Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 05-07-2011) 13-10-2011, n. 36893

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 31.5.2007, il Tribunale di Napoli dichiarò P.M. responsabile dei reati di cui all’art. 61 c.p., n. 11 e art. 646 c.p., e – concesse le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante – lo condannò alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 300,00 di multa.

Avverso tale pronunzia propose gravame l’imputato, e la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 21.10.2010, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione, e confermava le statuizioni in favore della parte civile.

Ricorre per cassazione l’imputato, deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) per errata interpretazione della legge penale in riferimento all’art. 129 c.p.p. per mancata assoluzione per insussistenza del fatto, mancanza e manifesta illogicità della motivazione, e travisamento sul fatto in relazione alla data di scadenza dell’assegno ricevuto dal D.S.. Al momento del fatto, il P. era creditore nei confronti della Simesfaip di ben 37.000,00, così come indicato dal consulente della difesa, circostanza che non è stata valutata, mentre la stessa dipendente della Simpesfaip – pur aggiungendo che si sarebbe dovuto verificare se, in base alla clausola dello star del credere, la società avesse effettivamente incassato dai clienti presentati dal P. le somme a lei spettanti – ha ammesso che, in tal caso, il P. avrebbe avuto diritto alla somma di Euro 17.000,00. Il difensore aveva poi indicato, nell’atto di appello, che il P. non avrebbe potuto consegnare alla Simpesfaip la somma richiesta nell’anno 2000 e nell’anno 2001, dal momento che l’assegno consegnatogli dal D.S. recava la scadenza del 2002; la Corte d’appello, travisando tale dato, ha ritenuto che senza ombra di dubbio la data è quella del 2000, "mentre così non è, a vista, in quanto risulta per l’appunto l’anno 2002, anche se forse il numero 2 finale è stato sovrapposto ad uno zero ma tanto non è stato compiuto dal P. bensì dal D.S., al momento della consegna, trattenendo per sè la fotocopia dell’assegno, peraltro non completo al momento della consegna, e ha fornito al pm la fotocopia dell’assegno che aveva consegnato al P.";

2) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), per erronea applicazione della legge penale e mancanza ed illogicità della motivazione con riferimento all’erronea individuazione della persona offesa dal reato e, quindi, del soggetto legittimato a proporre querela. Nel caso di specie, è di tutta evidenza che il D.S., cliente sia del P., che aveva una propria ditta, che della SIMPESFAIP, di cui P. era agente, consegnò un assegno di lire 13.000.000 in pagamento di crediti personali del P. (lire 8.358.353) e di crediti della SIMPESFAIP (lire 4.641.647); la somma di lire 4.641.647 non fu effettivamente versata dal ricorrente, il quale ritenne di poterla compensare con i suoi maggiori crediti.

Alla di là del tema giuridico della compensazione, che certamente presuppone un credito certo, liquido ed esigibile, la difesa aveva rappresentato che il P. aveva ricevuto l’assegno in proprio, e non quale agente del D.S., come dimostra il fatto che il contratto espressamente prevedeva che egli, nella sua qualità di agente, non poteva ricevere titoli che non fossero emessi o girati a favore della società. Ne consegue che la SIMPESFAIP non aveva titolo per intimare al P. la consegna della somma a lui pervenuta su incarico del S. ma piuttosto era proprio il D.S. che avrebbe potuto chiedere al P. la restituzione del detto importo, se e quando costui non avesse adempiuto all’incarico a lui affidato. Con la conseguenza che la persona legittimata a proporre querela era il D.S., e non la SIMPESFAIP. Chiede pertanto l’annullamento della sentenza.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto l’erronea applicazione della legge penale in ordine al reato di reato di appropriazione indebita e in riferimento all’art. 129 c.p.p., per mancata assoluzione perchè il fatto non sussiste, nonchè vizio di motivazione in merito alla ritenuta responsabilità per il reato in parola, attesa la illogicità di alcune argomentazioni al riguardo sviluppate con travisamento del fatto in riferimento alla data dell’assegno di lire 13.000.000 consegnato al P. dal D. S.. Le censure in ordine al denunciato vizio di motivazione sono del tutto inammissibili; infatti, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (v. Cass. S.U., sent. n. 35490/2009 Rv. 244275). Parimenti inammissibile la censura relativa all’erronea applicazione della legge penale, in riferimento all’art. 129 c.p.p., in quanto – in presenza di una causa di estinzione del reato – il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (v. Cass. S.U., sent. n. 35490/2009 Rv. 244275). Per quanto riguarda, poi, la dedotta erronea applicazione della norma di cui all’art. 646 c.p., il ricorrente, nella sostanza, ha svolto ragioni che costituiscono una critica del logico apprezzamento delle prove fatto dal giudice di appello con la finalità di ottenere una nuova valutazione delle prove stesse ciò non è consentito in questa sede. Alla Corte di Cassazione è, infatti, normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno; ed invero avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell’intelletto costituente un sistema logico in sè compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sè e per sè considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è geneticamente informata, ancorchè questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (Cass. S.U., n. 12/31.5.2000 Rv. 216260).

Rileva, infine, il Collegio che la Corte d’appello ha affermato, con congrua motivazione, che in base alle risultanze processuali, che hanno determinato il Tribunale ad affermare la responsabilità dell’imputato in ordine al reato di appropriazione indebita, non risulta evidente alcuna causa di proscioglimento nel merito; essendo trascorso il termine massimo di prescrizione, il reato è stato quindi correttamente dichiarato estinto per intervenuta prescrizione.

Ai fini della conferma delle statuizioni civili, ha poi osservato la Corte territoriale che la somma in contestazione fu consegnata al P. con l’intesa di saldare il debito del D.S. nei confronti della società e con l’impegno dell’imputato di effettuare il bonifico in favore della società, e pertanto è del tutto irrilevante la ragione per cui egli ne era venuto in possesso. I crediti vantati dal P. non erano poi liquidi ed esigibili, nè "è stata provata la volontà del P. di trattenere la somma con i suoi vantati crediti per provvigioni, anzi nel settembre 2001, in epoca successiva alle sue dimissioni di agente, l’imputato il 28.9.2001 dichiarava al D.S. di inviare il sospeso della ditta De Simone di L. 4.641.647 tramite bonifico bancario". 2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

Il reato di appropriazione indebita contestato al P. è aggravato dalla circostanza di cui all’art. 61 c.p., n. 11; nel ricorso, non viene dedotto alcun motivo circa la sussistenza dell’aggravante in questione, sicchè – essendo il reato procedibile d’ufficio – è del tutto irrilevante la questione circa la legittimazione o meno della Simpesfaip a proporre querela. E’ poi inammissibile, per gli stessi motivi di cui al punto 1, la censura per vizio di motivazione in ordine alìimprocedibilità dell’azione penale.

Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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