Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del 1967 I.A.F.F., vedova N., e N.E. convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Paola gli eredi di I.R. chiedendone la condanna in solido a pagare in favore della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania le rate scadute di un mutuo acceso nel 1963.
Con altro atto di citazione dello stesso anno I.A.F. F., vedova N., agì nei confronti degli eredi di I.R. per sentire dichiarare di essere proprietaria di immobili siti nel comune di (OMISSIS), nonchè, insieme al fratello R., di un terreno su cui aveva edificato diversi fabbricati.
Con distinto atto di citazione del 1969 P.G. e Pr.Gu., in qualità di procuratori generali e speciali di P.F., P.R., P. A. e P.C., eredi di P.E., chiamarono in giudizio gli eredi di I.R. e I. A.N. chiedendo che fosse dichiarata la nullità dell’atto con cui, in data 28 marzo 1950, P.T., maritata I., in forza di una procura generale rilasciata in Argentina dal fratello E. l’11 agosto 1923, aveva venduto, a mezzo di procura alla nuora V.O., ai suoi due figli A. e R. tutti beni appartenenti al fratello, deducendo l’invalidità di tale atto di trasferimento per essere il preponente, al momento della sua stipulazione, già deceduto; chiesero, conseguentemente, che i convenuti fossero condannati a rilasciare tutti gli immobili in questione ed al risarcimento dei danni.
I convenuti I.T., I.E., I.A. e V.O. si opposero a tali domande assumendo, tra l’altro, che P.E. era morto successivamente alla redazione della compravendita, che pertanto era valida ed efficace, eccependo comunque l’usucapione decennale dei beni compravenduti.
Con successivo atto di citazione notificato nel 1970 P. G. e Pr.Gu., nella qualità sopra indicata, domandarono anche la condanna delle controparti a rimuovere le piantagioni, opere e fabbriche da essi realizzate sui terreni di loro proprietà.
Riunite le cause ed esaurita l’istruttoria, il Tribunale adito, in data 19 gennaio 1977, pronunciò sentenza non definitiva con cui dichiarò invalida ed inefficace la vendita con la quale P.T., quale procuratrice di P.E., aveva venduto ai figli I.R. e I.A. gli immobili del fratello, disponendo che i beni entrassero a far parte dell’asse ereditario di P.E.; ordinò quindi con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio per i necessari accertamenti diretti alla individuazione dei beni e alla valutazione dei fabbricati in essi realizzati.
Con successiva sentenza del 29 gennaio 2002 il medesimo Tribunale dichiarò l’estinzione del giudizio rilevando che, interrotto a seguito della morte dell’avvocato degli eredi di I.R., esso era stato riassunto dai P. oltre il termine di legge.
Interposto gravame principale da parte dei P. ed incidentale da parte di I.T., I.R. e I.E., con sentenza n. 4941 del 9 giugno 2010 la Corte di appello di Catanzaro confermò la sentenza non definitiva mentre riformò quella dichiarativa di estinzione del processo, disponendo la rimessione della causa dinanzi al Tribunale di Paola per la prosecuzione del giudizio. A sostegno di questa decisione il giudice di secondo grado affermò, per quanto qui ancora interessa, che, con riferimento all’appello principale dei P., esso era fondato in quanto, premesso che il termine per la riassunzione della causa, in caso di interruzione per morte dell’unico procuratore della controparte, decorre dalla momento della conoscenza legale e non dalla mera conoscibilità che di tale evento abbia la parte, nel caso di specie, in cui pacificamente mancava una dichiarazione del fatto interruttivo diretta alle altre parti, tale conoscenza non poteva essere tratta dal telegramma inviato il 18 giugno 1997 da I. A. (che era una delle parti nei cui confronti l’evento si era verificato) diretto al giudice della causa, dal momento che, pur essendo stato tale documento acquisito al fascicolo di causa per ordine del giudice, ma non in udienza e quindi in difetto di contraddittorio, non vi era certezza sulla data certa in cui si era formata la conoscenza legale dello stesso, tenuto conto che la mera allegazione di un atto all’interno del fascicolo d’ufficio non costituisce forma legale di conoscenza e che all’udienza successiva del 20 giugno 1997 di esso non era stata fatta alcuna menzione; con riferimento all’appello incidentale degli I., confermò la statuizione di rigetto della domanda di usucapione abbreviata, affermando che le risultanze probatorie portavano ad escludere la buona fede degli acquirenti, avendo essi avuto, al momento della redazione dell’atto, conoscenza della morte del rappresentato e della conseguente invalidità della procura ed essendo anzi la cessione stata compiuta proprio in ragione di tale evento.
