Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-03-2012, n. 4974 Servitù prediali apparenti e non apparenti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1) Nel 1984 D.Z.S., proprietario di un fondo sito in Comune di (OMISSIS), conveniva in giudizio davanti al tribunale di Mondovì S.E. in C., proprietaria di un confinante fabbricato con attiguo terreno.

Formulava tre domande:

a) accertamento del diritto di passaggio sul fondo della convenuta, con di lei condanna a rimuovere gli ostacoli che aveva frapposto all’altezza dell’andito di accesso;

b) azione negatoria servitutis, volta ad accertare che la convenuta non aveva il diritto di aprire vedute verso la proprietà D.;

c) rimozione di un grosso portale che invadeva l’aia comune;

domanda, quest’ultima, abbandonata in corso di causa.

Il tribunale di Mondovì rigettava le domande dell’attore, fieramente resistite dalla convenuta.

L’appello proposto da D.Z. veniva parzialmente accolto il 30 dicembre 2004 dalla Corte di appello di Torino, la quale dichiarava l’inesistenza del diritto di aprire, nell’edificio di proprietà S., vedute con affaccio sul mappale 246 foglio 4 di proprietà dell’appellante.

Sergio D.Z. ha proposto tre motivi di ricorso per cassazione, notificato il 13 febbraio 2006, resistito da S. E. mediante controricorso.

Le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

2) La sentenza impugnata ha respinto la domanda volta al riconoscimento della servitù di passaggio sotto duplice profilo. Ne ha negato la costituzione tanto per usucapione che per destinazione del padre di famiglia.

Ha richiamato l’insegnamento costante della S.C. secondo la quale il requisito dell’apparenza della servitù, necessario ai fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia ( art. 1061 cod. civ.), si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio e rivelanti in modo non equivoco l’esistenza del peso gravante sul fondo servente, in modo da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile. Ne consegue che non è al riguardo pertanto sufficiente l’esistenza di una strada o di un percorso idonei allo scopo, essenziale viceversa essendo che essi mostrino di essere stati posti in essere al preciso fine di dare accesso attraverso il fondo preteso servente a quello preteso dominante, e, pertanto, un "quid pluris" che dimostri la loro specifica destinazione all’esercizio della servitù (Cass. 2994/04; 13238/10).

Ha poi negato che sussistano in concreto riscontri di fatto che consentano di ritenere provata l’esistenza di opere visibili permanenti così qualificabili.

3) Il primo motivo di ricorso censura queste conclusioni, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1061, 1062, 2727, 2729 e 2697 c.c., nonchè omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Nella breve trattazione, parte ricorrente invoca una rilettura degli atti di causa da parte della Corte di legittimità, poichè asserisce che nel 1880 vi era stata divisione dei beni tra gli eredi di Z.B. e che da allora l’andito era stato sempre utilizzato per recarsi nel prato.

Sostiene che sussiste servitù apparente e che il quid pluris si ricaverebbe dal fatto che l’andito sarebbe stato così edificato per consentire il passaggio dall’interno di un’unica proprietà ai fondi esterni.

Con tutta evidenza si tratta di affermazioni apodittiche, che non possono superare quanto analiticamente affermato dai giudici torinesi, i quali hanno evidenziato che funzione percepibile dell’andito è di collegare l’edificio S. sito sul mappale 248 con le parti esterne.

Ha avuto cura di precisare anche che il c.t.u non aveva rilevato alcuna traccia di sedime viario, neppure rudimentale, tale da sorreggere un percorso a servizio del mappale 246.

Non può quindi sussistere una falsa applicazione di legge, essendo stati correttamente inquadrati i fatti ricostruiti dalla Corte, posto che, in assenza di segni specifici dell’esercizio della servitù (il quid pluris descritto in giurisprudenza) costituisce mera petizione di principio sostenere che l’esistenza stessa dell’andito, avente autonoma ragion d’essere per la proprietà della convenuta, sia prova della servitù. 4) Contro questa ricostruzione si infrange il secondo motivo di ricorso, che denuncia omessa e o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Parte ricorrente nega che il terreno in contestazione colleghi il mappale 249 con altra porzione del mappale 248 di proprietà S. e sostiene che l’andito di cui si tratta accede a una striscia di terreno denominata "sito di casa", denominazione che trae dall’atto notarile di divisione del 1800.

Parte ricorrente sostiene che la stessa relazione del consulente di parte S. avrebbe evidenziato come proprio quell’andito fosse il solo passaggio della casa al prato, inizialmente unico e poi diviso.

Trattasi palesemente di una interpretazione dello stato dei luoghi che contrappone alla puntuale ricerca effettuata dalla Corte di appello (e prima dal tribunale) una concezione del requisito dell’apparenza che è stata già disattesa dalla sentenza impugnata.

Si attribuisce infatti alla possibilità di utilizzo, da parte del vicino fondo dominante, di luoghi indiscutibilmente facenti parte della consistenza del fondo della parte convenuta, il carattere di opere visibili e permanenti destinate al servizio di detto fondo.

Era invece necessario, ha evidenziato la Corte d’appello, almeno un segno visibile del "reiterato passaggio", restando altrimenti esclusa la configurabilità come servitù apparente di una situazione dei luoghi che ha altro fondamento.

Questa analisi dei fatti, plausibile e coerente, non è nè illogica nè incongrua. La diversa identificazione dei fabbricati proposta in ricorso (pag. 19) è ipotetica e non spiega da dove la Corte dovrebbe desumere che vi sia stata erronea lettura da parte dei giudici di appello. Il rinvio alle "mappe catastali e comunque alle descrizioni in atti" (pag. 22) evidenzia il difetto di specificità del ricorso su questo punto, di cui peraltro è dubbia la decisività, ben potendo giustificarsi, a fronte di un’evidente assenza di segni del passaggio preteso, altro percorso a favore del fondo attoreo.

Giova ribadire infatti che la ricostruzione storica poco vale al fine di superare i rilevamenti della condizione dei luoghi su cui ha fatto perno la sentenza, laddove non risulti documentato in atti l’effettivo esercizio del passaggio di cui si pretende il riconoscimento.

5) Anche il terzo motivo – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia – risulta infondato.

Ancora una volta senza indicare le fonti processuali delle sue affermazioni, parte ricorrente afferma che il passaggio è sempre stato esercitato per parecchi decenni e che l’apertura della porta sull’andito e il passaggio stesso non possono essere ricondotti a mera tolleranza, che spettava peraltro alla S. dimostrare.

Venuta meno però la prova del passaggio con opere visibili e permanenti, la doglianza rimane priva di rilievo quanto all’acquisto per usucapione.

5.1) Quanto poi alla costituzione per destinazione del padre di famiglia, non può certo trovare ascolto la dedotta omissione di motivazione, posto che la sentenza ha fatto leva su insegnamento anche di recente ribadito da questa Corte: "Quando il momento costitutivo di una servitù prediale apparente e discontinua risale ad epoca precedente alla vigenza dell’attuale codice civile, detta servitù deve essere necessariamente stabilita mediante un titolo, ai sensi dell’art. 630 cod. civ., del 1865, non prevedendo detta norma la costituzione delle servitù continue non apparenti e di quelle discontinue, siano o non siano apparenti, mediante usucapione o per destinazione del padre di famiglia" (Cass. 28641/11). Poichè la suddivisione del compendio risale ad epoca remota, non era necessaria altra argomentazione.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna del soccombente alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione delle spese di lite liquidate in Euro 2.000,00 per onorari, Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *