Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-03-2012, n. 4981 Corrispettivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La C.I.S. – Compagnia Italiana Strade s.r.l. convenne in giudizio la VENIM s.p.a. e la CATI s.p.a., esponendo di avere stipulato con le stesse due contratti di appalto per la costruzione di un fabbricato in (OMISSIS) per un importo, determinato a forfait, di Euro 3.912.161,01 con la società VENIM e di Euro 1.20.002,37 con la società Cati; che nel corso dei lavori venivano ordinate dalle committenti 34 varianti; che i lavori venivano ultimati e le opere consegnate in data 28 febbraio 2002; che le società committenti non avevano provveduto a pagarle il saldo del prezzo ed anzi, pur avendo omesso di procedere al collaudo, le avevano comunicato, in data 18 luglio 2003, la risoluzione del contratto ed applicato penali per asseriti ritardi. Tanto premesso in fatto, chiese la condanna della società convenute al pagamento degli importi ancora dovuti, oltre ad altre somme a titolo di penali e trattenute a garanzia ed al risarcimento dei danni.

Le società convenute si opposero alla domanda e nelle rispettive comparse di costituzione chiesero, in via riconvenzionale, che fosse accertata la risoluzione dei contratti di appalto per inadempimento della appaltatrice e che questa fosse condannata al pagamento delle penali applicate.

All’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Torino rigettò le domande proposte dall’attrice, che condannò, in accoglimento delle domande riconvenzioni, previa compensazione giudiziali dei rispettivi crediti, al pagamento della somma di Euro 2.348,33.

La sentenza di primo grado, impugnata da parte della società C.I.S., fu quindi integralmente confermata dalla Corte di appello di Torino con sentenza n. 324 del 5 marzo 2010. La Corte torinese motivò la sua decisione affermando, per quanto qui ancora interessa, che la società appaltatrice era inadempiente per avere eseguito soltanto tre dei cinque pozzi previsti dal progetto delle opere fognarie, progetto che era richiamato dal contratto, attendendo ad opere necessarie per l’ottenimento della concessione di costruzione, e che essa, diversamente da quanto sostenuto, perfettamente conosceva per averlo seguito nella esecuzione della parte dei lavori realizzati;

che parimenti facevano parte del contratto originario, per cui non era per essi dovuto alcun corrispettivo supplementare, i lavori di sistemazione e pavimentazione dell’esterno, anch’essi descritti nel progetto comunale richiamato nei contratti di appalto; che le penali per il ritardo erano state legittimamente applicate dalle committenti in danno della società appaltatrice, tenuto conto che la consegna dello stabile completato doveva avvenire entro 13 mesi dalla consegna del cantiere, termine che andava a scadere il 30 aprile 2001, mentre la stessa appellante aveva riconosciuto che i lavori erano stati ultimati soltanto il 28 febbraio 2002; che parte attrice non aveva dato in proposito alcuna prova che tra le parti fosse stata concordata una proroga del termine di consegna, ovvero che il ritardo era dipeso da cause atmosferiche di forza maggiore; che il ritardo nemmeno potevano essere giustificato in ragione delle 30 varianti disposte in corso d’opera, atteso che non risultava provato che esse erano state ordinate solo il 25 gennaio 2002, che i lavori aggiuntivi rappresentavano solo il 5% del valore dell’appalto ed erano da ritenersi compensati, quanto al termine per la loro esecuzione, dal fatto che le parti avevano nel contempo eliminato lavori originariamente previsti per un importo anche maggiore; che le penali applicate non potevano ritenersi eccessive, atteso che esse, in forza dello speciale meccanismo contrattualmente previsto per la loro quantificazione, erano state determinate con riferimento non all’intero periodo di ritardo, pari a 10 mesi, ma a soli 6 mesi e considerato altresì il rilevante interesse delle committenti al rispetto del termine pattuito; che dall’importo complessivo dei lavori doveva detrarsi il corrispettivo per le opere stralciate, che sulla base degli accordi intervenuti tra le parti, ammontava a complessive L. 525.000.000, con riconoscimento di L. 15.000.000 all’appaltatrice a titolo di mancato utile.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 3 aprile 2010, con atto notificato a mezzo posta il 3 giugno 2010, ricorre, affidandosi a nove motivi, la società C.I.S. – Compagnia Italiana Strade.

