Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 28-06-2011) 13-10-2011, n. 36891

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.A. e G.F. furono tratti a giudizio in quanto imputati del delitto di appropriazione indebita aggravata, perchè in concorso tra loro, abusando del rapporto di prestazione d’opera intercorrente con S.B., essendo avvocati che avevano assistito la predetta in una causa civile di risarcimento danni da incidente stradale nei confronti della Fondiaria Assicurazioni, si appropriavano della somma di lire 247 milioni facenti parte della maggior somma liquidata a seguito di sentenza per complessive lire 807.274.000, versando alla loro assistita solo la somma di lire 560 milioni. Con l’aggravante di aver cagionato alla parte offesa un danno patrimoniale di rilevante entità. In (OMISSIS) nel (OMISSIS).

Con sentenza del 19.2.2007, il Tribunale di Milano dichiarò M. A. e G.F. responsabili del reato di cui agli artt. 110 e 640 c.p., art. 61 c.p., nn.7 e 11, limitatamente alla somma di lire 220 milioni, così riqualificato il fatto, e – concesse le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti – li condannò alla pena di mesi otto di reclusione ed Euro 300,00 di multa ciascuno, oltre al pagamento delle spese e al risarcimento in solido dei danni patrimoniali e morali nei confronti della parte civile S.B., che liquidava nella misura di Euro 125.000,00 oltre rivalutazione e interessi dal 21.5.2001.

Avverso tale pronunzia proposero gravame gli imputati, e la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 12.10.2010, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti degli appellanti per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione, e confermava le statuizioni civili.

Ricorrono per cassazione i difensori dell’imputato M. A., richiedendo – in primo luogo – la sospensione dell’esecuzione della condanna civile ai sensi dell’art. 612 c.p.p., e deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. d) ed e), in relazione all’art. 603 c.p.p. in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in riferimento alla richiesta di acquisizione dei verbali dell’udienza disciplinare svoltasi in data 18.6.2007 dinanzi al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, e in particolare delle dichiarazioni rese dalla S. successivamente alla sentenza di primo grado, con carattere di decisività in quanto incidenti sulla credibilità della parte offesa; 2) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e) in relazione agli artt. 522 e 521 c.p.p., art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) in riferimento alla qualificazione del reato quale truffa aggravata, evidenziando che i giudici di merito hanno ravvisato l’artificio e raggiro in fatti diversi e lontani tra loro nel tempo, il che è frutto della mancata contestazione e della conseguente libertà che i giudici di merito si sono arrogati andando essi alla ricerca del fatto integrante l’artificio, con palese violazione dei diritti di difesa. Infatti, per il Tribunale, gli artifici sarebbero stati posti in essere dopo la riscossione della somma, posto che il piano sarebbe stato quello di indurre in errore la S. sulla necessità di operare la riscossione secondo le modalità indicate dal M.; per la Corte territoriale, il raggiro è ravvisabile nel semplice fatto che costoro le abbiano proposto il patto, abusando del rapporto di prestazione d’opera e tacendo l’illiceità del patto e l’entità sproporzionata dell’importo che ne derivava. Nessun dubbio che la mancata contestazione degli elementi integrativi della truffa abbia inciso in maniera determinante nel diritto di difesa, con palese violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, nella interpretazione offerta dalla Corte Europea, con la pronuncia resa in data 11 dicembre 2007, n. 25575, Drassich c. Italia, in quanto l’imputato deve avere la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa in maniera concreta ed effettiva sul motivo dell’accusa, sui fatti materiali e sulla qualificazione giuridica data a tali fatti; 3) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione all’art. 192 c.p.p., art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e art. 640 c.p. per erronea interpretazione della legge penale e mancanza, illogicità e contraddittorietà delle motivazioni in riferimento al reato di truffa e alla credibilità della parte offesa costituita parte civile, con evidente parcellizzazione della visuale del decidente nella misura in cui ha scelto di rivolgere il proprio giudizio di credibilità circa le dichiarazioni rese esclusivamente sul singolo punto di volta in volta vagliato, e non globalmente nel loro complesso. La Corte territoriale, ammessa poi l’esistenza di un patto di quota lite, vietato ai tempi della presunta sottoscrizione, ravvisa "ipso iure" gli estremi del raggiro necessario per il perfezionamento del reato, mentre la stipula di un negozio civilmente invalido può avvenire in ragione di un comune, consapevole accordo e ciò senza che si possa parlare di raggiro.

Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato G. F., richiedendo – in primo luogo – la sospensione dell’esecuzione della condanna civile ai sensi dell’art. 612 c.p.p., e deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1 lett. c) ed e) in relazione agli artt. 522 e 521 c.p.p., art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) in riferimento alla qualificazione del reato quale truffa aggravata, evidenziando che l’imputato è stato citato a giudizio per rispondere del reato di appropriazione indebita, mentre il Tribunale ha ritenuto la sussistenza del reato di truffa, inserendo un elemento nuovo rispetto all’accusa iniziale, "elemento nuovo inteso sia quale fatto materiale, cioè il patto, sia quale presupposto giuridico del reato di truffa, cioè gli artifici e raggiri, con ciò sostituendo all’accusa iniziale, surrettiziamente, quella appunto di truffa".

Quale fatto diverso, se non nuovo, era soggetto alla disciplina di cui all’art. 516 c.p.p., e l’inosservanza di tali norme comporta, a mente dell’art. 522 c.p.p., la nullità della sentenza. Nessun dubbio che la mancata contestazione degli elementi integrativi della truffa abbia inciso in maniera determinante nel diritto di difesa, ove fosse stata contestata la truffa, basata essenzialmente sulla pretesa sproporzione del compenso, gli imputati si sarebbero difesi evidenziando che la richiesta non era affatto esorbitante, tanto che il Consiglio dell’Ordine aveva liquidato i suoi onorari in Euro 60.000,00 a nulla rilevando ai fini del decidere in questa sede la statuizione del Tribunale civile che aveva ridotto il saldo del compenso dovuto a molto meno, dovendosi far riferimento al tempo della pretesa commissione del reato, vale a dire al momento in cui sarebbe stato stipulato il patto di quota lite ed effettuato il successivo accesso in banca; 2) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione all’art. 192 c.p.p., art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e art. 640 c.p. per erronea interpretazione della legge penale e mancanza, illogicità e contraddittorietà delle motivazioni in punto credibilità della parte offesa costituita parte civile, e sulle notevoli contraddizioni della medesima, smentita peraltro dalle emergenze documentali quanto ad apprensione del contante e sottoscrizione del patto di quota lite presso lo studio dell’avv. M.; 3) la violazione dell’art. 603 c.p.p. ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in riferimento alla richiesta di acquisizione dei verbali dell’udienza disciplinare svoltasi in data 18.6.2007 dinanzi al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, e in particolare delle dichiarazioni rese dalla S. successivamente alla sentenza di primo grado, con carattere di decisività in quanto incidenti sulla credibilità della parte offesa.

I ricorrenti chiedono, pertanto, l’annullamento della sentenza.

In data 27.6.2011, l’avv. Vincenzo Sergio Vitale difensore della parte civile S.B. deposita memoria illustrativa, conclusioni e nota spese.

Motivi della decisione

1. Le richieste avanzate da entrambi i ricorrenti per la sospensione dell’esecuzione della condanna civile sono superate dalla decisione dei ricorsi. I ricorsi debbono essere, poi, rigettati per la non condivisibilità od inammissibilità delle censure articolate nei motivi che li compongono, e che possono essere oggetto di esame congiunto data la loro sostanziale identità. 2. Con il primo motivo del ricorso di M.A. e con il terzo motivo del ricorso di G.F., è stata dedotta la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. d) ed e) per mancata assunzione di una prova decisiva e vizio di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione del dibattimento, avanzata, con memorie del 21.9. e del 24.9.2010 dai difensori di M. A. e G.F., ex art. 603 c.p.p., comma 2 in riferimento all’acquisizione di copia del verbale dell’udienza disciplinare contenenti le dichiarazioni rese in quella sede dalla S. e dall’avv. B., in data 19 febbraio 2007, stante il requisito della novità, nonchè ex art. 603 c.p.p., comma 1 dei verbali di sommarie informazioni rese nel corso delle indagini preliminari contenuti nel fascicolo del pubblico ministero in quanto assolutamente necessari ai fini del giudizio di credibilità della parte offesa.