Per la cassazione di questa decisione, notificata il 12 ottobre 2010, con atto notificato con invio a mezzo posta il 13 dicembre 2010, ricorrono I.T., I.A. e I.E., affidandosi a quattro motivi, illustrati da successiva memoria.
Resistono con controricorso P.J.M. e P.S.M., quali eredi di P. F., B.D., P.R.E., P.D.L. e P.A.B., P.A.L., P.G.E., quali eredi di P.R., P.M.N., P.R.A. e P.G.L., quali eredi di P.A., e D.P.J. L., quale erede di P.C.. N.E., quale erede di I.A.F., ha pure proposto controricorso e depositato successiva memoria.
Le altre parti intimate non si sono invece costituite.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza per violazione degli artt. 303, 305 e 307 cod. proc. civ. e contraddittorietà della motivazione, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto ininfluente ai fini della conoscenza legale dell’evento interruttivo il telegramma del 18 giugno 1997 con cui la parte I.A. aveva comunicato la morte del proprio procuratore, nonostante che tale documento, vistato in pari data dal giudice istruttore, fosse stato allegato agli atti del processo. In particolare, la Corte di appello ha ignorato sul punto che l’attività processuale era proseguita con l’udienza del 17 ottobre 1997, sicchè il documento doveva reputarsi conosciuto dal difensore delle controparti. Circostanza decisiva è anche che la notizia del decesso del professionista venne dichiarata nella procedura dagli stessi soggetti rappresentati e difesi dal defunto, tenuto conto che la disciplina dell’interruzione per morte del difensore mira a garantire la parte colpita dall’evento e che la dichiarazione resa da quest’ultima non deve rivestire, per legge, una forma particolare, essendo sufficiente che venga acquista nel processo, non avendo natura recettizia. Sostiene pertanto il ricorso che la comunicazione data con il telegramma del 28 giugno 1997 era da considerarsi idonea, una volta che tale documento era stato inserito agli atti del giudizio, a far decorrere il termine semestrale di riassunzione, con l’effetto che il processo avrebbe dovuto essere dichiarato estinto per essere stato l’atto di riassunzione notificato, tardivamente, solo il 29 dicembre 1998. Il motivo è infondato.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 139 del 1967, n. 178 del 1970, 159 del 1971 e n. 36 del 1976, il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto per la morte del procuratore costituito di una delle parti in causa decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui le parti abbiano avuto conoscenza legale di tale evento e che tale conoscenza può dirsi perfezionata in presenza di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell’evento che determina l’interruzione del processo, con l’effetto che il termine in questione può decorrere per ciascuna delle parti da una data diversa (Cass. n. 3085 del 2010; Cass. n. 6348 del 2007;
Cass. n. 974 del 2006; Cass. n. 440 del 2002 ). Tanto precisato nel caso di specie appare assorbente il rilievo che la comunicazione dell’evento interruttivo della morte del procuratore sia stata fatta dalla parte interessata dall’evento mediante telegramma inviato al giudice che comunicava l’avvenuto decesso. Una tale comunicazione, infatti, appare di per sè inidonea a costituire un mezzo adeguato di conoscenza legale del fatto, risolvendosi in una mera dichiarazione di scienza proveniente da un soggetto privato. La legge, invero, attribuisce valore di mezzo di conoscenza legale del fatto in esso rappresentato solo alla dichiarazione proveniente dal procuratore, laddove, ovviamente l’evento interruttivo colpisca la parte rappresentata (art. 300 c.p.c., comma 1), ma non riconosce un analogo effetto anche alla dichiarazione fatta dalla parte personalmente, nel caso inverso di morte del proprio difensore. In tal caso la dichiarazione, di per sè, è di mera scienza privata e non è assistita da alcuna particolare fede privilegiata. La formula "conoscenza legale" sembra infatti stare ad indicare non solo il mezzo di diffusione della notizia, ma anche la fonte dalla quale essa proviene. Nel caso considerato, come si è visto, la legge annette tale qualità alla dichiarazione dell’avvocato, quale professionista legale, non anche a quella della parte privata, che pertanto in tale situazione è tenuta a comprovare la notizia mediante l’allegazione di un atto ufficiale, costituito o dal certificato di morte o da quello proveniente dal locale Consiglio dell’Ordine che, dando atto dell’evento che ha colpito il legale, ne ha disposto la cancellazione dall’albo ovvero da qualsiasi altro atto o certificato assistito da fede privilegiata.
