Cass. pen., sez. V 17-03-2006 (20-01-2006), n. 9381 REATO – CIRCOSTANZE – AGGRAVANTI IN GENERE – Ingiuria indirizzata ad una bambina con l’espressione vai via di qua, sporca negra

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Premesso

G. S. ricorre avverso sentenza della Corte di appello di Trieste, che ne conferma la condanna, con generiche equivalenti, ad Euro 1200,00 di multa ed al risarcimento del danno liquidato in Euro 3500,00, per ingiuria aggravata anche ai sensi dell’art. 3 Legge 205/93 (finalità di discriminazione o odiorazziale), per aver detto in presenza di più persone a D.A. di anni 6, che raggiungeva il padre nel luogo pubblico ove si era tenuta riunione concernente questioni ambientali: vai via di qua, sporca negra.

Il ricorso denuncia erronea applicazione dell’art. 3 Legge 205/93.

Esclude che la frase denunci un atteggiamento finalizzato alla discriminazione o a odio etnico o razziale, per il contesto, i precedenti e la stessa indole del ricorrente.

E ricostruisce l’accaduto con l’attribuzione della mozione dello stesso ricorrente ad un fatto ingiusto, perpetrato nei suoi confronti dagli abitanti del quartiere, tra i quali il genitore della bambina.

Ritenuto

l’art. 3 DL 122/93, convertito nella legge citata, prevede un aggravamento di pena sino alla metà, per i reati?commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, che hanno tra i loro scopi le medesime finalità.

Nella specie il ricorso non può essere accolto, ancorché sembri trovare fondamento in una recente pronuncia (Cass. sez. V, Paoeletich, n. 44295/05).

Questa Corte, annullando con rinvio, limitatamente all’aggravante, una sentenza d’appello della stessa Corte di Trieste, confermativa di condanna per ingiuria dello stesso tenore (sporche negre), rivolta a più persone in diverso contesto, rifacendosi espressamente al significato proprio dei termini adottati dalla legge (art. 12/1 preleggi), ha precisato che l’espressione odio indica un sentimento estremo di avversione e dunque non qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto.

Invece la discriminazione razziale, giusta la definizione della Convenzione di New York 7/3/96, indica ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore ? che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà, fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale o in ogni alto settore della vita pubblica.

Ha ritenuto che, per applicare l’aggravante, è necessario che l’azione delittuosa? per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta ad almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in altri il suddetto riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concerto pericolo di comportamenti discriminatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione.

Ed ha concluso, perciò, che la locuzione non significa per se manifestazione di odio, o discriminazione razziale, potendo significare, alla luce del contenuto oggettivo e soggettivo, una manifestazione generica di antipatia, insofferenza o rifiuto.

Sennonché la legge prevede un?aggravante oggettiva, ai sensi dell’art. 70/1 lett. a) c.p., applicabile a qualsiasi fatto costitutivo della condotta, dalla gravità del danno o dal pericolo o dalle condizioni o qualità personali dell’offeso.

Il disvalore consiste nella discriminazione o nell’odio nazionale, etnico, razziale o religioso, quando non nell’agevolare gruppi o organizzazioni, che hanno tra i loro scopi tali finalità.

Ed è esattamente antitetico a quello che ispira i principi fondamentali di uguaglianza affermati dalla Costituzione, e riaffermati dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, adottata a Roma nel 1950 e ratificata dalla Legge 848/1955.

Sotto questa luce la discriminazione consiste nello stesso disconoscimento di uguaglianza, ovvero nell’affermazione di inferiorità sociale o giuridica altrui, vieppiù se a mezzo di condotta costitutiva di reato.

Pertanto l’accertamento che l’azione sia potenzialmente idonea a conseguire ulteriore disvalore, bensì al dato culturale che la connota.

Ed il sostantivo odio, letto insieme ad una qualsiasi delle consecutive qualificazioni, va inteso senza alcuna accentuazione, rispetto a sentimenti di minore intensità.

In sintesi l’accertamento della finalità non richiede autonoma verifica dell’elemento psicologico rispetto a quanto necessità l’accertamento di responsabilità ai sensi dell’art. 43 c.p., e non sono possibili graduazioni, se il fatto costitutivo di reato afferma per se, nell’accezione comune, disuguaglianza sociale o giuridica (discriminazione), o si rapporta all’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa, quale ragione di conflitto tra persone (odio).