Resistono congiuntamente con controricorso le società VENIM e CATI. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso, nel denunziare violazione e falsa applicazione degli artt. 1657, 1659, 1660 e 1661 cod. civ., dell’art. 1350 cod. civ. e art. 2697 cod. civ., e segg., ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima la detrazione dal prezzo complessivo dei lavori stabilito dal contratto del corrispettivo per le opere "poste in detrazione", in quanto stralciate. La ricorrente critica tale statuizione sia in quanto ha calcolato il corrispettivo per tali lavori a misura, in contrasto con la previsione a forfait del contratto, sia perchè ha riconosciuto alla committente un indiscriminato ius variandi, che ha finito con l’alterare lo stesso sinallagma contrattuale, di fatto azzerando, con riferimento a tali lavori, il guadagno dell’appaltatore. Si assume inoltre che la Corte territoriale ha individuato e ritenuto dimostrati i lavori portati in deduzione affidandosi all’elenco fatto dal consulente tecnico d’ufficio, che però non è sostenuto da alcuna prova.

Il mezzo è inammissibile in quanto non attacca l’effettiva ratio della decisione. La Corte di appello, nel disattendere la contestazione dell’appellante secondo cui il valore dei lavori stralciati ammontava alla somma di Euro 117.782,61, ha infatti affermato, con accertamento di fatto che non viene specificatamente censurato in questa sede, che l’eliminazione di lavori per un importo maggiore era stato stabilito dalle parti sulla base di una serie di accordi nella somma complessiva di L. 525.000.000, con riconoscimento in favore dell’appaltatrice dell’importo di L. 15.000.000 a titolo di indennizzo per il mancato guadagno (pag. 16). Le censure sollevate, che lamentano il riconoscimento in favore delle committenti di un indiscriminato ius variandi e ne contestano l’applicazione in ordine alle spettanze economiche dell’appaltatrice, appaiono pertanto superate dalla considerazione che il giudice di merito ha posto a fondamento della statuizione una motivazione diversa, incentrata sulla premessa in fatto che lo stralcio dei lavori fosse stato oggetto di accordi tra le parti, comprensivi anche della quantificazione degli importi corrispondenti e del mancato guadagno da riconoscere all’impresa.

Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1661 e 1375 cod. civ., del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando il capo della decisione impugnata che ha riconosciuto legittima l’applicazione in danno della società ricorrente delle penali contrattuali per il ritardo.

Si lamenta, in particolare, che il giudice a quo non abbia ritenuto che il termine di ultimazione dei lavori era stato di fatto prolungato per effetto delle numerose varianti ordinate dalla committenza nel corso del rapporto, l’ultima delle quali intervenuta nel gennaio del 2002, vale a dire dopo la scadenza del termine originario. Si assume in contrario che l’esercizio dello ius variandi comporta sempre i prolungamento in favore dell’appaltatore del termine di consegna dell’opera. In ogni caso, la motivazione con la quale la Corte torinese ha escluso che, nel caso di specie, il termine per l’esecuzione non fosse stato prorogato appare incongrua, avendo il giudicante fatto riferimento, sotto un primo aspetto, al valore dei lavori aggiuntivi rispetto a quello complessivo delle opere dedotte in contratto, che è un dato del tutto autonomo ed indipendente, e, sotto altro profilo, ad una presunta compensazione degli stessi con quelli stralciati, senza considerare l’incidenza dei lavori aggiuntivi sull’organizzazione dell’appaltatore. La Corte non ha infine considerato che l’ultima delle 30 varianti era essenziale e che comportando essa una modificazione del permesso di costruire, aveva riaperto, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, il termine per l’ultimazione dell’opera, atteso che non poteva essere posta in esecuzione prima dell’approvazione della relativa richiesta in via amministrativa.

Il motivo è infondato.

La Corte di merito, nel decidere sulla legittimità delle penali per il ritardo previste in contratto ed applicate dalle società committenti, ha affermato che doveva escludersi che il termine stabilito dal contratto per il completamento e la consegna dell’opera appaltata fosse stato prolungato per effetto delle varianti ordinate nel corso del rapporto, atteso che esse rappresentavano solo il 5% del valore dell’appalto e che il tempo occorrente per la loro realizzazione risultava in concreto compensato dalla eliminazione di altri lavori, per un importo anche superiore.

