Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Osserva
1. Con sentenza 20 giugno 2005 la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza 28 marzo 2003 di quel Tribunale che aveva condannato L.N., titolare della ditta "Licata Giocattoli" di Palermo, e O.F., dipendente del L. con funzioni di magazziniere, rispettivamente alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione ed alla pena di anni quattro e mesi sette di reclusione per i seguenti reati:
Il solo L.:
Capo A – incendio doloso (artt. 423 e 425 c.p.) di una parte dei locali della ditta "Licata Giocattoli" (pari a mq. 1650) e della merce in essi contenuta, commesso il ?.
Il L. e l’ O. in concorso tra loro:
Capo B – incendio doloso (artt. 423 e 425 c.p.) degli interi locali della ditta "Licata Giocattoli" (pari a mq. 4500) e della merce in essi contenuta, nonchè dell’edificio abitato da oltre sessanta famiglie e degli esercizi commerciali adiacenti; commesso il ?;
Capo C – crollo doloso (art. 434 c.p.) dei locali della ditta "Licata Giocattoli", di parte dell’edificio sovrastante e di sette negozi adiacenti; commesso il ?;
Capo D – per avere cagionato, come conseguenza non voluta dei reati di cui ai capi C e D (art. 586 c.p.), la morte del vigile del fuoco B.N., impegnato nelle opere di spegnimento dell’incendio; commesso il ?;
Capo E – per avere posto in essere le condotte di cui ai capi precedenti al fine di conseguire il risarcimento previsto dalla polizza assicurativa stipulata dal L. nel ? con le Assicurazioni Generali s.p.a.; in Palermo fino al ?.
La Corte di secondo grado basava la propria decisione sulle seguenti argomentazioni:
– Che gli accertamenti tecnici avevano evidenziato come l’incendio del ? fosse stato provocato da un quantitativo di benzina (circa un litro) versato su un paio di scaffali metallici posti sul fondo del negozio di vendita al pubblico e si fosse sviluppato rapidamente.
– Che il fumo era stato notato per la prima volta dalla teste P. alle ore 13.45, mentre i vigili del fuoco avevano fissato il momento di inizio dell’incendio del ? tra le 13.15 e le 13.43.
– Che il L. era stato l’ultimo a lasciare i locali del negozio uscendo e chiudendolo per la pausa pranzo alle ore 13.25 di quel ?.
– Che non altri se non il L. avrebbe potuto appiccare il primo incendio, visto che è stato l’ultimo a uscire.
– Che gli autori del fatto non possono essere stati dei terzi estranei perchè "se così fosse stato i predetti avrebbero atteso la chiusura del negozio prima di agire".
– Che i due incendi – del ? e del ? – vanno valutati congiuntamente "poichè rivelano la riconducibilità dei due eventi allo stesso soggetto", dal momento che "sono stati realizzati con identiche modalità esecutive, vale a dire in pieno giorno, all’interno dei locali e non all’esterno e, soprattutto, allo stesso orario".
– Che secondo il consulente l’incendio del 27 agosto aveva avuto "un’origine policentrica caratterizzata da una dinamica veloce" e, in particolare, era stato originato da sei distinti focolai dislocati su due piani: il primo e il secondo piano cantinato.
– Che il ?, verso le ore 13, alcuni testimoni avevano visto il fumo uscire dalle finestre del magazzino della ditta.
– Che quel giorno ? la chiusura del negozio per la pausa pranzo era intervenuta verso le ore 13.
– Che secondo il consulente tecnico alle ore 13 di quel ?, al momento della chiusura del negozio, l’incendio era stato già attivato, Perchè altrimenti, all’arrivo dei vigili del fuoco, circa venti minuti dopo la chiusura del negozio, "l’incendio non avrebbe assunto le vaste dimensioni che in realtà ha avuto".
– Che di conseguenza "a commettere l’incendio non può che essere stato il L. e mai certamente terzi estranei poichè, se fossero stati questi ultimi, i predetti avrebbero atteso la chiusura del negozio prima di agire".
