Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 05-07-2011) 13-10-2011, n. 36897 Aggravanti comuni abuso di autorità o di relazioni domestiche, di ufficio, di prestazione d’opera, coabitazione, ospitalità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 22.2.2010, il Tribunale di Marsala dichiarò A. G. e Ar.Gi. responsabili dei reati di cui agli artt. 110 e 648 c.p. e art. 61 c.p., n. 11, per essersi appropriati di oggetti e suppellettili appartenenti alla famiglia Av., costituenti corredo e mobilio della villa di proprietà della stessa sita in (OMISSIS), beni di cui avevano la disponibilità in quanto conduttori, e li condannò alla pena di mesi otto di reclusione ed Euro 400,00 di multa, ciascuno.

Avverso tale pronunzia proposero gravame gli imputati, e la Corte d’Appello di Palermo, con sentenza del 18.1.2010, confermava la decisione di primo grado.

Ricorre per cassazione il difensore degli imputati, deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per errata applicazione della legge penale, in relazione all’art. 61 c.p., n. 11, in quanto l’ambito di operatività della prestazione d’opera deve essere necessariamente limitato a quelle situazioni che si risolvono in una prestazione di servizio e non, come nella fattispecie, nella mera locazione di un bene. Il rapporto di fiducia avrebbe dovuto sussistere tra i conduttori ed il proprietario – locatore, che non è il denunciante Av.Vi., bensì Av.Ro., la quale, pur essendo proprietaria dell’immobile, non ha redatto e sottoscritto alcun contratto, nè ha sporto alcuna querela; 2) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in relazione a tutte le doglianze sollevate nell’atto d’appello, e in particolare alla mancata proposizione di querela da parte del soggetto legittimato, all’inattendibilità del denunciante, e al diniego opposto alla concessione delle circostanze generiche.

Chiede pertanto l’annullamento della sentenza.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Afferma il ricorrente che i giudici di merito hanno erroneamente applicato la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, in quanto l’ambito di operatività della prestazione d’opera, pur intesa in ambito più ampio di quello civilistico, deve essere necessariamente limitato a quelle situazioni che si risolvono in una prestazione di servizio e non, come nella fattispecie, nella locazione di un bene.

Rammenta, a riguardo, il Collegio che, secondo il costante orientamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, agli effetti dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, nel reato di appropriazione indebita, la relazione di prestazione d’opera corrisponde ad un concetto ben più ampio di quello di locazione d’opera a norma della legge civile, e comprende quindi ogni specie di attività, materiale o intellettuale, e qualsiasi rapporto, anche di mero fatto, da cui sia comunque derivato, in capo all’agente, il possesso della cosa e che ne abbia consentito una più facile appropriazione, in virtù della particolare fiducia in lui riposta (v. da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. n. 5257/2005 Rv. 233572; Sez. 2 sent. n. 3924/2004, Riv. 227503). Tanto premesso, rileva il Collegio, che nel caso di specie è ben ravvisabile l’esistenza di un obbligo di "facere" implicante un rapporto di fiducia, in quanto oggetto del negozio giuridico relativo alla concessione dell’uso dei beni, contenuti nell’immobile locato, è proprio l’obbligo di conservazione e quindi di restituzione dei medesimi alla scadenza del contratto;

non vi è dubbio, poi, così come osservato dalla stessa Corte di Appello, che l’appropriazione indebita sia stata la conseguenza della rottura del patto di fiducia, in virtù del quale Av.Vi. aveva consegnato ai ricorrenti l’immobile locato, con tutti i mobili e suppellettili in esso contenuti, e che lo stesso rapporto locativo abbia reso possibile ed agevolato la commissione del reato in questione.

La giurisprudenza, citata dai ricorrenti, è poi del tutto inconferente, e non si applica nella fattispecie, ben diversa da quella oggetto di esame nella sentenza citata (Cass. Sez. 2, sent. n. 6947/2010); a riguardo, è sufficiente, rilevare che questa Corte ha ritenuto non configurabile l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11, nell’ipotesi di appropriazione indebita di un bene detenuto in locazione finanziaria, in considerazione della peculiarità del contratto medesimo, non essendo – in tale diversa ipotesi – ravvisabile l’esistenza di un obbligo di "facere", implicante un rapporto di fiducia che agevoli la commissione del reato.

A ciò aggiungasi che è del tutto irrilevante, anche ai fini dell’identificazione del soggetto passivo del reato (e quindi del titolare del diritto di querela), che uno dei protagonisti del rapporto fiduciario, attraverso la rottura del quale si è consumata l’appropriazione, sia Av.Vi. e che lo stesso non sia il proprietario dell’immobile locato e dei mobili nello stesso contenuti. E’ pacifico, infatti, che il contratto di locazione sia stato stipulato dai fratelli Ar. con Av.Gi., e che lo stesso, persona diversa dal proprietario dell’immobile, ha eseguito, in modo legittimo, autonomo e indipendente, la consegna dei mobili e delle suppellettili in esso contenuto. Appare, quindi, evidente che l’abuso del rapporto fiduciario si è verificato precisamente in danno di Av.Gi., e che proprio a lui andava quindi restituita la mobilia, all’esito della scadenza o risoluzione del contratto di locazione dell’immobile.

La legittimazione attiva a proporre querela, in tema di appropriazione indebita, non presuppone, infatti, l’accertamento della "dominica potestas" sulle cose locate di cui si denuncia l’altrui impossessamento, essendo sufficiente a tal fine un mero diritto di godimento delle cose mobili consegnate (cfr. Cass. Sez. 2, sent. n. 26805/2009 Rv. 244713; Sez. 2, sent. n. 27595/2007 Rv.

238896).

2. Il secondo motivo è generico e consiste in una mera reiterazione dei motivi dell’atto d’appello, ai quali – contrariamente a quanto sostenuto in ricorso – la Corte ha risposto con motivazione congrua ed esente a vizi logici, evidenziando, in particolare, le ragioni per le quali Av.Vi. era parte offesa del reato, legittimata a proporre querela, nonchè i motivi che facevano ritenere le dichiarazioni accusatorie del medesimo, intrinsecamente attendibili.

Per quanto riguarda, infine, le attenuanti generiche, va osservato che la concessione delle attenuanti generiche risponde a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. La Corte ha motivato il diniego delle attenuanti, in relazione ai plurimi e gravi precedenti da cui gli stessi sono gravati; trattasi di considerazioni ampiamente giustificative del diniego, che le censure del ricorrente non valgono minimamente a scalfire.

Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va dichiarato inammissibile, e gli imputati che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro mille ciascuno alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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