Le ragioni così esposte dalla sentenza a sostegno della statuizione impugnata appaiono sufficienti ad escludere il vizio di violazione di legge denunziato. Ed invero la Corte non ha escluso a priori che le varianti potessero avere avuto incidenza sui tempi di esecuzione dell’appalto, ma lo ha negato in concreto, in forza di un apprezzamento che ha preso in considerazione, da un lato, le varianti e, dall’altro, i lavori stralciati, giungendo per tale via alla conclusione che le modifiche concordate dalle parti in corso d’opera non avevano esercitato una influenza apprezzabile sul termine stabilito per la consegna, si che esse non avevano rilievo ai fini dell’accertato ritardo con cui i lavori erano stati ultimati dall’impresa appaltatrice. Trattasi, all’evidenza, di una valutazione in fatto, di competenza esclusiva del giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della motivazione.

Anche sotto l’aspetto del vizio di motivazione, però, la critica sollevata dalla ricorrente non appare convincente.

In primo luogo perchè il giudizio sul punto espresso dalla Corte appare sorretto anche dalla considerazione che le società appaltanti avevano "inviato ben 16 diffide alla società esecutrice dei lavori per la consegna definitiva dell’opera (ultimata anche nelle rifiniture) prima dell’invio della lettera di risoluzione del luglio 2003" e che, "come correttamente affermato dal giudice di prime cure, .. se al marzo 2002 i locali potevano considerarsi ultimati agli esclusivi fini delle prescrizioni urbanistico/amministrative certamente non lo erano secondo gli accordi intervenuti tra le parti e ciò è riscontrato dal fatto che al momento dell’Accertamento Tecnico Preventivo (depositato il 18/2/2004) il fabbricato risultava ancora incompleto", sicchè, in definitiva, la Corte ha rilevato che il ritardo nella ultimazione dei lavori si era protratto ben oltre la data del 28 febbraio 2002.

In secondo luogo va osservato che non ogni variante in corso d’opera può considerarsi influente ai fini del termine della consegna stabilito dal contratto, potendo venire a tal fine in considerazione, come questa Corte ha già rilevato, soltanto quelle modifiche che, disposte unilateralmente dal committente, abbiano comportato notevoli ed importanti variazioni del progetto originario, richiedendo all’appaltatore un mutamento significativo del piano dei lavori (Cass. n. 20484 del 2011; Cass. n. 7242 del 2001). La contestazione sul punto mossa alla sentenza impugnata passa pertanto, necessariamente, per l’allegazione e la dimostrazione che le varianti ordinate avevano reso necessario in concreto anche un mutamento del piano di organizzazione e di esecuzione dei lavori. Nè sembra dubbio che un tale onere di allegazione incomba, nell’ipotesi considerata, proprio sull’appaltatore, che, quanto meno per il principio della prossimità della prova, è certamente la parte che si trova nella condizione più adatta per dedurre e dimostrare perchè ed in che misura l’esercizio dello ius variandi gli abbia reso impossibile rispettare il termine originario di ultimazione dell’opera. Al riguardo, però, il ricorso è estremamente generico, trascurando di indicare anche in cosa in concreto consistessero le varianti ordinate, limitandosi soltanto ad evidenziarne il numero, che è un dato scarsamente significativo, e ad sostenere che l’ultima di esse era essenziale, avendo comportato la necessità di modificare la concessione di costruzione, provvedimento intervenuto solo nel gennaio 2002. Quest’ultima deduzione non può però essere accolta, non apparendo sostenuta da alcun elemento probatorio e trovando anche smentita nel rilievo svolto dalla Corte di appello in ordine alla indeterminatezza e genericità di tale allegazione, laddove il giudice di merito, in ordine a tale variante, sottolinea che dai documenti prodotti "non è dato sapere neppure se la data del 25/1/2002 è riferita al tempo della esecuzione o alla sua richiesta".

Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1382 e 1375 cod. civ., lamentando che la Corte di appello abbia ritenuto legittime le penali applicate senza valutare l’entità dell’inadempimento, non considerando che non incorre in responsabilità l’appaltatore che consegna l’opera entro il periodo stabilito, salvo il compimento di interventi di rifinitura e ripristino. Il giudice a quo ha in tal modo finito anche per fare un’applicazione distorta l’istituto della clausola penale, che, in quanto finalizzato a rafforzare il vincolo contrattuale, non può essere utilizzato dall’altra parte a grande distanza di tempo dal l’asserito inadempimento.

Il mezzo è infondato.