Per tale assorbente ragione, deve ritenersi che il telegramma inviato dalla parte rappresentata all’organo giudiziario che comunicava l’avvenuto decesso del difensore non poteva costituire mezzo di conoscenza legale dell’evento interruttivo per le altre parti, restando irrilevante la disposta allegazione dello stesso al fascicolo d’ufficio da parte del giudice, che certo non poteva ignorare il fatto di averlo ricevuto. Non può pertanto ipotizzarsi, in relazione a tale comunicazione ed in mancanza di conoscenza legale dell’evento, che l’atto di riassunzione sia stato notificato oltre il termine di sei mesi previsto dall’art. 305 cod. proc. civ..
Il motivo va pertanto respinto, sia pure previa correzione, nel senso sopra precisato, della motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.
Il secondo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per non avere la Corte esaminato l’eccezione di estinzione del giudizio motivata dalla circostanza che lo stesso non era stato riassunto tempestivamente nei confronti della Banca Intesa. Il motivo è infondato.
La decisione con cui la Corte di appello ha statuito in ordine alla ritualità della riassunzione contiene per implicito la risoluzione delle altre questioni proposte al riguardo, sicchè non può configurarsi sul punto il vizio di omessa pronuncia. Il vizio denunziato non appare comunque rilevante, interessando una questione che non è in grado di incidere sulla regolare costituzione del contraddittorio seguita alla riassunzione, tenuto conto che la Banca non era parte della causa promossa dagli attori ma era stata evocata in giudizio in una causa ad essa riunita, la cui risoluzione era indifferente su quella riassunta. Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 e 1159 cod. civ. ed insufficienza e inidoneità della motivazione, censurando la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di usucapione abbreviata rilevando la mancanza di buona fede da parte degli acquirenti. Il capo della decisione è criticato per violazione del principio che stabilisce la presunzione di buona fede e per avere valorizzato, ai fini della sussistenza della mala fede, la dichiarazione resa da I.A., che però era parte antagonista rispetto agli attuali ricorrenti, nonchè elementi di fatto che non risultavano direttamente dagli atti del processo, ma emergevano da documenti non acquisti, la cui esistenza era stata riferita da P. F., persona vicina agli attori.
Il mezzo è infondato.
Parte ricorrente ha invocato l’applicazione dell’istituto dell’usucapione abbreviata in relazione ai beni di P. S. acquistati dal proprio de cuius, I.R., con atto stipulato, a mezzo di procura alla nuora V.O., dalla propria madre P.T., la quale, a sua volta, agiva in forza di una procura generale che, come accertato dai giudici di merito con decisione che, in relazione a tale statuizione, è passata in giudicato per difetto di impugnazione, era divenuta inefficace per la sopravvenuta morte del rappresentato.
