Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 27-03-2012, n. 4898 Cumulo di stipendio di attività e pensione a carico dello Stato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 31 agosto 2009 la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Parma del 29 settembre 2004 che ha condannato l’I.N.P.S. alla corresponsione in favore di V.M., già beneficiaria di trattamento pensionistico ridotto perchè in regime di cumulo con trattamento retributivo part time ai sensi della L. n. 662 del 1996, della pensione VO in misura piena a partire dal gennaio 2003 in applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 44. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia ritenendo la generale applicazione di tale L. n. 289 del 2002 abrogativa di tutti i divieti sia totali che parziali di cumulo fra pensione e retribuzione, considerando che un’interpretazione restrittiva che escluda i beneficiari del trattamento pensionistico ridotto perchè cumulato con retribuzione per rapporto part time ai sensi della L. n. 662 del 1996, sarebbe illogico perchè contrario all’intento del legislatore di favorire la cumulabilità in questione senza limitare il beneficio proprio per coloro che il legislatore stesso nel 1996 aveva inteso favorire con la possibilità di cumulabilità parziale.

L’I.N.P.S. propone ricorso per cassazione avverso tale pronuncia affidato ad unico motivo.

Resiste con controricorso la V..

Il ricorrente ha presentato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

Con l’unico motivo si lamenta violazione della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 185 e 187 e del D.M. 29 luglio 1997, n. 331, artt. 1, 3 e 4; violazione e falsa applicazione della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 44, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3. In particolare il ricorrente deduce che la pensione di cui beneficia la V. ai sensi della L. n. 662 del 1996 sarebbe fisiologicamente ridotta per il contemporaneo svolgimento di un rapporto di lavoro part time, e non rientrerebbe nel divieto di cumulo nemmeno parziale, a cui fa riferimento la L. n. 289 del 2002 che sarebbe conseguentemente inapplicabile alla fattispecie.

Il motivo è fondato. Come ha affermato recentemente questa corte in fattispecie analoga (Cass. 2 dicembre 2011 n. 25800) fin dall’inizio ( L. n. 153 del 1969, art. 22) la pensione di anzianità dei dipendenti privati è stata incumulabile per l’intero con il reddito da lavoro dipendente e detta incumulabilità piena con il reddito da lavoro subordinato è rimasta inalterata ( D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, commi 1 e 2), dovendo il lavoratore subordinato risolvere il rapporto di lavoro ( D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, comma 6) per potere godere della prestazione pensionistica. Un’ulteriore tappa del processo evolutivo riguarda la fase di regime della riforma del 1995;

cioè le pensioni da liquidare esclusivamente con il sistema contributivo, una volta soppressa la distinzione tra pensione di vecchiaia e pensione di anzianità. Tale riforma aveva previsto la vigenza, fino al compimento da parte dell’interessato dell’età di 62 anni, del regime di incumulabilità con il reddito da lavoro dipendente, nella sua interezza, e con il reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo; e invece dall’età di 63 anni in poi, del regime di incumulabilità della pensione con i redditi sia da lavoro dipendente che da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente l’importo del trattamento minimo ( L. n. 335 del 1995, art. 1, commi 21 e 22). Detti limiti al cumulo tra pensione e redditi da lavoro sono ormai sostanzialmente superati ed attualmente le pensioni di anzianità sono intermente cumulabili con i redditi da lavoro tanto autonomo che dipendente, purchè il lavoratore abbia una determinata anzianità contributiva ( L. n. 388 del 2000, art. 72 e della L. n. 289 del 2002, art. 44). La L. n. 243 del 2004 aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi contenenti norme intese tra l’altro "ad eliminare progressivamente il divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro (art. 1, comma 1, lett. b) ma la delega non è stata attuata; tuttavia successivamente ha provveduto alla "liberalizzazione" la L. n. 133 del 2008, art. 19.