La valutazione del giudice di merito, con riguardo all’applicazione delle penali contrattuali per il ritardo, appare adeguatamente motivata mediante richiamo all’entità del ritardo (10 mesi), considerando come data di ultimazione delle opere quella indicata dalla stessa impresa appaltatrice, ma rilevando che il fabbricato non risultava ancora ultimato al momento in cui era stato eseguito, nel 2004, l’accertamento tecnico preventivo; viene evidenziato, inoltre, lo specifico interesse delle committenti alla tempestiva consegna dell’immobile, per averlo esse destinato all’esercizio delle loro attività.

La violazione dell’art. 1382 cod. civ., è peraltro del tutto insussistente, atteso che l’istituto della clausola penale ha il precipuo scopo di determinare preventivamente il pregiudizio derivante dall’inadempimento dell’altra parte, dispensando la parte non inadempiente dall’obbligo della relativa prova.

Il quarto motivo di ricorso denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che la Corte di appello, nel valutare il certificato di ultimazione dei lavori del 28 febbraio 2002, abbia dato credito all’affermazione ivi riportata in ordine ai lavori stralciati per l’importo di L. 525.000.000, ma non abbia tenuto conto della dichiarazione con cui la direzione dei lavori "giustifica(va) la consegna della residua parte del fabbricato alla data del 28/02/02".

Il motivo è inammissibile ed anche infondato.

Parte ricorrente omette di trascrivere, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il contenuto del certificato di ultimazione dei lavori che deduce essere stato oggetto di una erronea e parziale valutazione da parte della Corte di merito.

E’ noto, per contro, che il ricorrente per cassazione che deduca l’omessa considerazione o erronea valutazione da parte del giudice di merito di risultanze istruttorie ha l’onere di riprodurre nel proprio ricorso il contenuto dei documenti e delle prove che si assumono non esaminate, al fine di consentire alla Corte di valutare la sussistenza e decisività delle stesse (Cass. n. 17915 del 2010;

Cass. n. 18506 del 2006; Cass. n. 3004 del 2004).

In ogni caso si osserva che la premessa da cui muove la doglianza, che vale a dire tanto l’accordo relativo ai lavori stralciati, quanto la dichiarazione di accettazione dell’opera alla data del 28 febbraio 2002, fossero contenute nel certificato di ultimazione dei lavori non trova alcun diretto riscontro dalla lettura della sentenza impugnata, avendo la Corte territoriale, con riguardo al valore dei lavori stralciati, fatto riferimento agli accordi delle parti, senza alcuna menzione del certificato di ultimazione.

Il quinto motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1662 in relazione agli artt. 2697, 2730 e 2731 cod. civ., degli artt. 1321, 1350 e 1352 cod. civ., dell’art. 1325 c.c., n. 1, art. 1326 c.c., e segg. e art. 1362 cod. civ. nonchè dell’art. 115 cod. proc. civ. e degli artt. 1387 e 1388 cod. civ., lamentando che la Corte di appello non abbia ritenuto impegnativa per le committenti la dichiarazione della direzione dei lavori che aveva giustificato il ritardo, contenuta nel certificato di ultimazione dei lavori sopra menzionato.

Anche questo motivo è inammissibile.

La Corte torinese ha affermato di non poter tenere conto del certificato di ultimazione dei lavori redatto dall’appaltatrice in quanto esso non era stato sottoscritto dalle committenti (pag. 14), escludendo in tal modo che esso potesse essere utilizzato come prova idonea a dimostrare fatti sfavorevoli alle società convenute. La sentenza impugnata non fa invece alcun cenno ad una eventuale sottoscrizione di tale atto da parte del direttore dei lavori.

In tale contesto, la circostanza dedotta dal mezzo, che vale a dire il documento fosse stato sottoscritto per accettazione da parte del direttore dei lavori nominato dalle committenti, costituisce un elemento di fatto del tutto nuovo, che avrebbe dovuto essere dimostrato dalla ricorrente, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione sopra menzionato, mediante la trascrizione integrale dell’atto. Tale mancanza impedisce infatti a questa Corte, che non ha accesso diretto agli atti della causa di merito, di verificare la sussistenza e decisività del vizio denunziato.

Il sesto motivo di ricorso, nel denunziare violazione e falsa applicazione dell’art. 61 c.p.c., e segg. e art. 115 cod. proc. civ. e art. 1362 cod. civ., e segg., critica l’accertamento della sentenza di inadempimento della appaltatrice relativamente alla mancata esecuzione dei due pozzi previsti dal progetto di impianto fognario, assumendo che la relativa conclusione è stata tratta unicamente dalle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, che però sul punto era illegittima, in quanto diretta non all’accertamento di elementi di fatto, ma alla determinazione dello stesso oggetto della prestazione dell’appaltatore.

Il settimo motivo di ricorso, nel denunziare violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., e segg. degli artt. 2721 e 2729 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ., censura lo stesso capo della decisione, sostenendo che la conclusione del giudice che le opere fognarie facessero parte dei lavori previsti in contratto è sostenuta da mere presunzioni, mentre avrebbe dovuto assumere valore decisivo contrario il fatto che il progetto di tali opere non risultasse allegato al contratto.

I due motivi, che possono trattarsi congiuntamente in ragione della loro connessione obiettiva, vanno respinti.

La statuizione censurata motiva sul punto osservando, mediante richiamo alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, che il progetto delle opere fognarie prevedeva cinque pozzi mentre l’impresa ne aveva realizzati tre, che esso doveva reputarsi conosciuto dalla impresa dal momento che esso lo aveva esattamente eseguito per le opere realizzate e che tali lavori rientravano certamente tra quelli previsti dal contratto, tenuto conto che in esso si faceva espresso riferimento alla concessione di costruzione e quindi al progetto dell’opera, che essendo costituita da un fabbricato, non poteva certo mancare delle fognature.

Tanto precisato, il sesto motivo è infondato, emergendo dalla lettura della sentenza che il giudicante ha fondato e motivato il proprio convincimento in forza di una autonoma valutazione dei fatti, quali risultanti anche dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio, e non in forza di una adesione acritica al giudizio da questi espresso.

Il settimo motivo appare invece inammissibile, in quanto diretto sostanzialmente ad introdurre un sindacato sulla valutazione delle prove non consentito in questa sede. E’ noto, infatti, che nel giudizio di legittimità, non essendo questa Corte giudice del fatto, non sono proponibili censure dirette a provocare un nuovo apprezzamento delle risultanze processuali, diverso da quello espresso dal giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, potendo il ricorrente sindacare tale valutazione solo sotto il profilo della congruità e sufficienza della motivazione (Cass. n. 14972 del 2006;

Cass. n. 4770 del 2006; Cass. n. 16034 del 2002).

L’ottavo motivo di ricorso, che denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata per avere ritenuto, senza motivare adeguatamente, che anche la sistemazione e pavimentazione esterna rientrasse nel novero dei lavori commissionati in quanto prevista nel progetto comunale, nonostante che tale documento non fosse tra gli allegati del contratto.

Il motivo è infondato.

La Corte di appello ha motivato in ordine alla comprensione dei lavori di pavimentazione esterna nell’oggetto del contratto affermando che il progetto comunale che prevedeva l’esecuzione di tali opere era richiamato espressamente nel contratto di appalto. La statuizione si fonda su un accertamento di fatto ed appare, sul punto, sufficientemente motivata. La critica rivolta dal ricorso non appare del resto essa stessa decisiva, atteso che la mancata mera allegazione al documento contrattuale dei progetti di alcuni lavori rispetto ad altri non può rivestire il significato che le parti li abbiano voluti escludere dall’incarico, una volta che i relativi progetti siano espressamente richiamati in contratto. Il nono motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1665 cod. civ., dell’art. 115 cod. proc. civ., degli artt. 1387 e 1388 cod. civ. ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere la Corte territoriale considerato, nel ritenere legittime le penali, che le committenti, per mezzo del direttore dei lavori, che aveva sottoscritto il certificato di ultimazione dei lavori, avevano accettato l’opera senza riserve, e non avevano dato luogo al collaudo della stessa.

Il motivo è infondato.

Con riferimento alla prima censura, appare sufficiente richiamare le considerazioni già svolte nell’esame del quinto motivo a proposito del certificato di ultimazione dei lavori, che, predisposto dall’appaltatrice, la Corte di merito ha dichiarato non utilizzabile in quanto privo della sottoscrizione delle altre parti.

In relazione alla seconda censura, va detto che l’ipotesi della accettazione tacita dell’opera appare nel caso di specie esclusa in ragione delle indubbie contestazioni insorte tra le parti e, ancor più, dalla circostanza, riferita dalla sentenza impugnata, secondo cui le committenti, a fronte dei ritardi dell’appaltatrice, le inviarono, in data luglio 2003, una lettera con cui le intimavano la risoluzione del contratto per inadempimento e, prima di essa, ben 16 diffide ad adempiere. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese di giudizio, come liquidate in dispositivo, sono poste, per il principio di soccombenza, a carico della società ricorrente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 12.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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