Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 26-03-2012, n. 4775 Procedimento disciplinar

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto depositato il 2/1/2012 presso la segreteria della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, la dr.ssa P.R. ha proposto ricorso contro la sentenza in epigrafe indicata, di cui ha chiesto la cassazione con ogni consequenziale statuizione.

Il Ministro della Giustizia non ha svolto attività difensiva e la cancelleria ha provveduto alla comunicazione della data di trattazione del ricorso.

Alla relativa udienza, il difensore della dr.ssa P. ha chiesto che il Procuratore Generale parlasse per primo in considerazione del sostanziale avvicinamento del procedimento disciplinare a quello penale. In subordine, ha domandato al Collegio di voler sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 379 c.p.c., comma 3, nella parte in cui ammetteva il P.G. ad intervenire per ultimo anche nei procedimenti disciplinari nei quali, rivestendo la qualità di parte, avrebbe dovuto invece trovarsi in una posizione paritaria a quella dell’ incolpato.

Il Procuratore Generale ha contestato la fondatezza delle predette richieste e la Corte le ha rigettate, osservando in proposito che dinanzi alle Sezioni Unite civili dovevano applicarsi, anche nei giudizi in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati, le comuni regole del codice di procedura civile (C. cass. nn. 20603 del 2007, 20844 del 2007, 25815 del 2007 e 27529 del 2008) e che la possibile illegittimità dell’art. 379, comma terzo, cod. proc. civ. era già stata esclusa dalla Corte costituzionale con sentenza n. 403 del 1999.

L’avvocato della ricorrente ha quindi svolto le sue difese, insistendo per l’accoglimento del ricorso, mentre il PG ha concluso per il suo rigetto.

Motivi della decisione

Emerge in fatto che la dr.ssa P. è stata rinviata a giudizio una prima volta per rispondere del ritardato deposito, fino al 31 gennaio 2009, di una nutrita serie di provvedimenti in materia penale e civile. Con sentenza n. 105 del 2010, passata in giudicato a seguito del rigetto del ricorso contro di essa proposto, la Sezione Disciplinare ha ritenuto la responsabilità dell’incolpata, infliggendole la sanzione della censura.

Successivamente, la dr.ssa P. è stata nuovamente rinviata a giudizio per altra incolpazione analoga, ma con sentenza n. 34 del 2011 la Sezione Disciplinare ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti perchè il ritardo di cui si discuteva si era verificato nel medesimo periodo dei precedenti e risultava, perciò, coperto dal giudicato già formatosi su di essi.

Il Ministro della Giustizia ha impugnato per cassazione, ma il relativo ricorso è stato rigettato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 2927 del 2012.

Nelle more di tale processo, la dr.ssa P. è stata rinviata un’altra volta a giudizio per ritardi commessi fino all’8 marzo 2011, data nella quale doveva ancora depositare 197 sentenze, 76 delle quali già comprese nell’elenco dei ritardi allegato alla prima incolpazione.

All’esito del dibattimento, il Procuratore Generale ha concluso per l’irrogazione della sanzione della rimozione e la Sezione Disciplinare, premesso innanzitutto che l’illecito in questione presupponeva non soltanto la gravita e la reiterazione dei ritardi, ma pure la mancanza di cause di giustificazione, ha quindi precisato che nel caso di specie si procedeva unicamente per fatti nuovi nonchè per l’ulteriore considerevole ritardo accumulato nella redazione delle "vecchie" sentenze.

Esclusa, perciò, qualsiasi preclusione da giudicato e riconosciuta nel contempo la possibilità di un’autonoma valutazione dei ritardi sopravvenuti alla incolpazione iniziale, la Sezione Disciplinare ha poi ricordato che la dr.ssa P. si era difesa allegando a sua discolpa le proprie precarie condizioni di salute, la grave invalidità della madre da lei assistita ed il pesante sovraccarico di lavoro derivato dalla sua applicazione in Tribunale anche dopo il trasferimento alla Corte di appello.

A tale riguardo, non poteva però trascurarsi che l’incolpata aveva incominciato a non rispettare i termini di deposito fin da epoca precedente, in quanto i ritardi si erano verificati a partire dal 2002, quando la dr.ssa P. era in forza al solo Tribunale e doveva ancora palesarsi la malattia della madre (risalente, come il trasferimento in Corte, al successivo anno 2004).

Tenuto conto di quanto sopra e considerato che i ritardi erano continuati anche dopo la cessazione dell’applicazione in Tribunale (avvenuta tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007), protraendosi per altri quattro anni fino al marzo del 2011, la Sezione Disciplinare ne ha pertanto negato la riconducibilità alle circostanze addotte dall’incolpata, di cui ha conseguentemente affermato la responsabilità disciplinare per l’illecito previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q).

Venendo, infine, alla determinazione della sanzione, il giudice a quo ha rimarcato in primo luogo "l’entità, la natura e la protratta reiterazione dei ritardi, non interrotti neppure dalla prima sentenza di condanna. Si tratta(va) infatti di ritardi che in molti casi riguarda(va)no il 90% dei provvedimenti depositati" e "raggiung(eva)no entità intollerabili, con punte massime di circa sei anni … anche in giudizi di equo indennizzo per durata irragionevole del processo. Ne risulta(va) così un danno d’immagine gravissimo per un’istituzione giudiziaria che neppure in quei giudizi ri(usciva) a evitare ritardi pluriannali".