Questa essendo l’evoluzione normativa in tema di disciplina dei limiti al concorso del reddito da lavoro con il trattamento pensionistico di anzianità, deve rilevarsi che è stato ritenuto che la nuova "disciplina non si estenda anche al pubblico impiego, per il quale continua ad operare il regime di incumulabilità già fissato dal D.P.R. n. 758 del 1965, art. 4". Anche ove sia ritenuto, tuttavia, che il regime di liberalizzazione sia ormai operante per tutti i settori, deve preliminarmente, ai fini della decisione della questione all’esame, individuarsi la natura della norma contenuta nella L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 185, nata come eccezione di favore in deroga al vecchio regime generale, per valutare se la stessa sia resistente o meno al processo di evoluzione nel senso della liberalizzazione sopra delineata. A norma dell’art. 15 preleggi, infatti, l’abrogazione tacita si realizza sia quando le disposizioni della nuova legge siano incompatibili con quelle della legge anteriore, sia quando la nuova legge regoli l’intera materia già regolata dalla legge anteriore, non potendo ovviamente coesistere, in quest’ultimo caso, due leggi che regolino per intero la medesima materia. Tuttavia, la regola dell’abrogazione non si applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale e quella successiva, invece, generale (legi speciali per generalem non derogatur), ritenendosi che la disciplina generale – salvo espressa volontà contraria del legislatore – non abbia ragione di mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal legislatore precedente. Le norme speciali sono norme dettate per specifici settori o per specifiche materie, che derogano alla normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell’ambito disciplinato ed obbediscono all’esigenza legislativa di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse.

Le norme eccezionali, invece, sono definite dall’art. 14 preleggi come norme che fanno eccezione a regole generaci. In questo senso esse sono norme speciali. E’ ovvio che tanto le norme speciali quanto le norme eccezionali si pongano in termini di deroga rispetto a regole generali, perchè finalizzate o a "calibrare" certi istituti alle particolarità specifiche di un determinato settore o perchè sono gli stessi presupposti di fatto che impongono un intervento legislativo derogatorio delle regole vigenti. Ne consegue che in nessun caso ne è ammessa l’applicazione analogica, altrimenti frustrandosi la natura speciale o eccezionale che le caratterizzano.

Orbene, la norma di cui si discute deve, in relazione alla cennata distinzione, indubbiamente qualificarsi come eccezionale, avendo portata derogatoria, nel sistema in vigore all’epoca della sua emanazione, rispetto ai principi generali in tema di incumulabilità tra pensione di anzianità e redditi di lavoro e prevedendo la possibilità di cumulo sia pure limitato, nel senso che l’importo della pensione viene ridotto in misura inversamente proporzionale alla riduzione dell’orario normale di lavoro (riduzione comunque non superiore al 50%) e che la somma della pensione e della retribuzione non può in ogni caso superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno. Per il pubblico impiego, con il D.M. 29 luglio 1997, n. 331, è stato emanato in esecuzione di quanto previsto dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 187, il regolamento concernente i criteri e le modalità da applicare ai pubblici dipendenti di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, per usufruire della possibilità di cumulare, ai sensi dell’art. 1, commi da 185 a 189, della legge citata, l’importo della pensione di anzianità con l’ammontare della retribuzione conseguente alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, prevedendosi determinate condizioni per l’operatività della trasformazione con diritto al cumulo parziale, tra cui quella della insussistenza nella qualifica funzionale di appartenenza di situazioni di esubero. Ma il carattere di eccezionalità della normativa, che non consente alla normativa successiva di carattere generale di incidere in senso ampliativo sulla misura del cumulo parziale, deve essere collegato anche alla circostanza che il conseguimento del trattamento pensionistico, sia pure ridotto, non è subordinato, dalla L. n. 662 del 1996, alla cessazione dell’attività lavorativa. Ed invero, il diritto alla pensione, nella generalità dei casi, ai sensi della L. n. 153 del 1969, art. 22, comma 1, lett. e), matura in capo al lavoratore interessato alla presenza di un duplice requisito, rappresentato dal raggiungimento dell’anzianità contributiva e dalla cessazione dell’attività lavorativa subordinata alla data di presentazione della relativa domanda. Con la riforma introdotta dal D.Lgs. n. 503 del 1992, il legislatore ha ribadito che il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell’attività di lavoro dipendente (art. 10, comma 6), estendendo tale requisito anche alla pensione di vecchiaia (art. 1, comma 7).

