Cass. civ. Sez. I, Sent., 26-03-2012, n. 4784 Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 12 aprile 2010 ha confermato la decisione del Tribunale di Latina, che aveva respinto la domanda di T.E. di determinazione dell’indennità aggiuntiva dovutagli L. n. 865 del 1971, ex art. 17 dal comune di Norma per l’avvenuta espropriazione conclusa con contratto di cessione volontaria, di un terreno di proprietà di M.L., da lui condotto in affitto fin dal 1962, in quanto: a) mancava la prova del contratto di affitto del fondo, non ricavabile nè dal verbale di immissione in possesso, nè tanto meno dallo stato di consistenza o dalla stessa dichiarazione dell’appellante nella circostanza rilasciata ai funzionari del comune; b) detta prova non si evinceva neppure dalle risultanze istruttorie, comprovanti semmai che con il M. era intercorso un contratto di parapascolo; e d’altra parte non poteva trarsi neppure dalla lettere in cui il T. si auto qualificava affittuario.

Per la cassazione della sentenza quest’ultimo ha proposto ricorso per 4 motivi.

Il comune non ha spiegato difese.

Motivi della decisione

Con il secondo motivo, da esaminare con precedenza, il T. deducendo diversi difetti di motivazione censura la sentenza impugnata per aver ritenuto mancante la prova della sua conduzione del terreno, senza considerare: a) le dichiarazioni del concedente confermate nel corso della prova testimoniale, dalle quali risultava l’esistenza del rapporto agrario non qualificabile per tutte le sue caratteristiche, come parapascolo; b) i verbali di immissione in possesso da cui risultavano l’esistenza delle coltivazioni da lui compiute, nonchè del soprassuolo impiantato nel corso del rapporto, escludenti la sussistenza del contratto di parapascolo prospettato dal M.; c) che a fronte di detti elementi probatori spettava al comune fornire la prova che egli in conseguenza dell’occupazione d’urgenza aveva dovuto abbandonare il fondo.

Con il terzo motivo, deducendo altri vizi di motivazione lamenta che la Corte di appello abbia ritenuto mancante la prova del contratto di affitto a coltivatore diretto ricavabile invece dalla prova testimoniale laddove il primo teste aveva ricordato la presenza di animali sul fondo, ed il concedente menzionato un rapporto di pasci pascolo che tuttavia presentava tutte le caratteristiche dell’affittanza agraria; senza considerare la propria nota del 1993 con cui ribadiva al comune di condurre in affitto il fondo dal 1963 e di pagare regolarmente il relativo canone.

Con l’ultimo, deducendo violazione della L. n. 606 del 1966, art. 3, L. n. 11 del 1971, art. 10 segg.; L. n. 203 del 1982, art. 2 lamenta che la sentenza impugnata non abbia considerato la sua documentata iscrizione nell’elenco dei lavoratori agricoli, da cui risultava la sua qualifica di coltivatore diretto;e che in ogni caso il contratto di pascolo si era trasformato in affitto per effetto della L. n. 11 del 1971, perciò fornendo la dimostrazione della sussistenza del presupposto richiesto dalla L. n. 865 del 1971, art. 17 per l’attribuzione dell’indennità aggiuntiva ivi prevista.

Le suesposte censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

Dalla menzionata norma, come costantemente interpretata da questa Corte, si ricava infatti che la stessa: 1) riconosce il diritto alla cosiddetta indennità aggiuntiva in favore dei soggetti che traggono i propri mezzi di sussistenza dalla coltivazione del suolo (fittavolo, mezzadro, colono, compartecipante, proprietario coltivatore diretto), condizionando la concreta erogazione del beneficio alla utilizzazione diretta agraria del terreno: ravvisabile secondo il combinato disposto degli artt. 2083, 2135 e 2751 bis cod. civ. in tutte quelle ipotesi in cui la coltivazione del fondo da parte del titolare avviene con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia (Cass. 12306/2008; 17714/2002); 2) richiede l’esistenza di uno dei rapporti agrari tipici dalla stessa previsti la cui prova, per il disposto dell’art. 2697 cod. civ. deve essere fornita da chi da esso intenda trarre conseguenze favorevoli.