– Che "la necessità di ripetere l’iniziativa criminosa commettendo il secondo incendio ? dimostra l’estrema imperizia dell’autore di entrambi", ragion per cui "soltanto soggetti inesperti e estranei al mondo del crimine e ancor più a contesti di tipo mafioso possono avere assunto le due iniziative criminose"; il che comporta, secondo la Corte di merito, che "la individuazione del responsabile ben si attaglia alla personalità del L.", essendo persona priva di trascorsi penali.
– Che infine, secondo la Corte di merito, "il movente che ha mosso la mano del L. è duplice: lucrare l’indennizzo previsto dal contratto di assicurazione per destinarlo al pagamento almeno in parte dell’ingente somma che avrebbe dovuto corrispondere al fratello Giacomo", a causa di una complessa e risalente controversia civile in atto tra i due fra Relativamente alla posizione di O.F., magazziniere della ditta in questione, la Corte di secondo grado basava la propria decisione di confermarne la condanna sulle seguenti argomentazioni:
– O.F. era tra le persone presenti nei locali della ditta quel ?.
– Dalle 12 alle 13 era rimasto tutto il tempo nel deposito sito al secondo piano cantinato ed era risalito al primo piano solo al momento della chiusura del negozio.
– Quel giorno l’ultimo a uscire fu l’ O. e, su incarico del L., fu lui a chiudere i locali della ditta riconsegnando poi le chiavi al L. che gliele aveva affidate.
– Da ciò si doveva desumere, secondo la Corte di merito, che era stato l’ O. a provocare l’incendio, previa intesa con il L..
2. Avverso la sentenza di secondo grado propongono ricorso per Cassazione i difensori del L. e dell’ O..
Il ricorrente O. deduce l’illogicità della motivazione e la violazione di legge con riferimento all’art. 192 c.p.p., comma 2, sostenendo che non vi siano indizi gravi, precisi e concordanti da cui desumere la sua responsabilità penale per i fatti del ?, e lamenta che la sentenza impugnata non abbia dato risposta o abbia dato risposta incongrua o comunque insufficiente alle doglianze specifiche contenute nei motivi di appello sottolineando, in particolare, la mancata indicazione di un valido movente che possa concernere la sua persona, nonchè la totale assenza di risposta alle argomentazioni contenute nei motivi di appello con le quali la difesa O. aveva contestato la tesi del "rapporto di sudditanza" che era stata sostenuta nella sentenza di primo grado.
La difesa del L. ricorre per cinque ordini di motivi.
Con il primo motivo deduce la mancanza ed illogicità della motivazione in relazione alla responsabilità penale per i due delitti di incendio contestati ai capi A e B, lamentando in particolare che l’impugnata sentenza non abbia dato risposta o abbia dato risposta incongrua e inadeguata alle specifiche e argomentate doglianze contenute nei motivi di appello, segnatamente laddove la difesa aveva contestato:
– il punto in cui la sentenza di primo grado aveva assunto elementi di convincimento circa la natura dolosa del primo incendio dalle caratteristiche del secondo incendio trascurando il primo giudizio espresso dai Vigili del fuoco;
– il punto in cui la sentenza di primo grado aveva sostenuto che il L. avrebbe appiccato il fuoco nei suoi locali nel quadro di una vertenza con suo fratello sia allo scopo di sottrarre beni alla divisione con il congiunto sia allo scopo di ottenere liquidità dalla compagnia assicuratrice;
– il punto in cui la sentenza di primo grado aveva escluso, in relazione a entrambi gli incendi, che terzi estranei potessero essere entrati nel locale per appiccare il fuoco, possibilità su cui la difesa aveva argomentato nei motivi di appello sottolineando come l’ingresso di estranei fosse divenuto più agevole a seguito dei danni dovuti al primo incendio;
– il punto in cui la sentenza di primo grado aveva escluso che gli incendi potessero riconnettersi al fatto che il L. era stato sottoposto a richieste estorsive da parte della mafia alle quali aveva cercato di sottrarsi;
– il punto in cui la sentenza di primo grado aveva ritenuto di poter fissare con relativa precisione l’ora in cui il fuoco venne appiccato in occasione del secondo incendio, nonostante la "estrema varietà ed inattendibilità di molte delle dichiarazioni rese, seppure in buona fede, dai testimoni esaminati.