Le censure per vizi di motivazione sono inammissibili, le altre sono manifestamente infondate. Per quanto concerne i vizi di illogicità e contraddittorietà di motivazione, dedotti altresì in riferimento a tutti i motivi dei ricorsi unitamente all’erronea applicazione delle norme contestualmente indicate, è sufficiente rammentare che le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. S.U., sent.n. 35490/2009 Rv.

244273 – 74 – 75) hanno ribadito il concetto, più volte affermato anche da altra precedente sentenza delle sezioni unite, secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata, dal momento che il rinvio, da un lato, determinerebbe comunque per il giudice l’obbligo di dichiarare immediatamente la prescrizione, dall’altro, sarebbe incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento.

A prescindere da ogni considerazione circa l’eccezionalità della rinnovazione del dibattimento nel giudizio d’appello, e la congruità delle motivazioni in ordine al rigetto delle istanze istruttorie avanzate dai ricorrenti ex art. 603 c.p.p., commi 1 e 2, osserva il Collegio che le Sezioni Unite di questa Corte, nella sentenza citata, hanno altresì affermato che, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice può pronunciare sentenza di proscioglimento nel merito solo quando l’evidenza della innocenza sia così lampante che la valutazione che si deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento", ovverosia quando sia da escludere qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento, incompatibili col concetto di mera constatazione. Orbene, dall’esame della sentenza di appello, di cui al punto quattro, appare con assoluta certezza che il materiale probatorio raccolto non poteva portare sicuramente a una assoluzione con formula ampia, in quanto la prova della innocenza era tutt’altro che evidente, e anzi – secondo gli stessi ricorrenti – necessitava di un approfondimento istruttorie, con l’ovvia conseguenza che la Corte di merito non poteva che applicare la causa estintiva di cui all’art. 129 c.p.p., comma 1 e rigettare le istanze di rinnovazione dibattimentale, in quanto incompatibili con il concetto di mera constatazione che avrebbe potuto portare ad una sentenza di assoluzione nel merito.

E’ il caso, poi, di rilevare che la cognizione piena e approfondita del processo ai fini della responsabilità penale quando sia presente la parte civile – con la conseguenza che, in questo caso, il giudice di appello è chiamato a valutare, per la presenza di tale parte, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili – è necessaria solo a seguito di una espressa domanda in tale senso, da parte di chi persegua una decisione sulle statuizioni civili, previa incidentale valutazione della responsabilità penale. Una tale situazione è, però, ben diversa dal caso di specie, nel quale, nel giudizio di primo grado, gli imputati erano stati condannati al risarcimento dei danni a seguito di piena cognizione agli effetti penali, e con l’impugnazione proposta dal difensore di entrambi era stata avanzata, oltre ad una eccezione di legittimità costituzionale, richiesta di annullamento della sentenza ex art. 522 c.p.p. e, in subordine, di assoluzione perchè il fatto non sussiste ovvero non costituisce reato (cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 4855/2010 Rv. 246138).

Considerato che nessuna decisione doveva essere assunta agli effetti civili che non fosse quella automatica e strettamente consequenziale alla conferma di una condanna penale e al risarcimento dei danni già intervenuta in primo grado, non operano – in tal caso – le eccezioni individuate dalle Sezioni Unite alla regola della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato con prevalenza sulla formula assolutoria in mancanza di evidenza della innocenza o in presenza di carenza o contraddittorietà della prova, con la conseguenza che il solo modo per ottenere un esame più approfondito, in mancanza della evidenza che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc, consisteva unicamente nella rinuncia alla causa estintiva (v. Cass. S.U., sent. n. 35490/2009 Rv. 244275).