Ciò precisato, la fattispecie concreta appare sottrarsi a quella dell’acquisto a non domino, che, ai sensi dell’art. 1159 cod. civ., consente a chi abbia acquistato in buona fede beni immobili da chi non ne è proprietario di avvalersi, ai fini dell’usucapione, del termine decennale. Questa Corte, sia pure con una giurisprudenza risalente ad epoca non recente, ha avuto modo di precisare che l’usucapione abbrevia non è configurabile in relazione agli acquisti posti in essere con un falsus procurator (Cass. n. 1813 del 1982;
Cass. n. 947 del 1968; Cass. n. 1060 del 1960), ipotesi quest’ultima riscontrabile, com’è noto, non solo nei casi di inesistenza originaria ma anche di revoca o inefficacia successiva, per qualsiasi causa, della procura. Questo orientamento merita qui conferma, dovendosi anche in relazione a tale capo della decisione modificarsi la motivazione della sentenza di appello, laddove ha respinto la domanda di usucapione per mancanza, in concreto, della buona fede dell’acquirente. In realtà, la domanda doveva essere rigettata perchè, nell’ipotesi considerata, deve essere esclusa a priori la possibilità per la parte acquirente di invocare l’usucapione abbreviata.
La fattispecie prevista dall’art. 1159 cod. civ. ricorre, com’è noto, laddove vi sia un titolo idoneo a trasmettere la proprietà, ma tale effetto non possa prodursi perchè l’alienante non è il proprietario del bene, sempre che l’acquirente sia in buona fede. La disciplina positiva rende chiaro che l’intendimento perseguito dalla legge è quello di consentire l’acquisto della proprietà in capo all’acquirente unicamente nel caso in cui gli effetti del contratto non possano prodursi direttamente in ragione dell’alienità della cosa venduta; questo e soltanto questo è l’impedimento che la legge, sussistendo le altre condizioni, mira a superare. Rimangono di conseguenza fuori e del tutto estranee alla fattispecie le ipotesi in cui l’effetto proprio del contratto resti impedito in ragione di altre cause, quali tutte quelle ne determinano l’invalidità o l’inefficacia del negozio.
Nell’ipotesi di acquisto dal falsus procurator mancano, a ben vedere, tutte le condizioni richieste dalla legge per aversi la figura dell’acquisto a non domino.
L’atto compiuto in nome altrui in difetto di poteri rappresentativi non integra infatti un titolo idoneo a trasmettere la proprietà ma, per definizione, un atto negoziale inefficace; l’impedimento all’effetto traslativo della proprietà non risiede nella mancanza di titolarità del bene in capo allo stipulante, ma nel fatto che questi ha agito in difetto del potere rappresentativo del proprietario.
Manca, infine, la stessa buona fede, così come tale requisito è inteso dall’art. 1159 cod. civ., vale a dire come ignoranza dell’alienità del bene, tenuto conto che nel caso considerato non vi è nessun fraintendimento su chi sia l’effettivo proprietario del bene alienato, sicchè al più tale requisito starebbe ad indicare, assumendo però un contenuto affatto diverso rispetto al significato che assume nell’art. 1159 cod. civ., la convinzione dell’acquirente di contrarre con la persona autorizzata a disporre del bene.
Il quarto motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., lamentando che la Corte non si sia pronunciata sulla domanda subordinata di restituzione del prezzo della vendita. Anche questo motivo va respinto in quanto dalla lettura della sentenza impugnata emerge che la Corte di appello, nel riformare la sentenza che aveva dichiarato l’estinzione del giudizio e nel rimettere la causa dinanzi al giudice di primo grado per la decisione delle altre domande di merito non decise con la sentenza non definitiva del 1977, ha inteso rinviare al Tribunale anche l’esame della domanda di restituzione del prezzo avanzata dai convenuti. In conclusione, il ricorso è respinto.
Le spese di giudizio sostenute dai controricorrenti P. sono poste, per il principio di soccombenza, a carico dei ricorrenti.
La Corte ravvisa invece giusti motivi per compensare le spese tra i ricorrenti e la controricorrente N., atteso che quest’ultima, dal punto di vista sostanziale, non ricopriva una posizione antagonista rispetto a quella dei ricorrenti, con l’effetto che la sua costituzione nel presente giudizio, in cui ha chiesto il rigetto del ricorso, non era necessaria ma è dipesa da scelte personali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di giudizio in favore dei controricorrenti P., che liquida in Euro 10.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge; compensa le spese di lite tra i ricorrenti e N.E..
Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2012.
Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2012
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