Nel caso correttamente la Corte di appello ha escluso in radice che entrambi i requisiti fossero stati documentati dal ricorrente, in quanto: A) la presenza sul fondo all’atto di immissione in possesso del comune, di un soprassuolo, ed in particolare di 95 piante di ulivo nonchè di altri alberi da frutta, ne dimostra soltanto la destinazione agricola impressagli dal proprietario;e non certamente l’esistenza di uno dei rapporti agrari indicati dal menzionato art. 17 con il T. o con altri soggetti, tanto meno dal 1963; che andavano specificamente dimostrati attraverso la prova di tutti i presupposti richiesti dagli artt. 1647 segg. cod. civ. e art. 1 e segg. L. n. 11 del 1971 e L. n. 203 del 1982 per configurare il contratto di affitto di fondo rustico a coltivatore diretto dedotto dal ricorrente: peraltro senza riferirne il contenuto neppure in questa sede di legittimità; B) eguali considerazioni valgono per la riferita presenza, da parte di un teste, di animali sul fondo che nessun elemento neppure indiziario ha ricondotto al T., e men che mai ad un rapporto di natura agraria con il proprietario del fondo; mentre la deposizione testimoniale del concedente non soltanto non ha confermato il dedotto contratto di affitto a coltivatore diretto, ma come ha rilevato la sentenza impugnata, lo ha smentito assumendo che tra le parti era intercorso soltanto un contratto di pasci, , pascolo; C) l’assunta qualifica di coltivatore diretto fondata sull’iscrizione nell’ elenco dei lavoratori agricoli formato dagli SCAU, non è stata correttamente considerata prova, neppur presuntiva che tale qualità egli espletasse nel fondo M. al momento dell’espropriazione; e tanto meno della circostanza neppure allegata, che la coltivazione di detto terreno si svolgesse con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia:come, invece, richiesto dal citato art. 17 per distinguere il coltivatore diretto dalla figura dell’imprenditore agricolo, che esercita la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale su quello lavoro e con impegno prevalente di mano d’opera subordinata. Al quale non spetta la chiesta indennità aggiuntiva (Cass. 8200/2002; 4191/1999); D) vero è infine che la L. n. 11 del 1971, art. 24 ha disposto la trasformazione in affitto dei contratti agrari indicati dalla norma, tra cui "i contratti di pascolo, anche di durata inferiore ad un anno, con corrispettivo rapportato al numero dei capi di bestiame introdotti nel fondo". Ma siffatta trasformazione postulava in base alla norma la "richiesta" del coltivatore che nel caso non risulta neppure allegata; e soprattutto la documentazione del presupposto relativo alla tipologia di corrispettivo, ancora una volta rimasto estraneo al thema decidendum dibattuto nell’intero giudizio.

Mentre ogni altra censura sulla valutazione delle risultanze istruttorie, del contenuto della prova testimoniale, come sulla scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito e non deducibili in sede di legittimità, allorchè su di esse detto giudice ha espresso, come nella specie, congruamente e motivatamente il proprio convincimento:

diversamente, risolvendosi il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice suddetto. Del tutto inconsistente è infine anche il primo motivo del ricorso con cui il T., deducendo violazione dell’art. 83 cod. proc. civ. insiste nel sostenere la mancanza di legittimazione processuale del comune nel giudizio di appello, perchè il mandato al difensore non era stato conferito dalla G.M. con la Delib. n. 50 del 2002 se non per il giudizio di primo grado:avendo la sentenza impugnata accertato che comunque il mandato suddetto allo stesso difensore per il giudizio di appello era stato rilasciato dal sindaco. Sicchè basta ricordare al riguardo la disciplina degli artt. 6, 50 e 107 dell’ordinamento degli enti locali di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, interpretati da questa Corte alla luce della successiva evoluzione normativa, ed in particolare della riforma dell’art. 114 Cost., comma 2 (legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3) e della L. 5 giugno 2003, n. 131, art. 4 di attuazione di tale riforma (da ultimo, v. anche, in tema di rito tributario, il D.L. 31 marzo 2005, n. 44, art. 3 bis, inserito dalla legge di conversione 31 maggio 2005, n. 88, il quale ha modificato il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 11), secondo i quali la rappresentanza processuale del comune spetta in via generale al sindaco, senza necessità di preventiva autorizzazione della giunta:

perciò non più atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all’azione; con la conseguenza che all’organo suddetto è attribuito direttamente dalla legge anche il conseguente potere di conferire al difensore del comune la procura alle liti (Cass. 13968/2011; 13968/2010; 10099/2007). E siccome il T. non ha documentato la sussistenza, nello Statuto dell’ente, di indicazioni di contenuto diverso diviene irrilevante anche il suo apprezzamento restrittivo della delibera autorizzativa della G.M. 50/2002, con il quale peraltro, il ricorrente senza denunciare violazione di canoni legali di ermeneutica e senza specificare pretese deficienze o contraddittorietà dell’iter argomentativo della sentenza impugnata, ne censura inammissibilmente soltanto il risultato del processo interpretativo ed argomentativo perchè difforme da quello da lui prospettato e preteso.

Nessuna pronuncia va emessa sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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