Per entrambe le disposizioni citate il requisito della cessazione del rapporto di lavoro costituisce, infatti, una "presunzione di bisogno" che giustifica l’erogazione della prestazione sociale ai sensi dell’art. 38 Cost.. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, "la prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato e la produzione, che ne consegue, di reddito da lavoro, dopo il perfezionamento dei requisiti, esclude lo stato di bisogno del lavoratore (…) e, quindi, anche l’esigenza di garantire al lavoratore medesimo (ai sensi dell’art. 38 Cost., comma 2) mezzi adeguati alle esigenze di vita". Per tali motivi, il conseguimento del diritto alla pensione è subordinato alla cessazione di qualsiasi rapporto di lavoro in essere, anche diverso da quello in riferimento al quale sono stati versati i contributi alla gestione deputata ad erogare la prestazione (cfr. Cass. n. 17530/2005). Peraltro, è stato anche chiarito che la "cessazione del rapporto di lavoro", che condiziona il conseguimento della pensione di vecchiaia, risulta, all’evidenza, affatto diversa (arg. D.Lgs. n. 503 del 1992, ex art. 10, cit., in tema di disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente ed autonomo) rispetto al cumulo tra la pensione medesima, una volta che questa sia stata conseguita, ed i redditi da lavoro oppure da altra pensione, con la conseguenza che, dalla comparazione delle discipline rispettive, non può risultare, in nessun caso, la violazione del principio di uguaglianza ( art. 3 Cost.), attesa la non omogeneità tra le situazioni prospettate (cfr. Cass. 16 giugno 2006 n. 13933).

L’interpretazione giurisprudenziale in materia, oltre a considerare, come sopra ricordato, la cessazione dell’attività lavorativa, al pari dell’anzianità contributiva ed assicurativa, quale presupposto necessario per l’insorgenza del diritto alla pensione di anzianità (Cass. civ. n. 6571/2002), ritiene momento fondante quello di presentazione della domanda (Cass. civ. n. 14132/2004). Dalle premesse svolte si desume, quindi, che alla data di presentazione della domanda di pensione non deve sussistere alcun rapporto di lavoro con il medesimo datore di lavoro, essendo in ogni caso necessaria una soluzione di continuità per conseguire il diritto al trattamento pensionistico. Ciò al fine di evitare che la percezione della pensione di anzianità avvenga contemporaneamente alla prestazione dell’attività lavorativa subordinata. In definitiva, sia in caso di medesimo che di diverso datore, risulta comunque necessaria una soluzione di continuità fra i successivi rapporti di lavoro al momento della richiesta della pensione di anzianità e alla decorrenza della pensione stessa. La eccezionalità della norma deve, pertanto, ravvisarsi, alla luce dei principi appena richiamati, nella peculiarità della fattispecie prevista, che consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente per quanto partirne ed il contemporaneo conseguimento del trattamento pensionistico di anzianità in costanza di rapporto, sia pure trasformato, con lo stesso datore di lavoro. Da tali considerazioni deve discendere pertanto l’intangibilità di una disciplina eccezionale, che sicuramente risulta derogatoria rispetto ai principi in materia pensionistica quanto al conseguimento del diritto alla prestazione, da parte di normativa generale successiva che abolisce il divieto di cumulo, ma comunque mantiene fermo il principio dalla necessità di interruzione del rapporto lavorativo. Ciò si desume anche da quanto previsto testualmente dal comma 2, parte seconda della L1. 27 dicembre 2002, n. 289, laddove è previsto che la disposizione si applica, oltre che agli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già pensionati di anzianità alla data del 1 dicembre 2002 e nei cui confronti trovino applicazione i regimi di divieto parziale o totale di cumulo (art. 44 comma 2, parte 1, L. citata), anche agli iscritti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002.

Alla luce delle svolte considerazioni deve, allora, ritenersi che non possa trovare spazio alcuna censura sul piano costituzionale per irragionevole permanere della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico, essendo la normativa generale successiva, per quanto detto, non applicabile alle ipotesi del particolare pensionamento anticipato, rappresentata dal caso di coloro, che una volta acquisito il diritto alla pensione di anzianità sono passati al regime part time senza interruzione del rapporto lavorativo, continuando, dunque, a lavorare percependo una parte di pensione ed una di stipendio, con esplicita previsione che la somma dell’ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti part time non possa in ogni caso superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno. Il ricorso deve, pertanto, essere accolto e di conseguenza la sentenza impugnata va cassata senza rinvio (ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, ultimo periodo), in relazione al detto accoglimento, in quanto la causa può essere decisa nel merito, sulla base del principio di diritto enunciato, senza che siano necessari all’uopo accertamenti di fatto, e, per l’effetto, va rigettata la domanda della V..

La peculiarità della questione trattata e l’esistenza di orientamento giurisprudenziale di merito difforme costituiscono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso;

Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, rigetta la domanda; Compensa le spese dell’intero processo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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