Non essendo stata rinunciata la prescrizione da parte dei ricorrenti, nessuna doglianza può essere validamente mossa in ordine alla mancata assunzione di una prova decisiva.

3. Il secondo motivo del ricorso del M. ed il primo motivo del ricorso del G., in relazione alla violazione del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, nonchè alla compressione dei diritti di difesa rispetto alla diversa qualificazione giuridica del reato, sono infondati.

In via di principio si rammenta, in conformità a un consolidato orientamento di questa Corte, che le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (artt. 516 e 522 c.p.p.), avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette, cosicchè non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In tale prospettiva per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto della contestazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel mero pedissequo confronto puramente letterale fra imputazione e decisione perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in ordine al fatto ritenuto in sentenza (cfr. Cass. Sez. Un., 22.10.1996, Di Francesco). In particolare è stato affermato da questa stessa sezione (v. Sez. 2, sent. n. 38889/2008 Rv. 241446; Sez. 2, 15 marzo 2000, Imbimbo) che, qualora venga dedotta la violazione del principio di necessaria correlazione fra accusa contestata e sentenza, al fine di verificare se vi sia stata una trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito, non soltanto va apprezzato in concreto se nella contestazione, considerata nella sua interezza, non si rinvengano gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, ma anche se una tale trasformazione, sostituzione o variazione abbia realmente inciso sul diritto di difesa dell’imputato, e cioè se egli si sia trovato o meno nella condizione concreta di potersi difendere.

Tanto premesso, rileva il Collegio che la Corte territoriale ha correttamente rigettato l’eccezione sollevata con l’atto di appello, rilevando che, nel caso di specie, si rinviene "l’identità del fatto, quale nucleo comune della condotta illecita senza alcuna incompatibilità ovvero eterogeneità che abbia impedito alla difesa di essere esercitata appieno, anzi la sottoscrizione del patto di quota lite ha costituito argomento su cui si è incentrata anche la prova testimoniale. In sostanza, l’imputazione contestata è stata dal giudice precisata ed integrata con le risultanze degli interrogatori e degli altri atti acquisiti al processo, secondo prospettazioni di cui la difesa ha sempre tenuto conto, utilizzando l’atto, quindi il patto di quota lite, quale elemento di discolpa nella stessa tesi difensiva che ne ricavava un giudizio di semplice violazione di obblighi deontologici ovvero della conclusione di un accordo nullo sotto il profilo esclusivamente civile". Nè può ritenersi – così come assunto dai ricorrenti – che la mancata contestazione degli elementi integrativi della truffa abbia comunque inciso in maniera determinante nel diritto della difesa, dal momento che, nelle sentenze di primo e secondo grado, i giudici di merito avrebbero ravvisato gli artifici e raggiri in fatti diversi, e lontani tra loro nel tempo (per il Tribunale, gli artifici sarebbero stati posti in essere dopo il ritiro dell’assegno di L. 807.274.000 presso la Fondiaria Assicurazioni in data 21.5.2001, con induzione in errore della parte lesa sulla necessità di eseguire le operazioni presso l’agenzia della BNL del palazzo di giustizia dove l’avv. M. aveva un conto corrente, e secondo le indicazioni dello stesso difensore, e pertanto la S. veniva indotta a firmare l’assegno non trasferibile e a bonificarlo sul conto corrente del M., che bonificava quindi sul conto corrente della S. acceso presso la Banca Popolare solo la somma di L. 560.000.000, prelevava L. 220.000.000 in contanti e tratteneva il resto sul suo conto; per la Corte territoriale, il raggiro è già ravvisabile nel semplice fatto che sia stato proposto e stilato il patto di quota lite datato 14.3.2001, peraltro non "al buio" bensì pochi giorni dopo il deposito della sentenza che accertava e liquidava l’ammontare del danno, abusando del rapporto di prestazione d’opera e tacendo l’illiceità del patto e l’entità sproporzionata dell’importo che ne derivava. Infatti, appare evidente che – anche in questo caso – non vi è stata alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza; nelle sentenze di merito, infatti, i giudici non hanno operato alcuna trasformazione dei contenuti essenziali dell’addebito con violazione dei diritti di difesa, essendosi invero limitati a dare una diversa interpretazione giuridica degli identici elementi di fatto, già emersi e oggetto di approfondito esame nel corso del dibattimento di primo grado e nel successivo gravame.