Sempre nel primo motivo di ricorso L. vengono contestati come manifestamente illogici taluni argomenti della sentenza di secondo grado, come quello in cui si sostiene "l’estrema imperizia" di chi appiccò gli incendi e si desume da tale notazione un indizio ulteriore a carico del L. in quanto soggetto inesperto e estraneo al mondo del crimine, ovvero quello in cui, per escludere l’ipotesi di una matrice mafiosa, si sostiene che non sarebbe possibile individuare una volontà di intimidazione "dal momento che non vi è stato il ricorso a mezzi esplosivi".
Con il secondo motivo di ricorso la difesa L. deduce l’erronea applicazione della legge penale e l’illogicità della motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 434 c.p. (capo C), posto che tale norma sarebbe applicabile solo fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, quindi solo quando il crollo sia determinato da atti diversi da quelli integranti uno dei delitti configurati negli articoli precedenti.
Con il terzo motivo di ricorso la difesa L. deduce l’erronea applicazione della legge penale e l’illogicità della motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 586 c.p. (capo D), lamentando che la sentenza impugnata non avrebbe motivato specificamente circa la prevedibilità in concreto dell’evento morte con riferimento allo specifico rischio creato dalle concrete modalità di realizzazione dell’illecito doloso di cui al capo B. Con il quarto motivo di ricorso (strettamente collegato e conseguente al primo motivo) la difesa L. chiede l’annullamento della sentenza impugnata anche in relazione all’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 642 c.p. (capo E).
Con un ultimo motivo di ricorso la difesa L. deduce l’erronea applicazione della legge penale e l’illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla mancata applicazione di un minimo aumento di pena per effetto della riconosciuta continuazione.
3. Entrambi i ricorsi sono fondati e meritano accoglimento. Per quanto riguarda i motivi di ricorso attinenti al merito dell’accusa relativa ai reati di cui ai capi A e B le doglianze avanzate dai due ricorrenti (ricorso O. e primo motivo di ricorso L.) possono essere trattate congiuntamente.
In proposito osserva il Collegio che la stringatissima sentenza impugnata si limita a ribadire succintamente e frettolosamente (quindi a riassumere lacunosamente) le argomentazioni che erano state svolte dai giudici di primo grado, sottraendosi così all’obbligo di fornire puntuale risposta alle controargomentazioni contenute nei motivi di appello svolti dalle difese dei due imputati.
I ricorsi sono fondati anche laddove mettono in luce le affermazioni apodittiche e le argomentazioni gravemente illogiche che caratterizzano qua e là il provvedimento impugnato, come quella che ritiene di poter desumere un indizio a carico del L. dalla sua qualità di soggetto "inesperto e estraneo al mondo del crimine" (pag. 6), o quella che sottolinea il mancato ricorso a mezzi esplosivi come argomento per escludere la matrice mafiosa (pag. 9).
Sotto il primo profilo basti dire che l’estraneità al mondo del crimine è una connotazione estremamente generica che si attaglia alla stragrande maggioranza degli esseri umani, ed è francamente illogico ritenere di poter desumere da tale connotazione – di per sè quanto meno neutra – una sorta di paradossale indizio di reato; sotto il secondo profilo, basti dire che la lunga e articolata elaborazione giudiziaria che si è sviluppata intorno alle attività criminali delle mafie storiche dimostra che la forza di intimidazione che le contraddistingue non è legata esclusivamente all’uso di esplosivi.
