questioni poste dal secondo e dal terzo motivo di ricorso, hanno trovato definizione nella giurisprudenza della Corte solo dopo la proposizione del ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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