4. Con il terzo motivo del ricorso di M.A., e con il secondo motivo del ricorso di G.F. vengono dedotti la violazione dei criteri di valutazione della prova ex art. 192 c.p.p. e il vizio di motivazione in merito alla credibilità della parte offesa. Le censure per vizio di motivazione sono inammissibili, quelle sulla violazione dei criteri di cui all’art.192 per la valutazione dell’attendibilità della parte offesa infondate. Nella sentenza impugnata, la Corte territoriale, all’esito di un approfondimento del quadro probatorio, ha infatti illustrato, con motivazione ampia ed esente da evidenti vizi logici, le ragioni per le quali ha ritenuto l’attendibilità e credibilità delle dichiarazioni della parte civile, sottoponendole a vaglio rigoroso esaminandole con puntualità nel raffronto con le numerose evenienze processuali, di seguito indicate e analiticamente trattate in motivazione: l’operazione è stata effettuata sul conto corrente dell’avv. M. senza alcuna necessità per la parte offesa, titolare di un conto corrente peraltro intestato a lei sola, e con costo non indifferente per il M. il cui conto corrente non disponeva al 21.5.2001 della provvista corrispondente alla somma prelevata in contanti e neppure a quella girata sul conto della S. (dall’estratto conto emerge che entrambe le somme gli furono addebitate con valuta 21.5, mentre l’importo dell’assegno versato gli fu accreditato con valuta 24.5); l’operazione è stata effettuata previ accordi con la direttrice dell’agenzia, come riferito dalla stessa, e in conformità alla prassi relativa alla modalità di esecuzione di prelievi di somme ingenti in contanti, prassi che ben avrebbe potuto seguire anche la S. nella propria banca; la somma predisposta in banca per il ritiro in contanti corrisponde esattamente al 30% dell’importo dell’assegno; il contenuto del patto è tecnicamente ineccepibile e porta riferimenti espressi alla controversia – con il numero e il dispositivo – che presuppongono la disponibilità di documentazione relativa alla causa che la S. all’epoca non aveva ricevuto; il documento in questione fu consegnato all’avv. E. in data 14.3.2002; gli avvocati M. e G. hanno inviato la notula delle loro competenze solo in data 18.7.2002, ovvero successivamente allo scambio di missive e ad un incontro tra l’avv. Sc. per il M. e l’avv. E. per la S., nonchè un anno e mezzo dopo la conclusione della causa, nonostante che essi avessero provveduto a pagare le spese di registrazione della sentenza e che l’anticipo versato dalla S. nel 1999 non fosse adeguato a coprire le anticipazioni; la somma richiesta con atto di citazione notificato in data 8.1.2003, per onorari diritti e spese per l’attività giudiziaria compiuta (già detratti gli importi per spese legali ricevuti dalla Fondiaria pari a L. 23.700.610 ciascuno e quelli ricevuti in acconto dalla S. pari a L. 6.000.000), ammontava a Euro 98.093,02 ed il Giudice civile, con sentenza del 3.3.2004 divenuta definitiva, ha riconosciuto dovuta a tale titolo solo la somma di Euro 8.914,86 oltre accessori.