A proposito, poi, del movente che avrebbe indotto l’ O. a appiccare il secondo incendio, l’illogicità della motivazione del provvedimento impugnato è particolarmente grave laddove si afferma (pag. 13) che la responsabilità dell’ O. è "oggettivamente desumibile dalla sua presenza sui luoghi e dal mero rapporto di lavoro che lo legava al L."; illogicità davvero manifesta, tanto più se si considera che la stessa sentenza di secondo grado da conto della presenza di un certo numero di altri dipendenti del L. sul luogo del secondo incendio. Questo argomento irrazionale, inoltre, si aggancia ad un altra affermazione altrettanto illogica che si può leggere nelle righe che immediatamente lo precedono: si tratta di un’affermazione decisamente apodittica, secondo la quale "il fatto che ? il L. abbia potuto avvalersi dell’opera dell’ O. deriva intuitivamente dalla manifestata disponibilità dell’ O. ad assecondare i propositi criminosi del proprio datore di lavoro, senza che sia necessario per questo indagare sull’esistenza di recondito rapporto di sudditanza psicologica". Va anzitutto sottolineato, infatti, che l’affermata "manifestata disponibilità dell’ O. ad assecondare i propositicriminosi del proprio datore di lavoro" è rimasta un postulato totalmente privo di qualsiasi tentativo di dimostrazione. D’altro canto, poichè la tesi della sudditanza psicologicà dell’ O. rispetto al L. era stata sostenuta (quale elemento indiziante per entrambi gli imputati) nella sentenza di primo grado, ed era stata specificamente contestata nei motivi di appello, è del tutto evidente che era preciso dovere della Corte di secondo grado fornire un’adeguata e altrettanto specifica risposta sul punto, anzichè limitarsi a definire non necessario indagare su tale aspetto della vicenda processuale.
Dati i gravi vizi logici della motivazione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo per un riesame complessivo degli elementi probatori prospettati dall’accusa a carico rispettivamente dei due imputati in ordine ai due incendi di cui ai capi A e B. 4. Pure fondato è il secondo motivo di ricorso proposto dalla difesa L. relativamente al delitto di crollo doloso di cui all’art. 434 c.p., comma 2, contestato al capo C, ancorchè per ragioni non del tutto coincidenti con quelle prospettate dal ricorrente.
Va premesso che l’art. 434 c.p., che prevede congiuntamente il delitto di crollo doloso di costruzioni e il delitto di disastro doloso innominato, è ricompreso – così come il delitto di incendio doloso previsto dall’art. 423 c.p. – tra i "delitti di comune pericolo mediante violenza" (Libro 2^, Titolo 6^, Capo 1^, artt. 422 e 437 c.p.). Peraltro, la peculiarità dell’art. 434 c.p., (proprio per il fatto di prevedere congiuntamente il crollo doloso e il disastro innominato) è quella di costituire una norma di chiusura nel quadro, appunto, della sottoclasse dei delitti di disastro.
Orbene, ritiene il Collegio che, come del resto è ritenuto dalla dottrina più recente, l’espressione "fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti", contenuta nell’art. 434 c.p., rimanda non già a tutti gli articoli precedenti contenuti nel Capo 1^, bensì soltanto a quelli, tra gli articoli precedenti, che prevedono altri delitti di disastro. Tra questi ultimi rientrano, per esempio, l’art. 428 c.p. (naufragio), l’art. 430 c.p. (disastro ferroviario), l’art. 432 c.p. (attentato alla sicurezza dei trasporti), ma non anche l’art. 423 c.p. che prevede il delitto di incendio.
Nel caso di specie il delitto di cui all’art. 434 c.p., comma 2 è stato contestato – in concorso formale con il delitto di cui all’art. 423 c.p. – perchè, in conseguenza dell’incendio del ?, si è verificato il crollo parziale dell’edificio sovrastante alla ditta "Licata Giocattoli", per modo che l’accusa ha ritenuto che i due imputati, provocando l’incendio, abbiano al tempo stesso commesso "un fatto diretto a cagionare il crollo" dell’edificio sovrastante; con l’aggravante di avere effettivamente cagionato tale crollo (parziale). In altri termini, lo stesso fatto materiale è stato configurato come reato due distinte volte sulla base di due distinte norme incriminatrici.