E poichè tale "costume di costante inadempienza persisteva) ormai da circa un decennio, senza che si ri(uscisse) porvi rimedio", appariva "inevitabile l’irrogazione della sanzione della rimozione, non essendo prevedibile un recupero di accettabili ritmi di lavoro" da parte dell’incolpata. Quest’ultima ha proposto ricorso per cassazione, deducendo con il primo motivo la inosservanza e/o erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q), in quanto la Sezione Disciplinare si era limitata ad una valutazione del fatto nella sua materialità, prescindendo "dall’accertamento in ordine all’elemento soggettivo della colpa" che, invece, avrebbe dovuto formare oggetto di un’attenta verifica dato che la fattispecie in esame non "si configura(va) come un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma si inquadra(va) nella categoria della responsabilità civile secondo la generale qualificazione di cui all’art. 2043 cod. civ.".

Con il secondo motivo la ricorrente ha nuovamente dedotto la inosservanza e/o erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q) e del generale principio di proporzionalità della sanzione alla gravita anche soggettiva del fatto, in quanto il giudice disciplinare aveva formulato un giudizio d’irrecuperabilità dell’incolpata sulla sola base del numero e della durata dei ritardi, trascurando "del tutto" le circostanze dalla medesima indicate proprio a tali fini e non per escludere l’oggettività dell’illecito.

Con il terzo motivo, la ricorrente ha infine dedotto il difetto di motivazione su punto decisivo della controversia, in quanto la Sezione Disciplinare aveva omesso di spiegare adeguatamente le ragioni per le quali aveva creduto di dover applicare la sanzione massima che, in base a sistema, non poteva prescindere dalla valutazione della situazione complessiva in cui versava concretamente l’incolpato. Le predette doglianze possono essere esaminate congiuntamente per via della loro intima connessione. A questo proposito e premesso che la individuazione della sanzione appropriata è rimessa alla Sezione Disciplinare, la cui valutazione non è sindacabile dalla Suprema Corte se non in presenza di errori logici o giuridici, osserva il Collegio che nel caso di specie il giudice a quo non si è affatto pronunciato come se si vertesse in un caso di responsabilità oggettiva, ma si è fatto carico di accertare l’ascrivibilità dei ritardi ad un comportamento colposo della incolpata. A tal fine ha preso in esame le giustificazioni fornite dalla dr.ssa P. e dopo averle soppesate anche alla luce del tempo di verificazione dei ritardi, della durata degli stessi e della foro protrazione malgrado l’inizio delle azioni disciplinari e la pronuncia di una sentenza di condanna, ne ha escluso la rilevanza con argomenti plausibili, formulando all’esito una prognosi negativa di ravvedimento che rapportata alla indubbia gravita del pregiudizio che la incolpata aveva già inferto ed avrebbe continuato ad arrecare all’immagine della Magistratura, deponeva inevitabilmente per l’inutilità e l’inadeguatezza di qualsiasi altra sanzione diversa dalla rimozione.

La ricorrente ha, nella memoria, messo in dubbio la possibilità, per la Sezione Disciplinare, di applicarle la rimozione, contestando, in ogni caso, anche l’esattezza del giudizio sfavorevole espresso dal giudice a quo in ordine alla probabilità di un suo recupero.

La prima obiezione è infondata in quanto nessuna norma del D.Lgs. n. 109 del 2006 impediva alla Sezione Disciplinare di punire i ritardi con la rimozione, nè subordinava l’applicazione di quest’ultima alla previa inflizione di una misura intermedia, che la Sezione Disciplinare poteva quindi "saltare" salva, ovviamente, la necessità di una congrua motivazione sulla gravita della vicenda e sulla proporzionalità della sanzione prescelta, da calibrarsi con riferimento non soltanto ai fatti materiali, ma pure alla personalità della incolpata così come desumibile anche dal ravvedimento dimostrato attraverso, per esempio, la ripresa di una buona produttività o l’eliminazione dell’arretrato o, quanto meno, il rispetto di eventuali piani di rientro concordati con il presidente.

La Sezione Disciplinare ha, come si è visto, motivato su entrambi i fronti e la ricorrente si è al riguardo limitata ad una censura sostanzialmente diretta ad ottenere una rimeditazione della sua posizione senza, per di più, il supporto di dati precisi su piani di rientro, produttività complessiva o sentenze ancora da depositare rispetto alle 197 che, secondo l’incolpazione, non erano state ancora redatte alla data dell’8/3/2011 (a proposito delle quali non sembra inutile ricordare che nel corso della udienza disciplinare la incolpata ha prodotto una certificazione di cancelleria dalla quale risulta che a quell’epoca ne restavano da scrivere la maggior parte).

Tenuto conto di quanto sopra, il ricorso della dr.ssa P. va, pertanto, rigettato.

Non occorre provvedere sulle spese, stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte del Ministro e la qualità di parte in senso solo formale del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *