Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 22-09-2011) 14-10-2011, n. 37055

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 29.9.2010 la Corte di appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale di Pavia, in data 12.11.2009, con la quale M. G. era stato condannato alla pena di mesi due di arresto ed Euro 3.500 di ammenda, con la concessione delle circostanze attenuanti generiche e la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria di Euro 2.230 di ammenda, in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12, per avere occupato alle proprie dipendenze una lavoratrice di nazionalità macedone, C.S., priva del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, nel periodo dal 26.8.2005 al settembre 2006.

La Corte di merito evidenziava che la circostanza che la lavoratrice fosse entrata regolarmente in Italia non aveva alcun rilievo attesa la mancanza del permesso di soggiorno per lavoro subordinato; che senza alcun dubbio la C. aveva svolto lavoro subordinato presso al famiglia M. ed aveva fruito di vitto ed alloggio nell’abitazione del M., pertanto, il rapporto di lavoro subordinato si era instaurato con i coniugi M. e del tutto irrilevante doveva ritenersi la circostanza che vi fossero dei rapporti tra la famiglia della lavoratrice e la suocera del M. di nazionalità macedone.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, il M. certamente aveva contezza dell’attività svolta dalla C. e della retribuzione che le veniva versata, nonchè, della circostanza che la stessa avendo soltanto il visto di ingresso non poteva essere assunta.

2. L’imputato ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, denunciando:

a) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del rapporto di lavoro subordinato ed, in specie, alla qualità dell’imputato di datore di lavoro, atteso che la C. era regolarmente presente sul territorio nazionale essendo entrata in Italia con il permesso Schengen e che il rapporto era stato attivato e proseguito con la suocera del M.;

b) violazione di legge e vizio di motivazione avuto riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico, tenuto conto che l’attuale fattispecie delittuosa, diversamente da quella contravvenzionale richiede il dolo.

Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.

In sostanza il ricorrente ripropone le censure poste a fondamento dell’appello sulle quali la Corte territoriale ha motivato in maniera compiuta, facendo corretta applicazione dei principi di diritto e con un percorso argomentativo esente da vizi sindacabili In questa sede.

Quanto al primo motivo di ricorso deve rilevarsi, in primo luogo, che la violazione contestata al ricorrente di cui al T.U. imm., art. 22, comma 12 fa riferimento all’occupazione di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto specificamente dallo stesso art. 22, o che comunque consentano lo svolgimento di attività lavorativa, pertanto, è irrilevante la circostanza che la lavoratrice fosse in Italia con il visto d’ingresso Schenghen. Infondata è, altresì, la doglianza in ordine alla qualità di datore di lavoro del ricorrente. Invero, la Corte territoriale – richiamando anche la sentenza di primo grado – ha compiutamente motivato rilevando che risultava accertato che la C. svolgeva attività lavorativa subordinata domestica presso la famiglia M. e che il rapporto di lavoro si era instaurato con i coniugi M. che, come ha riconosciuto lo stesso ricorrente, ne fruivano anche durante le vacanze e che le davano il permesso per allontanarsi. E’, quindi, irrilevante la circostanza che, stando alle affermazioni del ricorrente, il corrispettivo di Euro 600 mensili fosse pagato direttamente ai familiari della C. in Macedonia dalla suocera.

Come è noto, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte in materia di lavoro, costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione (Sez. L, n. 2728, 08/02/2010, rv. 611917). Alla luce di tali criteri ermeneutici, dunque, appare corretta – sulla base delle suddette circostanze di fatto – la valutazione operata dai giudici di merito della qualità di "datore di lavoro", presupposto necessario ai fini della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato proprio contestato al ricorrente.

2. E’, altresì, infondato il secondo motivo di ricorso relativo alla sussistenza dell’elemento psicologico.

Invero, nelle sentenze di primo e secondo grado è stato specificamente argomentato con motivazione compiuta ed immune da vizi di logica e coerenza che da tutte le circostanze emerse nel processo e dalle stesse dichiarazioni del ricorrente risultava provata la piena consapevolezza da parte dello stesso sia della natura del rapporto instaurato con la C., sia della circostanza che la stessa non avesse il permesso necessario per essere assunta, tanto che alla scadenza del visto di ingresso aveva interrotto il rapporto di lavoro totalmente irregolare.

Pertanto, nella specie, all’evidenza non si versa in ipotesi di errore sul fatto del datore di lavoro in ordine alla regolarità della presenza del lavoratore sul territorio italiano, tale da escludere l’elemento psicologico del delitto di assunzione di stranieri privi del permesso di soggiorno che a seguito della modifica introdotta dal D.L. n. 92 del 2008 è divenuto doloso, ragione per la quale – secondo il principio affermato da questa Corte e condiviso dal Collegio -la disposizione dell’art. 2 c.p., comma 2, va applicata ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della menzionata modifica legislativa (Sez. 1, n. 9882, 30/11/2010, Meloni, rv. 249867).

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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