Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-03-2012, n. 4692

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

R.C. esponeva al Tribunale del lavoro di Lecce di essere stato agente della SS1 Healthcare Italia spa dal 18.8.1988 sino alla data della revoca del mandato agente di commercio del 31.12.1997.

Lamentava il mancato riconoscimento dell’indennità di incasso, la non corretta liquidazione dell’indennità sostitutiva del preavviso e deduceva che l’indennità di cessazione del rapporto andava commisurata all’effettivo incremento di affari procurato all’azienda.

La società convenuta contestava la fondatezza del ricorso.

Il Tribunale di Lecce con sentenza del 16.2.2006, previo espletamento di una CTU, accolta l’eccezione di prescrizione quinquennale, condannava la società al pagamento in favore di controparte della somma di cui alla sentenza per compensi inerenti all’incasso, mentre rigettava le altre domande avendo il CTU accertato il regolare pagamento dell’indennità di preavviso e di quelle di clientela e del FIRR e non avendo il ricorrente dimostrato di aver propiziato affari poi conclusi in seguito dalla proponente.

Sull’appello del R. e sull’appello incidentale della società, la Corte di appello di Lecce con sentenza dell’8-10-2008 li rigettava entrambi.

Circa la domanda concernente gli incassi la Corte osservava che l’attività svolta dal R. era avvenuta al di fuori di accordi tra le parti e che conseguentemente il compenso era rimborsabile solo in via equitativa nella misura già accertata dal CTU. Circa la domanda sulla indennità di fine rapporto non poteva dirsi che vi fosse stato un incremento di affari e la creazione di nuova clientela.

Ricorre il R. con due motivi; resiste con controrirorso controparte che con ricorso incidentale ha chiesto la cassazione dell’impugnata sentenza con tre motivi.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso principale si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c. in combinato con l’art. 2041 c.c.; la violazione dell’art. 112 c.p.c. ed il vizio di motivazione:

la prescrizione non era mai stata eccepita ex art. 2041 c.c., ed inoltre si tratta di prescrizione decennale.

Il motivo appare inammissibile in quanto a ben leggere la motivazione adottata nella sentenza impugnata sul punto si è ritenuto di arrivare ad una valutazione equitativa dell’attività di incasso, che i Giudici di appello hanno osservato essere stato svolta al di fuori di esplicite pattuizioni contrattuali, certamente anche nell’interesse della società, ma anche a vantaggio del ricorrente.

La Corte territoriale ha richiamato quanto accertato dal CTU in ordine alle somme incassate e ha valutato la congruità della somma riconosciuta sulla base degli elementi prima ricordati; la motivazione appare congrua e logicamente coerente e le osservazioni svolte nel motivo appaiono non conferenti in quanto, come già detto, il Giudice ha provveduto ad una liquidazione solo in via equitativa tenuto conto delle particolari modalità con cui l’attività di incasso era stata svolta, non ha tout court recepito l’eccezione di prescrizione sollevata da controparte. L’agente, peraltro, avrebbe dovuto dimostrare rigorosamente un impoverimento ulteriore rispetto a quello liquidato subito per via della condotta datoriale, il che non è avvenuto anche perchè – come ritenuto dai Giudici di merito – attraverso la stessa ha invece realizzato anche un proprio interesse molto concreto nella vicenda.

Con il secondo motivo si deduce una cattiva applicazione ai suoi danni del disposto di cui all’art. 1751 c.c.: l’incremento di attività si era avuta come anche emergeva dalle dichiarazioni di alcuni testi; inoltre il 1751 c.c. è applicabile solo più favorevole agli accordi collettivi che stabiliscono il diritto ad una indennità non subordinata ad un incremento di attività, ma correlata al fatturato.

Il motivo appare inammissibile: in primo luogo il quesito offerto ex art. 366 bis c.p.c. non è idoneo in quanto non offre alcuna correlazione al fatto per cui è processo e non è stato formulata una sintesi riassuntiva in relazione al denunciato vizio di motivazione ex capoverso dello stesso art. 366 bis, prevista a pena di inammissibilità. In ogni caso la Corte di appello ha accertato che non è emerso il preteso incremento di affari e la creazione di nuova clientela, nè la conclusione di affari dopo lo scioglimento del rapporto e pertanto la norma codicistica non appare operante, a prescindere dal confronto con quanto previsto da accordi collettivi che non sono stati neppure prodotti (nè si è indicato l’incarto processuale ove siano reperibili). Sul punto il motivo sviluppa generiche censure di merito con richiami a stralci di deposizioni testimoniali, dirette ad una rivalutazione del fatto, inammissibile in questa sede. In realtà non si pone alcuna genuina questione di diritto, concernente il rapporto tra la disciplina di cui all’art. 1751 c.c. e quanto previsto dall’accordo collettivo, ma si contesta la ricostruzione del fatto offerta dai Giudici di merito, inammissibile in questa sede.

Con il primo motivo dell’appello incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., non c’era stato arricchimento a danno di nessuno: si trattava di una scelta volontaria ed unilaterale del R..

Il motivo è inammissibile in quanto si base su di una allegazione di fatto, non emergente dalla sentenza impugnata e cioè che sia stato il R. unilateralmente a svolgere l’attività di incasso che, invece, la sentenza impugnata descrive come attività obiettivamente realizzata anche nel preciso interesse della società che ha risparmiato costi ed oneri.

Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 2041 c.c.: il R. era cointeressato ed aveva volontariamente posto in essere l’attività di incasso.

Anche tale motivo appare inammissibile posto che la liquidazione equitativa di un compenso aggiuntivo è stata effettuata tenendo conto dei risparmi oggettivi realizzati dal datore di lavoro ed inoltre, come detto supra, non emerge che fu il R. di sua iniziativa a svolgere l’attività di cui si discute ed ad insaputa del datore di lavoro. L’entità liquidata tiene peraltro conto anche dell’interesse del R. che però non annulla quello del datore di lavoro, come si vorrebbe nel motivo, nel quale si richiama giurisprudenza che si riferisce al diverso caso in cui l’attività sia svolta su iniziativa esclusiva del danneggiato ex art. 2041 c.c. e nel suo esclusivo interesse, ipotesi che non ricorrono nella fattispecie.

Con l’ultimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c. in combinato disposto con l’art. 1226 c.c..

L’entità del danno non era stato dimostrato.

Il motivo appare inammissibile in quanto come già detto in precedenza la Corte territoriale ha in sostanza effettuato una valutazione equitativa del dovuto in relazione all’attività ulteriore di incasso tenuto conto dell’entità degli incassi in concreto effettuati come da CTU ed anche dell’interesse concorrente delle parti. La motivazione appare congrua e logicamente coerente e le censure sono di mero fatto e del tutto generiche. Peraltro sollevano una questione di diritto non pertinente perchè nella fattispecie una indagine sulla sussistenza del danno è stata effettuata e si è provveduto ad una liquidazione in via equitativa sulla base di elementi oggettivi e emergenti dagli atti, ricostruiti con motivazione persuasiva e logicamente coerente.

Pertanto si devono riunire i ricorsi, che vanno dichiarati entrambi inammissibili. Stante la reciproca soccombenza vanno compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte:

Riunisce i ricorsi che dichiara entrambi inammissibili.

Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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