Ritiene questa Corte che l’iter logico motivazionale percorso dalla sentenza impugnata sia viziato sotto un duplice profilo.
Sotto il primo profilo, infatti, nella sentenza impugnata si riscontra un difetto di motivazione circa l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 434 c.p., dal momento che nessuna argomentazione viene prospettata dalla Corte di merito a tale proposito. In altri termini, il delitto di crollo doloso viene ritenuto sussistente per il fatto in sè della materialità del crollo, e la volontà di cagionare il crollo viene affermata apoditticamente in capo a coloro che sono accusati di avere appiccato l’incendio. La sentenza impugnata va quindi annullata anche sotto questo profilo, e il giudice di rinvio dovrà analizzare il contesto probatorio onde stabilire, motivatamente, se l’elemento soggettivo del delitto di crollo doloso sia effettivamente ravvisabile, quanto meno in termini di dolo eventuale, o se invece sia configurabile soltanto il dolo di incendio ex art. 423 c.p..
Sotto il secondo profilo – qualora sia effettivamente ravvisabile il dolo di crollo ex art. 434 c.p. – la sentenza impugnata appare comunque viziata per difetto di motivazione perchè non si pone il problema del rapporto esistente fra il delitto di incendio doloso e il delitto di crollo doloso quando i due delitti, come nel caso di specie, vengano ricollegati a un’identica condotta materiale, oltre che a un’identica offesa agli interessi tutelati dalla legge. A questo proposito ritiene il collegio che tra le due norma in questione debba riconoscersi esistente il cosiddetto rapporto di "sussidiarietà", ovvero di "consunzione", ispirato al principio del ne bis in idem sostanziale secondo il quale (anche fuori dei casi di vera e propria specialità) nessuno può essere punito più volte per lo stesso fatto (ovvero, più precisamente, per la medesima offesa ai beni tutelati dalla legge).
In particolare, il rapporto di consunzione, secondo la più autorevole dottrina in argomento, è un rapporto di valore tra due norme incriminatrici, in base al quale l’apprezzamento negativo dell’accadere concreto riconducibile ad un’unica condotta (la dottrina parla di "identità normativa del fatto") appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave, di guisa che applicare anche la norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto moltiplicarsi della sanzione. In altri termini, il rapporto di consunzione comporta sempre la prevalenza della norma che prevede il reato più grave, ovvero, più precisamente, quella che prevede il trattamento penale più severo (anche quando il trattamento più severo si ricolleghi, come nel caso di specie, alla sussistenza di una circostanza aggravante specifica).
Pertanto, se il reato di crollo di costruzione previsto dal secondo comma dell’art. 434 c.p. (pena edittale da tre a dodici anni di reclusione) sia commesso cagionando l’incendio della costruzione (art. 423 c.p.: pena edittale da tre a sette anni di reclusione), dovrà trovare applicazione solo la norma che incrimina il crollo doloso (aggravato ex comma 2), in base al principio di sussidiarietà tra norme che prevedono stati o gradi diversi di offesa di un medesimo bene (nel caso: la pubblica incolumità), in quanto l’offesa maggiore assorbe quella minore e, di conseguenza, l’applicabilità di una norma è subordinata alla mancata applicazione dell’altra (cfr.
Cass., Sez. 6^, 30 aprile 1999 n. 1531, dep. 16 giugno 1999, Sibio, CED-214741, che ha affermato l’assorbimento del reato di frode processuale nel più grave reato di falsa perizia contestato a colui che aveva indotto in errore il perito trasmettendogli un documento certificativo falso).
5. Gli altri motivi di ricorso devono ritenersi assorbiti in quelli sin qui trattati. Peraltro, data l’ampiezza ed il rilievo delle questioni sulle quali il giudice di rinvio è chiamato a intervenire, è opportuno che il nuovo esame si estenda fino ad abbracciare nuovamente anche le questioni residue, con particolare riguardo – relativamente al reato di cui all’art. 586 c.p. contestato al capo D – alla prevedibilità in concreto dell’evento morte.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appella, di Palermo.
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