Trattandosi di ingiuria, se il fatto consiste nell’uso di una particolare locuzione, questa necessita dell’apprezzamento semantico della combinazione degli elementi del linguaggio.

Difatti la sintesi espressiva offre un significato diverso da quello apparentemente reso dalla mera consecuzione delle parole.

Va perciò verificato se la locuzione sporco negro abbia significato proprio, o la connessione tra l’attributo ed il sostantivo sia occasionale.

l’analisi si rifà in primo luogo al notorio che, in ogni lingua, il concetto di razza umana esprime la differenza immediatamente rilevabile dal colore della pelle degli individui di diversa origine continentale.

Il concetto resta fermo, benché sia scientificamente certa l’evoluzione delle etnie nei territori per immigrazioni, e il diverso pigmento non autorizzi una determinazione genetica di specie, vieppiù che, con tutta probabilità, i progenitori dell’uomo del nord provengono dall’Africa (Lucy insegna) di più, sul piano linguistico, è anche notorio che la parola negro, traslato di nero, non definisce semplicemente il colore della persona, a differenza di moro.

Difatti è stata assunta nella recente epoca coloniale, nelle lingue neolatine ed anglosassoni, per la designazione antonomastica dell’indigeno africano, quale appartenente ad una razza inferiore, quando non destinato, con questa falsa giustificazione fatta perfino risalire alla Bibbia, alla schiavitù, perdurata in America sin oltre la metà dell’ottocento.

Ciò è tanto vero che oggi, negli USA, la sola denominazione di alcuno quale negro costituisce offesa alla persona.

Seppure la valenza ingiuriosa del termine è riservata al nuovo continente, già il riferimento, gratuito con questa parola, al pigmento dell’offeso assume significato intrinsecamente discriminatorio, sol che si rilevi che quasi ogni domenica negli stadi di questo paese talune tifoserie apostrofano con la parola negro alcun giocatore avversario, per non dire di cartelli esposti all’esterno di pubblici localini di talune città.

E siamo ancora nel notorio.

A questo punto è evidente che l’espressione sporco negro, che combina la qualità negativa al dato razziale, è frequente ed inequivoca nel particola re significato assunto dall’insieme.

A riprova non ha equivalenti: non risulta adottata in occidente alternativamente l’espressione sporco giallo, ne in Africa o Cina sporco bianco.

Perciò significa lo spregio non occasionale dell’attributo, che si rapporta nell’accezione corrente ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, che inquina il costume sino al punto da radicare manifestazioni di gruppo (di qui l’altro aspetto della previsione dell’aggravante).

In questa luce non ha alcun rilievo la mozione soggettiva dell’agente, se l’espressione è diretta inequivocabilmente nei confronti di una persona di pelle scura.

Basti rilevare che è adottata in un territorio nel quale l’offeso, quando non straniero è esponente di una minoranza razziale (e la casistica da conto di Italiani di colore così apostrofati).

Finalmente, poiché l’univocità semantica implica il riconoscimento dell’ulteriore disvalore di legge, proprio per la sua valenza discriminatoria odi conflittualità apodittica in ragione di diversità dell’offeso, la verifica del fatto, che abbia indotto il giudice ad escludere giustificazione al reato (per es. ai sensi dell’art. 599 c.p.), da per se conto dell’aggravante di cui all’art. 3 Legge 205/93.

Al più l’ulteriore analisi serve a collocare l’espressione nella finalità discriminazione piuttosto che in quella di odio, o viceversa.

Ma il confine tra i due concetti è spesso non identificabile, senza che si possa perciò giungere a escludere l’ulteriore disvalore che permea il fatto.

Tanto è evidente nel caso di specie laddove, a fronte di puntuale motivazione, il ricorso, che pure contesta la sola ritenuta aggravante (per il comportamento che avrebbe tenuto nei suoi confronti il padre della bambina, al pari di altri del quartiere nel corso della riunione, fatto cui è già stata esclusa valenza scriminante), argomenta in termini di giustificazione complessiva, per l’impossibilità di superare la valenza obiettivamente discriminatoria o di odio razziale, intrinseca dell’espressione.

E l’Argomento è ormai precluso, prima ancora di rilevare che implica rivalutazione di fatto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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