Rileva, poi, la Corte che tali numerosi e precisi elementi non possono essere scalfiti dalla sottoscrizione apposta dalla S. sulla ricevuta dell’operazione di prelievo dei contanti necessariamente effettuato dal titolare del conto M., in quanto tale sottoscrizione non prova in alcun modo che la somma sia stata effettivamente consegnata alla S., e ben si spiega con l’intento dei difensori di non far risultare neppure fiscalmente l’introito nel caso di un controllo tributario, e neppure dalla ricevuta redatta dall’avvocato G., la quale può trovare analoga spiegazione. Le dichiarazioni rese dai ricorrenti sulle ragioni dell’operazione bancaria eseguita non già presso la banca della beneficiaria dell’assegno, bensì presso quella del difensore sono, poi, tutt’altro che convincenti, in quanto la stessa era titolare di un conto su cui poteva operare lei sola, e non altri, e – ove avesse avuto reale necessità di prelevare una somma così ingente in contanti – avrebbe dovuto al massimo attendere solo qualche giorno per l’accredito sul proprio conto della somma portata dall’assegno versato. Per accedere alla versione dei difensori degli imputati occorrerebbe, invece ipotizzare, contrariamente ad ogni logica, che la S. – la quale non si era rifiutata di effettuare l’operazione bancaria, secondo le modalità consigliatele dai suoi stessi avvocati, sicuramente più esperti di lei (lo stesso M. ha sostenuto di non aver indicato alcun importo preciso alla banca, ma di essersi solo informato presso la sua banca un paio di settimane prima, senza sapere l’entità dell’importo, mosso da pietà per la cliente che appariva sprovveduta), e con i quali aveva instaurato un rapporto fiduciario della cui lealtà non aveva avuto fino al momento ragione di dubitare – abbia redatto "la dichiarazione di debito" del 14.3.2001 dolosamente, e successivamente all’operazione bancaria del maggio 2001, con l’illecito scopo di reclamare la restituzione di una somma da lei stessa prelevata.

Correttamente la Corte ha, infine, ritenuto che la condotta accertata integra gli estremi della truffa. All’epoca dei fatti, il patto di quota lite era illecito, e al momento della stipula del medesimo (14.3.2001) la sentenza del Tribunale di Potenza che accertava e liquidava l’ammontare del danno era stata depositata da qualche giorno (ovvero in data 23.2.2001), sicchè ai ricorrenti era noto sia l’esito che l’importo liquidato; ne consegue che l’aver proposto il patto, tacendo l’illiceità del patto medesimo e l’entità invero sproporzionata dell’importo che ne derivava a titolo di compenso delle prestazioni professionali (compenso – tra l’altro – che l’indicazione della percentuale non consentiva a persona poco esperta di apprezzare aprioristicamente, in considerazione anche del calcolo della rivalutazioni e interessi sulla somma liquidata dal Tribunale), unitamente alla circostanza che il patto non è stato sottoscritto all’inizio della causa bensì a sentenza pronunciata, approfittando del rapporto fiduciario e della particolare debolezza della S., del tutto estranea alle questioni giuridiche, ben possono configurare gli artifici e raggiri che hanno indotto la parte offesa in errore sia sul patto che sulle legittime pretese dei suoi legali.

Le modalità concrete con cui la somma fu incassata, nell’immediatezza della ricezione dell’assegno da parte della Fondiaria e mediante operazione sul conto corrente del M., previo accordo con la Banca stante l’entità della somma da prelevare in contanti e predisposta nella misura del 30% del risarcimento, senza peraltro emissione di fatture o sottoscrizione di una ricevuta da consegnare alla S., confermano poi come l’intera vicenda dal patto alla riscossione della somma in contanti sia stata condotta dai ricorrenti non solo con i descritti artifici, ma anche in tempi così ristretti e con modalità tali da non consentire alla vittima di rendersi conto della portata e della illegittimità delle pretese avanzate dai suoi legali.

Essendo, quindi, la prova dell’innocenza sia del M. che del G., entrambi presenti a tutte le fasi salienti della vicenda, tutt’altro che evidente alla luce delle risultanze processuali, la Corte nella fattispecie non poteva che applicare la causa estintiva di cui all’art. 129 c.p.p., comma 1, così come correttamente ha fatto nella sentenza impugnata.

Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile S. B., che liquida in complessivi Euro 2150,00 oltre spese generali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile S.B., che liquida in complessivi Euro 2150,00 oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 28 giugno 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *